COME LA CRESCITA ECONOMICA E’ DIVENTATA NEMICA DELLA VITA
Postato il Lunedì, 04 novembre @ 17:40:00 CET di Truman
DI VANDANA SHIVA
theguardian.com
L’ossessione della crescita ha travolto il nostro interesse per la sostenibilità, la giustizia e la dignità umana. Ma le persone non sono merci da usare e gettare – il valore della vita si trova fuori dallo sviluppo economico
La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (PIL), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse.
Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il PIL si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita”, misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci.
Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi. I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate.
L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita é basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una carestia d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 km, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.
Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica, produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprare di più ogni stagione.
La natura si impoverisce, la biodiversità é erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno é una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando é stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori é aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.
La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita é commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso, e la gente diventa più povera.
Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per casa. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, essa riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Essa era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.
Il modello dominante di sviluppo economico é infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani.
Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo é la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo é la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo é la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.
L’aumento del flusso di denaro attraverso il PIL si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete conduce essi all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia.
Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen, hanno riconosciuto che il PIL non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo é il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la felicità nazionale lorda al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il PIL, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per rinnovare la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita é la vita stessa.
Vandana Shiva
Fonte: http://www.theguardian.com
Link: http://www.theguardian.com/commentisfree/2013/nov/01/how-economic-growth-has-become-anti-life
1.11.2013
Traduzione per http://www.comedonchisciotte.org a cura di ALEX T.
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“Non è compito della Chiesa offrire ricette per il migliore funzionamento della società“?
di Franco Damiani
Risposta ad Antonio Baldo
Signor Baldo, nel suo articolo del 13 luglio “Così papa Francesco sta spiazzando i cattolici” si legge tra l’altro: “Non dico della Chiesa gerarchica, che parla per principi ritenuti universali e che, giustamente, non ritiene suo compito (anche perché priva delle adeguate competenze) offrire ricette per il migliore funzionamento della società“. Non la faccio lunga (non senza aver notato per inciso quel “ritenuti”): ma ha mai sentito parlare della dottrina sociale della Chiesa e della Regalità Sociale di Cristo? Ha mai letto qualche riga delle grandi encicliche “politiche” quali la “Libertas”, l’”Immortale Dei” e la “Rerum Novarum” di Leone XIII, la “Quas primas” e la “Quadragesimo anno” di Pio XI? E non crede che sarebbe un po’ strano e un po’ triste che la Chiesa, “madre e maestra”, “colonna e fondamento di verità“, non avesse “ricette” da offrire “per il migliore funzionamento della società“? Per secoli gli Stati cristiani si sono retti sulla filosofia del Vangelo, come ricordava proprio Leone XIII nella citata “Immortale Dei” (1.11.1885): “Vi fu già tempo che la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello Stato, quando la religione di Gesù Cristo posta saldamente in quell’onorevole grado, che le conveniva, traeva su fiorente all’ombra del favore dei Principi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il Sacerdozio e l’Impero , stretti avventurosamente tra loro per amichevole reciprocanza di servizi.
Ordinata in tal modo la società, recò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e durerà la memoria, affidata ad innumerevoli monumenti storici, che niuno artifizio di nemici potrà falsare ed oscurare “. E lei scrive che “giustamente” la Chiesa “non ritiene suo compito” additare un modello di società? I casi sono due: o ha ragione lei, e allora né Leone XIII né Pio XI né gli altri pontefici che per quasi duemila anni hanno insegnato concordemente questa dottrina (potere diretto o indiretto, ma comunque potere della Chiesa “ratione peccati” negli affari temporali, e dovere degli Stati di conformarsi alla “filosofia del Vangelo”) erano veri papi, oppure non lo sono quelli (compreso quello del titolo) che insegnano quella da lei sintetizzata. Tertium non datur.
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La Decrescita Felice come forma di Resilienza dal Nuovo Ordine Mondiale
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A cura della Redazione Virtuale
* «Dùciu a san che, fuor di un incendi, di na pesta, e da l’invasion dai Turcs, i sincsènt àins da la nustra parrocchia (1444-1944), a no recuàrdin nuja. La so storia a è duta lì, lavorà, preà, patì, murì» (Pier Paolo Pasolini, su «Stroligut di ca da l’aga», agosto 1944).
a posizione di Pier Paolo Pasolini nei confronti del dialetto ha una duplice motivazione: una affettivo-romantica, legata al carattere bucolico dell’entourage familiare contadino della madre; l’altra politica, di opposizione al paradigma che recita: dialetto=autonomia regionale=frammentazione nazionale.
Con il friulano non aveva un rapporto distaccato. Lo coltivava con affetto, come successivamente farà con altri dialetti: il romanesco (Ragazzi di vita, Una vita violenta, Accattone), il napoletano (Decameròn), il lucano, il calabrese, l’abbruzzese (Vangelo secondo Matteo) e le lingue e i dialetti africani e orientali. Ne paventava la fine, anzi la preannunziava. E così gli pareva imminente la fine di ogni civiltà contadina e artigiana in ogni parte del mondo. Nei suoi viaggi in Africa e in Oriente lamentava come ogni cultura e, in particolare, ogni lingua venisse sopraffatta dal modello occidentale.
Si accostava a qualsiasi dialetto come ci si accosta una lingua straniera; non come a un espediente letterario o formale, da sfruttare per aggiungere «colore», ma con il rispetto che si riserva a una cultura da difendere e salvare dall’aggressione di una barbarie massificata.
«Amica gente, io son dei vostri». (1941)
«Io non saprei proprio dire il motivo, il perché lui amasse tanto i contadini».
(Dino Peresson1948)
«Non ho campanile, né culto dialettale». (1958)
«Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita». (1962)
«L’Africa è un’immensa riserva di sottoproletari». (1963).
«Finisco così biblicamente maledicendo la fiorentinità». (1968)
«Oggi il dialetto è un mezzo per opporsi all’acculturazione. Sarà, come sempre, una battaglia perduta». (1973)
«Quest’uomo non ha più radici, è una creatura mostruosa del sistema; lo ritengo capace di tutto». (1974)
Durante la guerra aprì una scuola (1943), fatta subito chiudere dal Provveditorato di Udine. Perciò le lezioni continuarono in privato. Gli alunni apprendevano a scrivere versi in italiano e in friulano. All’interno di un sistema scolastico «purista», come quello italiano, Pasolini sfidava i luoghi comuni, secondo cui il dialetto possono usarlo solo i filologi. Fondò una specie di laboratorio linguistico, l’«Academiuta di Lenga Furlana» e mentre continuava a registrare gli idiomi locali durante lunghe uscite in bicicletta, curioso di approfondire le sue conoscenze, sempre di più si avvicinava alle posizioni dell’autonomia friulana. Autonomia che era approvata dal partito della Democrazia Cristiana, che vedeva bene la regione a far da ideale cuscinetto contro l’Est, ma avversata dal Partito Comunista, che, dopo il referendum, sognava di ricevere il mandato parlamentare per governare l’Italia unificata e non vedeva di buon occhio un Friuli forte (B. D. Schwartz, Pasolini Requiem, Marsilio 1992). Tuttavia Pasolini voleva che fosse il PCI ad abbracciare la causa autonomista «…per far sì che il nuovo Ente Regione non diventi il covo di interessi locali, di campanilismi» (Ibidem).
Nonostante la morte del fratello, giustiziato da una brigata partigiana filo-titoista, nel 1946 Pasolini prese la tessera del PCI, che considerava l’unico partito in grado di assicurare un futuro civile alla nazione. Ne verrà presto espulso, in seguito all’«incidente» giudiziario di Ramuscello, relativo al comportamento assunto con alcuni ragazzi conosciuti alla sagra di Santa Sabina (1949).
In seguito i critici lo attaccheranno per quell’attingere per i contenuti delle poesie, dei romanzi e dei film negli ambienti del sottoproletariato, ma soprattutto «impresentabili» di fronte al consesso internazionale di paesi civili di cui l’Italia aspirava a far parte: il Nord Europa, gli Stati Uniti. Lo facevano anche i neorealisti, ma nessuno «scandalosamente» come lui. In questo, alcuni scorsero delle affinità con l’opera di Caravaggio, il pittore lombardo che visse a Roma nel ‘500. Lo stesso Contini, lo stesso Calvino, lo stesso Moravia. non potevano fare a meno di apprezzarlo per la straordinaria versatilità, e per la puntigliosità con cui si sottoponeva al lavoro artistico, ma un abisso li separava.
A Roma (1950) apprese subito il romanesco della periferia, quello degli emigrati meridionali e dei ragazzi di strada. Non quello dei cultori e dei poeti dialettali locali.
Quando si accorgerà che anche nelle periferie romane non si parla più il romanesco genuino dei Ragazzi di vita e di Una vita violenta, abbandonerà il progetto dei romanzi ‘di borgata’ a cui aveva continuato a lavorare fino ai primi anni ’60, perfezionando le espressioni gergali, con la «consulenza» dei ragazzi che frequentava. Dei personaggi di Petrolio nessuno parlerà il dialetto perché, con la televisione, ovunque si era imposto l’italiano degli –ismi, degli –isti e delle –enze. Accattone sarà l’ultima opera contaminata col dialetto. Nel Decameròn farà parlare napoletano ai suoi personaggi, ma, eccezione, è solo un espediente stilistico. A Gennariello, lettore ideale di alcuni articoli del ’75 (Lettere Luterane), tenta di restituire la memoria delle cultura a cui apparteneva. Ma ormai il dialetto è un ricordo.
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Recuperare la cultura contadina
19 Aprile 2012
Sono un vecchietto che scende alla prossima ed ha un problema: quello di essere proprietario, da sempre, di una piccola azienda agricola.
Ho aperto la mia partita IVA nel 1960, sono laureato in Scienze Agrarie, mi sono sempre occupato dell’azienda, ma ho fatto anche diverse altre cosette in giro e ne ho anche imparate alcune. Quello che ho sempre avuto dentro è l’agricoltura.
Ho avuto la fortuna di vedere e capire un poco la cultura e la civiltà contadina mentre stava morendo; ho visto il mondo agricolo modernizzarsi e spopolarsi con la meccanizzazione e le altre scienze e ho visto morire anche lui. Mi ritrovo nel mondo agricolo post moderno dell’agroindustria e degli OGM, che ha un futuro orripilante.
Prima di scendere, vorrei sapere se esiste ancora qualche persona non sbranata dall’industria culturale in grado di raccogliere e trasferire nel futuro i rimasugli della cultura di quel mondo rurale che negli ultimi millenni è stato (con la pastorizia e la pesca) la fonte esclusiva di tutte le risorse umane e dell’energia che hanno permesso di realizzare tutto quello è stato fatto sino alla fine del XVIII° secolo.
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SAGGIO: LA CIVILTA’ CONTADINA IN IRPINIA
INDICE
– Premessa
Quarant’anni di storia: una presenza senza protagonismo
La famiglia, la grande esclusa
e) tra familismo e solidarietà
La cultura, un’identità irriconoscibile
b) proverbi, filastrocche, indovinelli
g) il malocchio;
h) credenze e superstizioni.
– Obiettivo campagna: una realtà con tanta «luce» – Foto con didascalie (non riportate)
PRESENTAZIONE
Chi legge, meditando, le nutrite pagine di questo saggio di Giuseppe Iuliano, scopre e s’accorge di quanto la società irpina — e, omogeneizzata ad essa, la società meridionale d’Italia — sia posta di fronte al problema dell’ulteriore logorio della sua vita civile-economico-sociale, logorio che mette in pericolo definitivamente la sua stessa sopravvivenza.
Questo libro di Iuliano è, perciò, una preziosa e meticolosa ricerca e, con forza, una pregnante analisi sui grandi momenti di frattura degli ultimi quarant’anni.
Lo scrittore Giuseppe Iuliano riscontra la sua fantasia poetica in questo saggio “La civiltà contadina in Irpinia” con la realtà della vita vissuta: un saggio che acquista corposità e struttura per la incisiva focalizzazione storica della controversa esplorazione del mondo contadino, e crea — per la storia letteraria e per gli approfondimenti di ricerca socio-politica — il primo filone interpretativo di quel mondo degli anni ’30, data sotto la quale si ferma “gran parte — come afferma l’A. — del recupero del patrimonio di cultura popolare (dell’ Irpinia)”.
È il primo carattere d’originalità dell’opera di Iuliano che sposta, peraltro, la sua ricerca, già nella titolazione del saggio, da “Società contadina” a “Civiltà contadina” per definire più a fondo la sua ricerca al fine di storicizzare l’insieme delle conquiste che il contadino è riuscito a fare e quello che di queste resta nella civiltà industriale e post-industriale.
La natura estremamente sensibile di Giuseppe Iuliano e una finezza di ingegno e di cultura assai rara tra i giovani di oggi, pur volte al pessimismo per la sua percezione acutissima di condizioni aggettive e reali, gli hanno fatto maturare questo “frutto culturale” di intelligenza profonda della vita e della storia che si è svolta e si svolge sotto i suoi occhi.
Iuliano, quindi, sconta quasi del tutto la fine della “Civiltà contadina” con la imposta, ma non assorbita, e perturbante civiltà industriale, mentre la classe dirigente italiana e meridionale riposa ancora placida e incosciente su quell’antico vulcano, sempre in procinto di scatenare micidiali eruzioni, che era ed è, per lui, il mondo contadino e bracciantile del Mezzogiorno e dell’ Irpinia.
Rossi Doria fu veramente veggente, allorché, in “Scritti sul Mezzogiorno”, confessò prevedendo che: “La discussione sui mutamenti della realtà meridionale e sulla revisione delle politiche che la riguardano è oggi più aperta che mai. Saranno i giovani a riprenderla e portarla avanti. Presupposto per farlo è, tuttavia, la conoscenza e la valutazione obiettiva e critica del passato…”.
Iuliano è un giovane che, attraverso una profonda conoscenza ed una acuta valutazione obiettiva e critica del recente passato, prospetta la centralità della “civiltà contadina”.
Dalla sua ricerca affiorano i messaggi sconosciuti di chi, nel e col lavoro dei campi, voleva pane, migliori condizioni di vita, una assistenza sanitaria da sottrarre alla superstizione e alla fattucchiera, un pezzo di terra, sempre aspettando di superare quel giorno in cui “la nostra vita di uomini / passa oggi di bocca in bocca / nelle vuote promesse / di funesti liberatori…” e “la vita sonnolenta / consuma nel desiderio di pace / l’antica rabbia”, (da “II Sud non è forse…” di G. Iuliano – 1980).
Ma, “il nuovo corso non registra accettazioni passive o facili integrazioni e fa vivere situazioni di conflitto, perché il contadino conserva forme di sospetto e di incertezza.
Passano quarant’anni di storia con “una presenza… contadina… senza protagonismo” in una società laddove la famiglia, tra feudalesimo e solidarietà, resta “la grande esclusa” e laddove la cultura contadina si spegne lentamente, offrendo di sé una “identità irriconoscibile”.
Un triste destino accompagna la civiltà rurale, tant’è che “i bisogni del riscatto, mai sopiti, — scrive l’A. — sono contenuti nel silenzio, nell’attesa di momenti più felici, per esplodere nella rivendicazione… Ma, la protesta è stata poca cosa ed è venuta tardi” a favore di una agricoltura, senza guida e, soprattutto, senza strutture.
E le stesse forme di assistenza attraverso la spesa pubblica per trasferimenti sociali hanno fatto dimenticare troppo spesso le condizioni di vita, di isolamento e di emarginazione della reale “qualità” del lavoro nelle campagne e della vita civile del contadino.
“Non fa meraviglia, pertanto — rivela l’A. — l’analisi tendenziosa di una certa cultura che scarica sui deboli le responsabilità della loro mancata emancipazione”, fornendo dell’ Irpinia e del Sud intero aspetti negativi “di forza subalterna, di cultura paesana, di associazionismo campanilistico e corporativo; o come pericolosa impulsività…, fonte di indisciplina e di disgregazione”.
Ma Iuliano insorge e protesta “La speranza / di vivere meglio / comincia con un pezzo di terra”, purché il populista di ieri e di oggi non lasci “…smorzare / questa progenie / di uomini contadini”. (Da “Malinconia di terra” di G. Iuliano – 1976).
Giuseppe Iuliano, da uomo che vive nel Sud, rileva così la matrice della crisi di identità, negli ultimi quarant’anni, che travaglia il contadino irpino.
Acutamente sprovincializza la ricerca su quest’area depressa, non a torto definita “Mezzogiono del Mezzogiorno” e, più acutamente riporta alla nostra memoria la felice espressione di Giustino Fortunato: “II Mezzogiorno in politica ha sempre viaggiato accanto all’altra Italia, come un vaso di terracotta accanto a uno di ferro”.
Che, in senso traslato, è applicabile a questo saggio: “La civiltà contadina ha viaggiato, negli ultimi quarant’anni, con la civiltà industriale”: un vagone-merce, attaccato alle carrozze-letto e di prima classe dei treni rapidi diretti verso il triangolo industriale d’Italia!
In quel carro-merci, nascosto tra la terra, si trasporta ancora, per l’uso, l’ “oro residuo” dell’antica ricchezza primaria d’Italia.
Né, a caso, Antonio Ghirelli, nella prefazione allo splendido saggio di Franco Compasso “La Notte del Sud”, giustamente esclamava:
“Non c’è via di uscita all’inflazione e alla recessione, non c’è via d’uscita al terrorismo e all’assenteismo nelle cabine elettorali e sul posto di lavoro (n. d. r.: anche contadino), se non si livellano le condizioni morali e materiali di vita delle popolazioni meridionali sul parametro di quelle del resto d’Italia.
“La civiltà contadina in Irpinia” resta quindi un libro di analisi — sofferto e meditato — e di architettura storico-ambientale sui “presepi dell’Osso”: un libro non riassumibile, da leggersi integralmente per la preziosità del suo contenuto, che non emoziona, ma incastra e cesella, in ogni frase e in ogni rigo, gradatamente, la struttura psichico-morale dell’Uomo-contadino.
Elenino Manganelli
PREMESSA
La civiltà contadina, con i suoi rituali magici e le sue tradizioni, ha, da sempre, esercitato fascino e curiosità.
La conoscenza del misterioso ha spesso stimolato la fantasia e la creatività, ha coltivato nostalgie e ricordi, ha favorito la sopravvivenza di una cultura non ufficiale, garante, comunque, dei rapporti e della vita contadina.
Tanta conoscenza e vitalità umana non possono restare né approssimative né essere esposte all’aggressività della civiltà industriale.
Nasce, perciò, il bisogno del recupero e della salvaguardia; numerosi studi (antropologici, sociologici, storici, etc….) vengono intrapresi per esplorare il mondo contadino.
La ricerca si rivela vasta e difficile; alcuni risultati sono apprezzabili, altri discutibili, filtrati da interessi ideologici e passionali che deviano o snaturano i significati della ricerca stessa.
In questa direzione l’ Irpinia ritrova le sue radici e, attraverso l’opera del D’ Amato, recupera gran parte del patrimonio della sua cultura popolare.
Ma la ricerca si ferma poco oltre gli anni ‘30!
Le attenzioni degli anni successivi sono rivolte alla guerra e alla ricostruzione.
Il ‘43, infatti, procura un brusco passaggio della vita e della realtà “cafona” che, anonima e schiava per secoli, può finalmente emergere ed assicurare la sua presenza nella storia del paese.
Da questo momento, quasi in sintonia, inizia il fatidico declino della sua civiltà, delle sue abitudini, delle sue reazioni e del suo stesso linguaggio.
La continuità gestuale e comportamentale, scontrandosi con nuovi modelli di vita, viene contaminata, si affievolisce ed offre lo spazio a dubbie interpretazioni.
I tragici avvenimenti del novembre ‘80, poi, dimostrano ancora, non senza meraviglia e provocazione, la poca ortodossia dell’informazione, impreparata ad esaminare le condizioni socio-culturali dell’ Irpinia: forzati stereotipi di letteratura neorealistica tentano di eleggere a modelli di stratificazione sociale sparuti gruppi di contadini, frastornati dal dolore, dalla confusione e dal bisogno. Questi aspetti, così oscuri e raccapriccianti, vanno, invece, riesaminati in modo più consono ed approfondito.
L’interrogativo di soddisfare l’esigenza conoscitiva di quanto sia rimasto della vecchia civiltà, dal secondo dopoguerra ad oggi, avvalora il significato di questa indagine.
Tale intervento, inoltre, serve a promuovere giustizia e riabilitazione di una terra sfruttata e povera, vilipesa dalla natura e della storia, ignorata e disprezzata dagli uomini, forse perché fatta oggetto di frettolose analisi di folklore e di sottosviluppo e mai conosciuta, interamente, nella sua umanità.
G. Iuliano
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C A P I T O L O I
QUARANT’ ANNI DI STORIA:
UNA PRESENZA SENZA PROTAGONISMO
L’armistizio del settembre ′43 trova l’Irpinia in una condizione quasi feudale; la vecchia nobiltà presiede le amministrazioni dello Stato, controlla l’intera economia e possiede gran parte della proprietà terriera.
I contadini, già soggetti a vessazioni, a tasse e a versare parte del raccolto nell’ammasso, si trovano in una precarietà esistenziale, resa ancora più grave dall’ignoranza, dallo sbandamento politico e dalle difficoltà occupazionali ed economiche.
La privazione e l’esasperazione, divenute insostenibili, favoriscono gli assalti di case e municipi, l’occupazione delle terre e i primi scontri contro il potere statale locale e contro le forze dell’ordine.
Calitri, Lioni, Vallata, Bisaccia, Aquilonia, Monteverde, Lacedonia sono teatro di lotta che, proseguite fino agli anno ′50, assumono l’aspetto e il significato di “movimento dei contadini poveri”.
“Qui il movimento contadino — scrive Cocozzello — si presentò più forte poiché ‘maggiori erano le sperequazioni nella distribuzione della proprietà…’”. Molti sono arrestati e alcuni condannati a vari mesi di carcere.
“La figura sociale che spicca, in queste lotte, è quella del contadino povero, proprietario e affittuario del latifondo che, di fronte all’approfondirsi della sua miseria, cerca di moltiplicare i suoi sforzi ed il carico di lavoro suo e della famiglia, tentando faticose quanto inutili riconversioni colturali sul suo appezzamento, impiegandosi come avventizio, per un salario di fame, nelle lavorazioni stagionali delle grandi proprietà.
Questa figura è limitrofa e tende continuamente a confondersi — data la precarietà della sua situazione — con quella del bracciante, o meglio del contadino povero senza terra, anch’esso presente nella rivolta contadina della Campania interna” (1).
1) Nunzia Marrone, II Movimento Contadino in Campania, in Campagna e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, vol. I, De Donato Editore, Bari, 1979, pag. 125.
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Questi movimenti improvvisi, privi di programmazione e di capacità organizzative, sono più espressioni di un ribellismo anarcoide, occasionale, che il risultato o la richiesta di spazi politici o di avvio di un nuovo processo rivoluzionario.
Le ragioni di tanta approssimazione — non revancismo sociale ma puri fenomeni di jacquerie — sono spiegabili con le condizioni stesse del contadino: ignoranza, analfabetismo, emarginazione, sfruttamento.
L’ambiente in cui vive, una struttura statico-arcaica, presenta un’economia estensiva e di sussistenza, gravi problemi di occupazione e di sottosviluppo, acute tensioni sociali, uno squilibrio tra popolazione e risorse.
L’insufficienza dei crediti, la mancata capitalizzazione del lavoro, l’assenza di economia di mercato e il persistere del latifondismo (alle vecchie baronie si sono sostituite la media e la piccola borghesia) mantengono le categorie dei contadini “in uno stato di sudditanza, di miseria e di precarietà” (2).
L’esclusiva attività cerealicolo-pastorale (“legge d’inerzia”, secondo la definizione del Sereni), tramandata da padre in figlio, non soddisfa ormai da tempo le necessità della famiglia rurale (3).
Le zone interne, infatti, hanno “un’agricoltura tradizionale, con un entroterra collinare e montuoso dalle scarse vocazioni colturali, povero e male attrezzato” (4).
Ad accrescere le condizioni di miseria c’è l’habitat; masserie disperse nelle contrade, prive di conforts e di servizi igienico-sanitari, assicurano un sistema di vita pari a quello delle bestie, con cui la famiglia del contadino divide il ricovero ed il sonno.
2) Carmelo Formica, Lo spazio rurale nel Mezzogiorno, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1976.
3) Già nel secolo scorso furono elaborati studi per rendere produttiva l’agricoltura irpina:
“Sui provvedimenti intesi a rimuovere efficacemente e rapidamente il miglioramento delle condizioni agricole della Provincia”—Relazione del prof. Pasquale Preda, Tipo-Litografia E. Pergola, 1896. Dello stesso periodo è lo studio del prof. Succi della Scuola Enologica di Avellino. Per capire la capacità produttiva è sufficiente citare un detto di Conza: “Chi la vole purtà la nov’ a mamma! / Nu tummelo summenate: trènda gregne” Trad.:
Chi vorrà (avrà il coraggio di) portare la notizia a mamma: con un tomolo (di grano) seminato (abbiamo raccolto) trenta covoni! da F. Giorgio, L’Arco della terra (Tradizioni irpine) Edigrafital, Teramo, 1980. pag. 72.
4) N. Marrone, il Movimento contadino in Campania, op. cit., pag. 173.
3
Parimenti drammatico si rivela il problema dell’alimentazione (5).
Le legittime aspirazioni popolari (laddove esistono), di modificare lo “status” di sopravvivenza, si disperdono, invece, in fermenti frammisti di disorganizzazione e di violenza.
Gli episodi di lotta del 43-44 e degli anni successivi “non esprimevano, dunque, una capacità di autogestione da parte del ceto contadino o di una sua partecipazione più attiva, nell’immediato, alla gestione del potere” (6).
Ed ancora “se la protesta contadina prendeva le mosse dalla rabbia dei cafoni contro l’assetto economico e di potere vigente, lo faceva, però, a partire da un tessuto produttivo e da una struttura sociale in cui erano scarsissimi gli elementi di socializzazione”(7).
L’occupazione delle terre o le marce della fame, come qualcuno le ha definite, hanno il merito, comunque, di favorire la realizzazione della riforma agraria, da cui la provincia di Avellino viene puntualmente esclusa; nelle sue aree continua a sopravvivere una forma tipica di latifondo contadino. Ma il movimento contadino non s’arrende: continua la sua azione lesa al riconoscimento dell’inclusione dell’ Irpinia fra i beneficiari della riforma agraria.
“Per circa tre anni — rileva Cocozzello — i contadini irpini lottarono per l’estensione della legge”.
L’aspra polemica tra i sostenitori e gli avversari di tale provvedimento non riesce a dare l’intervento riformatore capace di creare “riqualificazione e sviluppo dell’agricoltura, un livello di assistenza tecnica e creditizia adeguato ai problemi posti dalle caratteristiche del suolo e sostenute da una politica che configurasse un rapporto dinamico con le zone, ben diverso dall’assistenzialismo che, negli anni avvenire, doveva caratterizzare l’intervento statale nelle are agricole più povere del Mezzogiorno” (8).
La provincia diviene, più tardi, beneficiarla della riforma agraria e dell’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno; quest’ultima avrebbe dovuto permettere il superamento dei “frammentari e d insufficienti
5) Pur con inflessioni dialettali diverse, i mietitori di Teora, Conza e Nusco denunciano, con un canto bonario, la loro fame: “Mieti, fauci mia cu na cipolla / ma forza nu ‘nginnè a ru garamellu” (versione di Nusco) Trad.: Mieti, falce mia, con una cipolla ma forza non ce n’è al polso.
6) Ivi, pag. 128
7) Ivi, pag. 127.
8) N. Marrone, cip. cit., pag. 147.
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interventi statali”, ma non raggiunge i risultati propostisi, rivelandosi, quasi
sempre, scollata e scoordinata nelle decisioni.
La valorizzazione di quest’area depressa, non a torto definita Mezzogiorno del Mezzogiorno (9), resta una questione tormentata ed aperta, perché sono sopravvenuti altri problemi.
La sicurezza di migliorare le proprie condizioni, attraverso la formazione di piccole proprietà, si rivela illusoria; l’esplosione economica dell’Italia centro-settentrionale, negli anni 50-60, procura il definitivo sfaldamento della famiglia contadina. Inizia il flusso migratorio: il “piatto di lenticchie” non soddisfa più le mense.
La flessione del numero degli abitanti diviene incontrollabile. Ad essa va connessa tutta una serie di problemi psico-sociali: smembramento del tessuto familiare, mancato processo di identificazione dei bambini nel padre, il doppio ruolo della madre. Non resta che l’amara constatazione di vedere i paesi “assumere irrimediabilmente l’aspetto di squallide lande in cui la miseria e la desolazione”(10) dominano incontrastate.
Comincia il processo di degradazione dell’agricoltura irpina.
“Negli anni dal ′50 al 60 la produzione avrebbe registrato forti contrazioni in tutti i settori: la produzione delle castagne doveva diminuire della metà; il numero dei capi bovini di oltre il 10%, quello degli ovini e caprini 50%, la produzione di legna da ardere del 60%, 1/4 di quella del 50, legname da lavoro a poco più di 2/3.
Di pari passo con l’impoverimento dell’agricoltura sarebbe proceduto l’esodo agricolo” (11).
“La terra ai contadini” diventa un vecchio ed usurato slogan. Le vecchie forme di servitù sono solo un ricordo; nonostante l’affrancazione e la liquidazione dei censi (Mirabella, Nusco, S. Angelo dei Lombardi ed Ariano sono gli ultimi capisaldi di protervia capitolare a cedere) il contadino deve emigrare. La gente rurale e soprattutto i giovani, venuti a contatto con nuove forme di economia e con tenori di vita più alti, propri della città, abbandonano in massa la terra.
9) I. Talia, // Mezzogiorno del Mezzogiorno, in “Rassegna Economica, 1969 pp. 1417-1427.
10) E. Manganelli, Basta con le due Italie!, Tip. Battista, Avellino, 1981, pag. 200.
11) N. Marrone, op. cit., pag. 147.
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“Gli effetti demografici salienti dell’emigrazione si riferiscono, oltre che alla diminuzione della popolazione nelle zone di fuga, alle variazioni nella composizione del sesso e d’età e tra attivi e inattivi della popolazione che resta. L’emigrazione com’è noto interessando soprattutto le unità attive, di sesso maschile e di età giovane, tende a modificare la struttura demografica della popolazione nei comuni di origine e, in particolare ad aumentare il peso percentuale degli inattivi, delle donne e degli anziani” (12).
In questa fuga dalla miseria, la provincia di Avellino, nel ventennio 51-71, vede emigrare 181.318 unità, pari a quasi la metà della popolazione residente negli anni ′80.
Le conseguenze economico-sociali conducono tutte ad una sola nuova realtà: non più contadini!
L’esodo agricolo ha cifre da capogiro.
In Irpinia la flessione complessiva è di circa il 65% “con valori che in sette comuni (Sirignano, Rocca Bascerana, Pietrastornina, S. Angelo a Scala, S. Michele di Serino, S. Mango sul Calore, Nusco) superano finanche 1’80%, evidenziando in maniera eclatante il grave stato di disagio della popolazione locale, che è stata tra le prime ad alimentare i massicci flussi emigratori del dopoguerra dal Mezzogiorno” (13).
Le destinazioni sono le più disparate.
L’esodo agricolo — secondo Marselli — diventa un’esigenza imprescindibile per garantire un equilibrato sviluppo economico e sociale, ma esso deve confrontarsi con un punto ottimale obbligato, per evitare che diventi patologico (14).
Ma l’esodo ha avuto, forme incontrollate ed emorragiche, tanto da creare le nuove figure del contadino e della sua utilizzazione del suolo.
12) S. Cafiero, Le migrazioni meridionali, Roma, SVIMEZ, 1964.
13) E. Vuotto, L’esodo dai comuni irpini, in Cronache Meridionali, 1960, n. 9, pp. 575-581.
14) G.A. Marselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, Loescher, Torino, 1973, pag. 32.
Il Barberis, invece, rifiuta la distinzione usuale di esodo fisiologico e patologico, soffermandosi su una considerazione, prettamente, sociale. “Sia l’esodo un fenomeno necessario perché connaturato al profondo destino dell’uomo, che libera dalle espressioni più brute della fatica, rendendolo disponibile per attività superiori: cadrà allora quella particolare tipologia dell’esodo, invalsa nell’uso corrente con la distinzione tra esodo patologico e fisiologico…” Cfr., C. Barberis, Sociologia rurale, Bologna, Edizione Agricole, 1965, pag. 71.
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La fuga, risoltasi per taluni come definitivo distacco dalla terra (esodo rurale), per altri, invece, ha significato soltanto una riduzione del potenziale lavorativo, ridotto a donne e vecchi.
Quest’ultimi i residui della famiglia, “i resti impotenti” di una popolazione già pensionata, continuano la gestione di piccole aziende agricole.
Tutto ciò, mancando i ricambi e soprattutto le energie più giovani, concorre a mantenere intatte le forme produttive tradizionali, che si rivelano poco redditizie “per la penuria e la debolezza — proprie — delle forze disponibili” (15).
Perdurando questa condizione, ben si capisce l’affermazione tormentata di Formica (16): “troppe sono ormai le famiglie contadine senza giovani”; un altro aspetto da sottolineare interessa la femminilizzazione dell’agricoltura, con i relativi problemi di sottoccupazione in alcune zone e con “un abbassamento del livello di produzione e di reddito” in altre.
In tale abbandono, la sospirata crescita economico-sociale trova enormi difficoltà per il decollo. Tra l’altro, c’è da imputare che le tardive scelte industriali, la mancanza di movimento sindacale ed associativo, la scarsezza di iniziative capitalistiche, che hanno privilegiato le zone costiere della Campania, conservano intatte, in Irpinia, la persistenza di tre zone:
1) zona di relativa floridità
2) zona medio sviluppo
3) zona depressa
Tutto questo contribuisce a mantenere alto l’indice migratorio e a favorire la graduale lacerazione della popolazione, creando un sottoproletariato inquieto, diffidente e qualunquista.
I recenti sfoltimenti industriali, l’individuazione di zone di rapida trasformazione o “poli di sviluppo”, i progetti speciali e l’intelligente programma per la meridionalizzazione delle forze di lavoro portano i primi benefici influssi, migliorando le condizioni di vita.
Tuttavia, la richiesta del 1980 fa capire quale sia la domanda di lavoro. “In Irpinia gli iscritti nelle liste di collocamento al 31 ottobre 80 — quindi prima dell’evento sismico — sono 19.309, rispetto ai 18.439 del 31 dicembre 79…
Ma tali cifre non rendono l’esatta dimensione della situazione occupazionale della nostra provincia.
15) M. Rossi Doria — C. Cupo, Direttrici dello sviluppo economico della Lucania, Bari, Laterza, 1965, pag. 13.
16) C. Formica, Lo spazio rurale nel Mezzogiorno, op. cit., pp. 65-73.
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L’arresto di numerose attività produttive e la drastica riduzione di altre coinvolge un numero di lavoratori che si aggira intorno a 4.000” (17).
L’offerta nonostante l’aumento dei posti di lavoro, soprattutto nel settore edile (installazione prefabbricati e riattazione, con la formazione di varie cooperative) registra un consistente indice di disoccupazione.
Tra le contraddizioni del mercato di lavoro, legate proprio alla sottoccupazione e alla disoccupazione, l’ Irpinia subisce, in maniera violenta, il fenomeno del caporalato.
Numerosi contadini (in prevalenza donne) vengono reclutati e trasportati, nei vari periodi stagionali, nella piana di Battipaglia, evidenziando un macroscopico controsenso: la scelta privilegiata delle pianure costiere e delle colline litoranee a scapito dell’abbandono dei propri campi.
Il prevalere degli interessi privati, l’abuso politico, le discriminazioni clientelari contribuiscono, poi, a creare “nella popolazione sentimenti acuti di frustrazione e scontenti, acuiti dalla maggiore consapevolezza dei propri diritti” (18).
Rimane la vergogna, divenuta costume, di un’ Irpinia continuamente assistita, compromessa ed umiliata dal sottogoverno. Ma l’assistenza non è sviluppo!
Questa terra inquieta, ricca di energie morali, non vinta, non rassegnata, deve ancora, e lo vuole senza ipocrisia, costruire il suo avvenire secondo la cosciente dignità umana che ha reso l’uomo protagonista del suo destino (19).
In questa tensione, espressa da un’instabilità economico-socio-demografica, (vuoi l’espulsione o l’allontanamento periodico, vuoi l’influenza della cultura urbana (mass media) e i processi di innovazione nel sistema produttivo, vuoi i nuovi insediamenti della popolazione rurale, vuoi la diversa forma di organizzazione della comunità ed i mutamenti interni, vuoi la mancanza di appigli per la nuova qualità della vita), maturano ripetuti conflitti.
La vecchia civiltà contadina ne esce logorata, sconvolta e disgregata, perdendo finanche le immagini e i ricordi delle sue tradizioni e i connotati del suo stesso dialetto.
17) Banca Popolare Irpinia, Esercizio e bilancio, 1980, Arti Grafiche Raffone, 19&1, pag.24.
18) A. Coletti, La questione meridionale, SEI, Torino, 1974, pag. 152.
19) F. Compasso, Mezzogiorno Europeo, Lacaita Editore, 1979, pp. 7-16.
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C A P I T O L O II
LA FAMIGLIA
LA GRANDE ESCLUSA
1
Le particolari condizioni dell’ Irpinia meritano attenzioni più incisive e responsabili, tali da focalizzare i vari problemi che ne hanno, nel tempo, rallentato ed ostacolato la crescita.
L’ Irpinia, infatti, si trova ancora oggi in uno stato d’inferiorità e di soggezione; a determinarne l’arretratezza hanno persistito numerosi fattori storici, ambientali, ed economici.
La produzione, nonostante le ipotesi di programmazione e tranne alcuni insediamenti industriali (Pianodardine, Grottaminarda, Solofra) è essenzialmente agricola. A trarre sostentamento da quest’economia ci sono ancora contadini, affittuari marginali e salariati che rappresentano le classi sociali, sparse su una superficie abbastanza estesa ed utilizzata, nella quasi totalità, alla coltivazione del frumento ed occasionalmente ad altri cereali.
La distribuzione delle terre, il tipo d’ereditarietà, la lontananza dei poderi dai centri abitati, la mancanza di rapporto con il vicinato fanno vivere ad ogni famiglia una propria realtà che la tiene lontana dalle basilari funzioni di socializzazione.
La famiglia contadina irpina è nella sua costituzione un raggruppamento di tipo nucleare. Tale specificità e la scarsa presenza della famiglia di tipo esteso sono forse da ricercare nella particolare struttura fondiaria, tra le conseguenze della società capitalistica e nei mutamenti tecnici avuti in agricoltura che possono richiedere un minor bisogno di manodopera.
“Di conseguenza la famiglia estesa sparisce ed è sostituita da famiglie nucleari indipendenti” (1).
Queste ultime, perciò diventano — secondo Silverman — “la norma dell’organizzazione terriera” e sostituiscono l’antica famiglia patriarcale di cui però conservano alcuni residui.
In esse “dominano un modello femminile e un modello maschile per i ruoli futuri dei figli, che nella famiglia devono ricevere la prima impronta del carattere e apprendere le norme del buon vivere” (2).
1) C. Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, Loescher Torino, 1975, pag. 45
2) A, Massucco Costa / G. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis, Edizioni il Dialogo, Tipolitografia Irpina, Lioni, 1976, pag. 200,
2
Pur con la riforma del diritto di famiglia esse mantengono vecchi costumi in un’epoca in cui sono diventate nucleari ed esigono altre forme di convivenza.
La vecchia “corte”, che una volta raccoglieva tutti i membri della famiglia estesa, è stata soppiantata e al suo posto si sono diffusi alloggi contadini unifamiliari.
Tuttavia, in alcune zone agricole, anche se in maniera regressiva si trovano ancora famiglie allargate. Esse risentono della forma originaria quando si presentavano come una comunità che comprendeva almeno tre generazioni sotto lo stesso tetto.
Sembra difficile a questo punto poter individuare nell’attuale famiglia coniugale un’evoluzione di quella patriarcale; infatti, Gideon Sjoberg cita alcuni casi in cui, anche in aree rurali di società industriali, la famiglia è ridotta a gruppi coniugali perché (è la ragione di fondo) “gli appezzamenti di terreno posseduti sono troppo piccoli” (3).
Si può concludere, perciò, che la famiglia ha perso la sua estensione per l’impossibilità materiale di assicurare la sopravvivenza a tutti i suoi componenti.
“Il passaggio della struttura familiare allargata alla struttura nucleare tende a rompere la solidarietà tra più di due generazioni. Sposandosi i figli non accrescono più né integrano la famiglia a cui appartengono, ma formano una nuova famiglia e si distaccano quindi da quella a cui hanno appartenuto dalla nascita e con essa rompono i rapporti almeno sul piano funzionale” (4).
Così la famiglia in preminenza assoluta è quella biologica, costituita da genitori e figli. Ma la riduzione più che di una flessione globale risente di quella dei figli che si mettono al mondo. “È la diminuzione delle nascite (pianificazione della dimensione familiare) più che la diminuzione dei legami di convivenza con i parenti, che incide sul gruppo familiare in quanto convivente sotto lo stesso tetto” (5).
3) G. Sjoberg in C. Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, op. cit., pag. 45.
4) A. Pizzorno, Comunità e razionalizzazione, Einaudi, Torino, 1960, pag. 187.
5) C.. Saraceno, La famiglia nella società contemporanea, op. cit., pag. 13.
Ogni individuo, comunque, pur impegnato a difendere il proprio interesse lo accomuna ai membri della sua famiglia. “Vi è all’origine una base economica del legame: la famiglia è il nucleo della proprietà privata. Ed è, quindi, una base di mutua difesa” (6).
L’orizzonte resta, perciò limitato all’ambiente domestico; ogni azione e affermazione viene fatta e vista in funzione della famiglia, alla quale si dà prestigio e dalla quale si riceve prestigio e protezione.
In questa stratificazione i contadini compongono un gruppo sociale che vede partecipare al lavoro agricolo tutti i componenti, almeno come coadiuvanti.
Questa organizzazione permette la produzione dei beni necessari alla sussistenza; solo che la famiglia non è più l’unità produttiva dell’epoca pre-borghese. Pur conservando i caratteri propri di unità economica fondamentale non riesce ad essere un’impresa autonoma con uguali piani di produzione e di consumo.
Si ritiene che essa non rappresenti più un’unità produttiva, perché produce molto poco tanto da essere considerata soprattutto un’unità di consumo.
La famiglia contadina, infatti, nei livelli capitalistici avanzati — scrive Sereni — è “un centro di consumo e ha come unità produttiva il culto dello spontaneismo”. “Man mano che la famiglia non è più un’unità economica né culturale essa si svuota di contenuti di valore propri diventando più eterodiretta rispetto agli atteggiamenti da trasmettere” (7).
Il livello di guadagno si rivela, perciò, basso, il volume di risparmio insignificante. A tutto ciò si aggiunge l’isolamento, una condizione di vita quasi sempre problematica, che si riflette su tutti i membri e determina “una certa chiusura tradizionale della famiglia coi suoi ideali conservatori e con le sue norme, spesso ancora rigidamente gerarchiche ed autoritarie” (8). La lontananza dalla vita sociale, espressione di frustrazioni, tensioni e rinunce, porta a una contrazione della famiglia, resa ancora più problematica dalla lacerazione prodotta dall’esodo.
6) C. Cesareo, La contraddizione femminile, Editori Riuniti, Roma, 1977, pag. 40.
7) F. Bimbi. Mutamenti nei processi di socializzazione: la famiglia, in Mutamento sociale e contraddizioni culturali a cura di S. Acquaviva, Nuove Questioni di Sociologia 4, Editrice La Scuola, 1976 pag. 34.
8) A. Massucco Costa/O. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis, op. cit., pag. 116
La sicurezza e la difesa, garanzie del passato, crollano di fronte alle conseguenze prodotte dall’emigrazione. Il trauma si ripercuote in maniera grave e violenta sulla famiglia contadina “un tempo autosufficiente, oggi insicura, non informata, non fornita di mezzi di comunicazione con gli assenti, non qualificata per un lavoro che consenta un reale progresso economico e sociale” (9). Le conseguenze toccano i vari membri: l’individuo, fino a pochi anni fa, si realizzava nell’ambito della famiglia; oggi è costretto ad uscire allo scoperto ed appare timoroso ed impreparato per affrontare le nuove responsabilità.
La famiglia, infatti, ha sempre tutelato i propri membri, nel bene e nel male: “meriti e demeriti, tare fisiche e deviazioni morali non appartengono a chi ne è il diretto portatore, ma saranno per sempre parte integrante del ruolo e del destino familiare” (10).
Ma la funzione di difesa, la sacralità, l’invidiabile struttura e la secolare resistenza, esposte alle insidie esterne, rischiano di farle perdere la vecchia identità di “cellula sociale”. Ogni membro appare frastornato e indifeso, avendo vissuto tutti i suoi rapporti nella sfera del nucleo, perché gli “ideali e le espressioni del suo mondo motivazionale sono (stati) dominati e pervasi dal senso della famiglia”(10). La vita chiusa nell’ambito domestico, pervasa da una cultura del pregiudizio, dello scetticismo e dell’onore, ha trovato finora le massime realizzazioni nello svolgimento del ruolo e nel rispetto per la gerarchia.
Risulta perciò che “il modello di famiglia negli strati subalterni è segregante per gli individui, tra loro gerarchicamente ordinati ed economicamente controllati” (12).
La vita familiare si è sempre realizzata nei rispettivi ruoli che ogni elemento è stato chiamato ad assolvere: un buon padre, una buona madre, un buon figliuolo.
Essa risente ancor oggi di un comportamento e di un carico di responsabilità prestabiliti.
Spetta al padre dirigere e correggere; alla madre suggerire; ai figli ubbidire.
9) A. Massucco Costa/G. Rizzo, op. cit.
10) C. Sciortino Gugino, Coscienza collettiva e giudizio individuale nella cultura contadina, Palermo, 1960, pag. 38.
11) C. Calò, Famiglia ed educazione oggi in Italia, Laterza, Bari 1964, pag. 129.
12) F. Bimbi, op. cit., pag. 33.
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Anzi “la funzione riproduttiva della famiglia condiziona fin dall’inizio lo strutturarsi dei ruoli familiari” (13). Il vincolo al ruolo necessario per tutti è tassativo per la donna: madre, sposa e ragazza.
Ma la famiglia con il suo cieco attaccamento alla proprietà territoriale resta un sogno perduto. Non avendo potuto difendere i suoi valori e le sue istituzioni, subisce i continui attacchi della presente civiltà. I mutamenti sociali e le contraddizioni culturali ne hanno incrinato la stabilità e la struttura. Essa non ha potuto né saputo opporre resistenza alle trasformazioni e alle pressioni della società capitalistica che sta “distruggendo l’antico tessuto senza ricostruire peraltro un tessuto sociale a sostegno dell’individuo” (14).
Le possibilità di ricomposizione sono scarse per l’aggravarsi di situazioni economiche e sociali: polverizzazione fondiaria, distribuzione anomala della terra, ristrettezza economica e soprattutto il disgregante fenomeno dell’emigrazione.
La possibilità di un maggior guadagno, per richieste di lavoro provenienti da zone economicamente più sviluppate, porta i membri ad allontanarsi dal proprio nucleo.
Il fenomeno ha assunto vaste proporzioni, tanto da coinvolgere tutti, senza distinzione di sesso e di età.
Tale scelta è avvertita in particolar modo tra i giovani: “ormai — scrive Calò — tutta la nostra gioventù è in stato di emigrazione”.
Quest’ultima comporta problemi di disorganizzazione e di dissociazione e soprattutto carenze psicologiche “di valori affettivi semplici, primari”, patrimonio questo proprio di popolazione legata alla famiglia e alla terra. Assistiamo, pertanto a una graduale lacerazione del sistema educativo: da una parte i giovani cresciuti “in un contesto di disgregazione della famiglia rurale progressivamente erosa dai processi di autonomia” (15) costretti a far fortuna altrove; dall’altra, gli anziani, le donne e i ragazzi, rimasti a casa.
Ma “l’autorità dei vecchi capofamiglia risulta compromessa perché essi non rappresentano più né il sostegno economico, né il riferimento dei valori della famiglia” (16) che risulta modificata nelle sue
13) C. Saraceno La famiglia nella società contemporanea, op. cit., pag. 135.
14) A. Ardigò, La stratificazione sociale, Ed. Patron, 1970.
15) F. Bimbi, Mutamenti nei processi di socializzazione: la famiglia, in Nuove questioni di Sociologia n. 4, Editrice la Scuola, Brescia, 1976, pag. 40.
16) Ivi, pag. 38
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strutture; si avvertono, con gravi ripercussioni, disturbi affettivi, squilibri educativi, mancanza di esperienza. I pochi modelli non sacrificati si rivelano insufficienti ad evitare o a limitare le conseguenze di una crisi, che appare sempre più complessa.
La famiglia rurale è quindi una “variabile indipendente” nei confronti della società; ancora chiusa alle grosse influenze esterne, è condizionata nei suoi comportamenti e nelle sue funzioni dai mutamenti economici e sociali.
Il suo lento cedimento e il suo scetticismo, fatti di aperture sofferte e titubanti, stanno a significare il difficile adattamento alle nuove realtà civili, che chiedono grossi e continui sacrifici per rompere la “antica catena di povertà”.
Il matrimonio
Il matrimonio nella società rurale irpina si rivela una solida e basilare istituzione.
I contadini, legati al proprio mondo culturale, sono restii a cedere alle trasformazioni sociali che possono modificare la struttura del tessuto familiare; la dimostrazione è data dai referendum del 74 e dell’ 81; i fronti antidivorzista ed antiabortista hanno trovato un valido punto di sostegno nell’educazione conservatrice della famiglia.
“La concezione del matrimonio ha sempre risposto a precise strutture economiche. All’epoca della famiglia patriarcale, ad esempio, il matrimonio serviva innanzitutto a rafforzare ed allargare l’azienda familiare oltre che a perpetuare la discendenza e quindi ad assicurare gli eredi al patrimonio domestico. Essendo il ‘bene’ familiare lo scopo supremo, di questo si teneva conto anzitutto: erano i capofamiglia, infatti, a concludere i matrimoni dei figli, in base a calcoli nei quali la vocazione dei promessi sposi aveva un posto minore, e, a volte, non rappresentava nemmeno il punto di partenza” (15).
Il tempo non ha procurato grossi cambiamenti; la famiglia è rimasta la base preliminare per tramandare se stessi, la propria opera, la propria esperienza.
Il matrimonio spesso si è basato sulla fecondità e sull’interesse ed ha poco concesso all’amore, considerato più un aspetto secondario.
Uno dei suoi significati precipui, suscettibile oggi di interpretazioni meno restrittive, resta quello dei figli.
Le indicazioni emerse permettono di capire il significato e l’importanza di contrarlo, decisione che si rivela uno dei momenti più critici e delicati della stessa esistenza familiare.
17) C. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 158.
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In Irpinia non manca l’intervento autoritario e drastico dei genitori, perché spetta loro mettere il figlio in condizioni di sposarsi. Ciò vale soprattutto per la donna.
“Il controllo economico ricorda alla giovane donna il tipo di lavoro che in realtà l’aspetta e il matrimonio risulta perciò in modo contraddittorio il prevalente momento di emancipazione della donna dalla famiglia paterna ed assieme la definitiva assunzione del suo principale ruolo lavorativo” (18).
Se la donna viene educata a vedere nella famiglia il suo principale riferimento e quindi a mettere da parte ogni altra aspirazione e a sposarsi, il figlio,invece, viene sorretto e incitato a migliorarsi.
Un buon matrimonio è la massima aspirazione di ogni famiglia: “se ne fa una questione di prestigio, di interesse, di parentela, di campanilismo, e basta un nonnulla perché una delle famiglie si opponga, subito imitata dall’altra per senso di dignità. Se poi i due innamorati si ostinano, per dissuaderli non si esita a passare alla maniera forte…”(19). Accade, però, che spesso i figli se ne scappano e si sposano.
La varietà delle situazioni fa capire in quale considerazione è tenuto; esso resta perciò la pietra angolare della famiglia.
In una vita avara di soddisfazioni e ricca di sacrifici rappresenta tutto, perché “in un mondo che non gli risparmia certo le occasioni di umiliazione, la conquista della donna e il suo possesso sono sovente per l’uomo la sola attività in cui possa affermarsi la sua volontà di potenza e di dominio” (20).
Un’altra dimostrazione è offerta dalla preparazione della cerimonia e dalla sua celebrazione: la famiglia, anche la più povera, dà fondo a tutte le sue sostanze per ben figurare.
In molti matrimoni l’interesse economico esercita ancora il suo peso: solo chi possiede rappresenta un buon partito e va incoraggiato.
Abbiamo casi di fidanzamenti rotti perché uno dei due giovani è proprietario di poca terra e di pochi animali da pascolo.
I giovani vivono il loro fidanzamento in funzione della cerimonia; essa significa tutto, in modo particolare per la donna che è stata educata a considerare la conquista dell’uomo e il matrimonio come la
18) F. Bimbi, op. cit., pag. 36.
19) L. Volpicelli, La famiglia in Italia, Armando Armando Editori, Roma, 1964, PG. 64.
20) Ivi, pag. 60.
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realizzazione della propria sorte.
“…Le donne che devono produrre e riprodurre socialmente gli individui, avranno il loro principale ‘mercato del lavoro’ nel matrimonio, indipendentemente dal grado di scolarizzazione e dal tipo di lavoro extra-domestico” (21).
Il fidanzamento non è fatto di comportamenti e di incontri arbitrari.
Dopo la presentazione in casa, che serve a misurare le buone intenzioni del futuro marito e a dare ufficialità al fidanzamento, i rapporti vengono regolati dai genitori della ragazza. Alla madre di quest’ultima spetta il compito di controllarli e di non lasciarli mai soli.
Dal momento che la donna è fidanzata o meglio è impegnata, la sua vita viene regolata dal fidanzato: amicizie, vestiti, comportamenti, impegni professionali.
È convincimento comune che la propria fidanzata non è una donna come le altre. Essa accetta questa norma e, di fronte ai desideri e agli ammonimenti ricevuti, rinuncia agli impulsi di autonomia e ritorna nelle condizioni della vecchia subordinazione.
La fiducia diventa assoluta: “l’opinione del futuro marito, per quanto ingiustificata, ha sempre per la ragazza un peso maggiore di quello (dei suoi stessi) genitori, per quanto ragionevole” (22).
Le donne portano nella nuova casa il corredo (biancheria ed utensili) che comincia ad essere preparato fin dall’adolescenza.
Tale iniziativa ha certamente ragioni economiche: la spesa trattandosi di più compere, viene dilazionata negli anni. Inoltre serve ad abituare, sin dalla giovane età, la ragazza al suo immutabile ruolo di moglie e di madre. Anzi non si può escludere che la preparazione del corredo eserciti una funzione di indiretto controllo della morale sessuale.
Il matrimonio diventa così l’unica aspirazione femminile, la giusta strada da cui non ci si dovrà allontanare. Ma tale inevitabilità rappresenta un avvenimento assolutamente esterno ed indipendente dalla volontà della donna.
Forte di questa convinzione la ragazza accetterà perfino il matrimonio combinato.
L’idea che esso rappresenti la necessaria ed unica liberazione trova sostegno nella cultura tradizionale; infatti si sono creati “nelle abitudini mentali due mondi, due criteri di valutazione, il mondo del lavoro
21) F. Bimbi, op. cit., pag. 31.
22) G. Cesareo, op. cit., pag. 165.
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extra-domestico, umiliante e disonorevole per la donna, e la casa mondo del riscatto e della riabilitazione femminile” (23). La sistemazione della donna diventa, perciò, una grossa preoccupazione per tutti coloro che ne hanno. Il loro matrimonio è un sollievo per ogni famiglia, che vede così mantenuto il suo prestigio sociale.
Durante la crescita e prima che i figli siano in età di sposarsi la famiglia contadina si comporta in modo rigido e repressivo. I figli sono responsabili nei confronti dei genitori di qualsiasi loro azione: ad essi subordinano la loro volontà e i loro salari.
Ma con il matrimonio cessa ogni legame di subordinazione; l’uomo provvede alla nuova casa e all’acquisto del mobilio. (Ultimamente questa spesa viene ripartita tra le rispettive famiglie). C’è da rilevare che, quasi sempre, quello che viene dato al primo figlio viene dato nella stessa misura a tutti gli altri.
Il matrimonio nella società attuale è variamente concepito: a quello imposto per interesse si aggiunge quello di convenienza voluto dagli stessi contraenti. Le ragazze di campagna infatti rifiutano di sposare un contadino, “ma aspirerebbero a sposare un operaio; questo abbandono non è volontario, ma trova la sua esistenza nella situazione d’inferiorità sociale ed economica e nella precarietà del reddito” (24).
Il matrimonio, a questo punto, diventa uno strumento d’urbanizzazione e quindi l’occasione necessaria per migliorare la propria condizione sociale.
I contadini irpini si sposano in età assai giovane: la differenza d’età tra l’uomo e la donna è quasi sempre minima.
Capita, tuttavia, ma con scarsa rilevanza rispetto al passato, il matrimonio preceduto dalla “scappatella” o “dal fatto compiuto”.
In questa scelta giocano ruoli preminenti l’imprudenza, gli ostacoli familiari, un irresponsabile concetto della base economica.
Nel matrimonio ancora oggi non manca l’onore familiare che è esclusivamente basato sulla verginità della ragazza. La mascolinità viene affermata, e talvolta in modo violento, attraverso la protezione della propria donna.
23) G. Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, op. cit., pag. 341.
24) A. De Feo, La donna nell’impresa contadina, Editori Riuniti, Roma, 1964, pag. 36.
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La famiglia rurale irpina, non ancora padrona del nuovo diritto di famiglia, aspira ad emulare gli ideali civili ed urbani della città e si scontra con la vecchia contraddizione risorse-bisogni.
Nella presente vita sociale conserva una forma di difesa, ma non riesce a recuperare gli schemi ideologici della vecchia struttura del focolare domestico.
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Il padre
La famiglia contadina ha sempre ricevuto la sua vera caratterizzazione dalla direzione e dall’autorità paterna.
La decisione, gli interventi la conduzione del ménage familiare sono sempre state prerogative maschili.
“Il padre mantiene un solido e riconosciuto potere sulle sorti di ciascuno dei membri della famiglia, un’autorità indiscussa su tutto l’andamento della casa, l’arbitrio pressoché incontrastabile di decisione” (25). Nella nuova realtà l’assenza di questa figura, vittima di condizioni economiche e sociali espulsive, ha fatto perdere molto delle sue funzionalità e del suo prestigio.
Il padre, infatti, non segue più da vicino le sorti familiari, non ne dirige i processi educativi e sociali ed è diventato un membro marginale e di poca considerazione.
Il vecchio ruolo di padre-padrone, che ha dato tante immagini letterarie, tende a scomparire, non perché sia stato sostituito da nuovi modelli ma perché come presenza fisica è scomparso.
La legittimazione sociale dell’autorità familiare, impersonata dal padre, comincia perciò ad indebolirsi.
Si sono verificati — scrive Bimbi — un rallentamento dei rapporti autorità familiare paterna-subordinazione domestica della donna e un’involuzione del rapporto autorità-ruoli di trasmissione e ricezione dei medesimi.
Laddove, invece, il potere-autorità del marito padre sopravvive si avvertono segni di indecisione, di mutamento e di crisi.
Da una parte il contadino tende a rivendicare il diritto di capofamiglia e di massimo responsabile del suo nucleo, dall’altra avverte l’insicurezza del controllo, l’incertezza della produzione che non gli concede più quella sicurezza economica, che gli ha permesso l’autonomia e l’indipendenza dagli altri gruppi.
25) L. Volpicelli, op. cit., pag. 7.
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“Il controllo economico attraverso il reddito del capofamiglia sostiene l’unità familiare, ma esso pure ha la sua contraddizione nella socializzazione dei figli, di principio e di fatto, in funzione di una maggiore indipendenza dei legami familiari, che ha anch’essa reso possibile la minore incidenza dell’autorità paterna” (26).
Tuttavia nella presente struttura familiare la sua figura conserva un aspetto elettivo con obblighi di rispetto e di attenzioni.
“Infatti l’autorità del padre riflette il potere sociale, ciò gli deriva dalla società che lo legittima a richiedere il lavoro della moglie e la conformità di questa e dei figli ai loro ruoli familiari e sociali, in quanto il reddito del suo lavoro rappresenta il fondamentale sostegno economico della famiglia” (27).
Il contadino risponde ancora in prima persona della funzionalità familiare: è il primo a recarsi nei campi, e l’ultimo a rientrare; è lui che sovrintende i lavori; la sua autorità decide finanche l’ora di mangiare ed è il primo a doverlo fare. Gli investimenti, gli acquisti sono una sua decisione, per la quale accetta consigli senza voler essere contrariato.
Dai figli esige rispetto ma poco si cura della loro educazione, che viene impartita dalla madre.
Anche nelle attività domestiche il padre lascia molta libertà alla donna, alla quale delega la “gestione e la tutela del rifugio domestico, mentre egli è impegnato nella lotta per assicurare il mantenimento materiale della famiglia” (28).
Esercita invece compressioni e limitazioni per ogni altra attività e comportamento.
La figura paterna è sempre stata il simbolo di autorità, soprattutto nella vecchia economia agricola. Per il Sereni il marito è stato “di fatto non solo il capo incontestabile della famiglia, ma il signore, il padrone della donna”; ha mantenuto lo stesso potere sui figli, su cui ha scaricato le sue tensioni e le sue ansietà.
La donna, educata al rispetto, dimostra, oltre misura, venerazione per l’uomo in sé: “l’ha detto mio marito, ed allora così è”.
Padre e madre si assicurano una protezione reciproca: l’uomo garantisce col lavoro il sostentamento, la donna tutela con il suo comportamento l’ onore familiare. L’uomo si accontenta di questo, pur
26) F. Bimbi, op. cit., pag. 35.
27) Ivi, pag. 31.
28) G. Cesareo, op. cit., pag. 166.
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continuando ad essere un discriminato, uno sfruttato costretto a vivere in condizioni di arretratezza, di necessità e di insufficienza di mezzi civili.
Tanta miseria non è l’assoggettamento suo e dei figli alla terra, come qualcosa di volontario ma una costrizione. Da ciò sono venute fuori le leggende del suo sottosviluppo: il contadino è avido, povero, incivile, perché attaccato in modo morboso al suo fazzoletto di terra.
“Il contadino è stato di volta in volta considerato gretto e sobrio; sfruttatore del lavoro della propria donna e dei propri figli, o tenace continuatore di antichi e austeri costumi; prudente e sospettoso; previdente o avaro; conservatore o nemico del progresso e di ogni forma di socialità” (29).
Ma tanta limitatezza è legata alle scarse risorse che obbligano la famiglia a dipendere da esigenze sociali che non possono essere soddisfatte e che mettono in crisi tutta la struttura e l’efficienza familiare e finanche il principio autoritario su cui finora la famiglia contadina si è basata.
La vecchia legittimazione del potere e dell’autorità sulla moglie e sui figli non trova più appoggi credibili e imprescindibili.
La trasformazione dell’autorità maschile al suo interno comporta possibilità di ribellione alla famiglia, processi innovativi, crisi dell’autorità familiare stessa (30).
Questo mutamento ha permesso i rimpianti di una certa retorica: “quando manca l’autorità del padre in una casa, la famiglia non esiste più, si sfascia” (31); ma non possiamo disconoscere quanti elementi reali essa contenga e quanta drammaticità possa significare. In effetti la mancanza del padre produce tensioni e insicurezze non facilmente superabili dalla famiglia che per aspirare a diventare un gruppo sociale democratico e moderno deve essere reintegrata in tutti i suoi membri.
Solo allora le divergenze e le differenze di classe saranno meno violente e meno ingiuste, tali da favorire quella necessaria e non più solo auspicabile crescita familiare, che resta sempre una delle necessarie funzioni sociali per un progresso dinamico e alla portata di tutti.
29) De Feo, op. cit., pag. 35.
30) Cfr. in F. Bimbi, op. cit., pag. 34.
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La madre
La figura che segue immediatamente il capofamiglia, per prestigio ed autorità, è quella della madre.
Educata da tempo al ruolo di amministratrice del focolare domestico investe il suo tempo e realizza la sua personalità tra campi, casa e figli.
“Nella famiglia com’è congegnata attualmente la donna non riesce ad affermare la propria personalità (32). Questa condizione subiettiva spiega il senso di inferiorità maggiormente riscontrabile nelle vecchie generazioni: andando o ritornando da una commissione il marito non accompagna la moglie ma le cammina davanti. Tale distanza non inficia le doti di una buona moglie che viene giudicata tale in base alla sua onestà e alla sua abilità di massaia; scrive infatti Gugino che la “misura della reputazione, specie femminile, è la fedeltà ai ruoli familiari”, perché i requisiti della donna ideale sono il rispetto e l’onestà.
Se tiene fede a questi comportamenti “la cui osservanza è necessaria in base alle regole del ‘controllo sociale’” gode di una solida stima.
Si ritiene invece che l’uomo sia più cosciente e meno esposto a sbagliare e perciò deve tenere la donna lontana dai discorsi e dai rapporti sociali. Tale prevenzione, invece, è più un fatto di controllo dell’etica sessuale, perché la cultura contadina non riesce a concepire, né tanto meno può giustificare, che la propria donna si allontani dall’ambito domestico.
Tanta morbosità è connessa alle condizioni di precarietà e di mancate soddisfazioni; la donna, perciò, rappresenta tutto, diventa essa stessa proprietà senza poter essere mai ceduta a costo della sua e della propria vita.
La donna per il contadino irpino “non è spesso nient’altro che un possesso personale, necessario per tante esigenze, ma in se stesso di poco valore. Ne acquista in qualche misura come generatrice di figli
31) A. Massucco Costa / G. Rizzo, op. cit., pag. 191.
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e dispensatrice di servizi. È infrequente però che assume la veste di una compagna e di una persona di pari grado (33). Il possesso della donna diventa una vera ossessione, una ‘cosa’ da tutelare a qualsiasi costo, un bene da amministrare.
La protezione o meglio il controllo vengono così esercitati dietro l’usbergo della famiglia.
In essa la donna trova l’unico status possibile, perché “non a caso essa è stata educata ad aspettarsi tutto dal matrimonio. La donna vive di luce riflessa, qualunque mansione esplichi, partecipi o no all’attività produttiva, abbia o no una funzione importante in casa” (34).
La figura femminile è una sorta di reliquia da custodire gelosamente e da utilizzare all’occorrenza.
La sua vita è dominata dal ruolo, che dovrà essere svolto, come moglie e come madre, in casa e in famiglia. Ogni altra attività sarà subordinata a questa che resta la responsabilità principale.
“La subordinazione della donna nella famiglia (e fuori di essa) legata al fatto che il suo lavoro non ha alcun riconoscimento economico e sociale, fa si che essa trasmetta ai figli i valori sociali mediandoli attraverso la legittimazione che essi ricevono dall’autorità paterna” (35).
La madre cura la faccende domestiche, è vicina ai figli, li controlla, li fa mangiare e li indirizza nei lavori della terra.
“Il ruolo materno si esplica direttamente nel lavoro domestico (inteso in senso fisico, psichico, intellettivo) di produzione e riproduzione sociale degli individui che va dalla procreazione dei figli al loro allevamento, fino alla reintegrazione fisica ed affettiva di tutti i familiari” (36).
L’allentamento dei legami gerarchici propri della famiglia tradizionale le concede maggiore autorità e prestigio, con buoni risultati sia nel farsi ascoltare dai figli sia in una certa autonomia di scelta e di decisioni.
32) A. De Feo, La donna nell’impresa contadina, pag. 54.
33) A. Massucco Costa / G. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis, op. cit., pp. 202-203.
34) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 39.
35) F. Bimbi, op. cit., pag. 31.
36) F. Bimbi, op. cit., pp. 30-31.
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In questi ultimi tempi poi la madre ha assunto, in seguito all’esodo migratorio, nuovi compiti che una volta erano divisi tra i vari membri della famiglia.
“È la donna che deve riuscire a fare quadrare il bilancio, che deve supplire ai servizi, che deve essere insieme casalinga e lavoratrice, che deve dare sicurezza all’uomo, e nel contempo, mostrare di essere difesa, che deve, in sintesi, sostituirsi all’intero tessuto familiare dilaniato” (37).
Per mantenere compatta l’unità familiare, la madre è costretta a svolgere diversi compiti.
La donna ridotta a ‘vedova bianca’, in uno stato di semivedovanza, deve ricoprire il ruolo di padre. La figura più debole che doveva essere protetta ad ogni costo è oggi l’elemento che risponde in prima persona della funzionalità della famiglia.
Le varie trasformazioni hanno modificato finanche il lavoro dei campi; quello che un tempo era “maggiormente lavoro di figlie è oggi lavoro di mogli; anzi, dal momento che tutta l’attività agricola ha funzione di supplenza, lavoro di madri. Il sollievo delle giovani (e dei giovani) che partono si traduce nella compressione delle anziane che restano” (38).
Si assiste a una significativa femminilizzazione della forza-lavoro. In agricoltura il tasso ha valori più alti nelle fasce d’età 21-30 e 31-50 anni, le quali sono quelle che hanno pagato il maggiore contributo all’esodo maschile.
In questa condizione il nuovo rapporto tra marito e moglie viene regolato in massima parte dalle lettere. La drammaticità della sua incompiutezza affettiva e coniugale può essere spiegata con il detto ‘carta va e carta viene’.
Le stesse ricorrenze che un tempo riunivano e rinsaldavano i vari elementi della famiglia sono oggi l’occasione per constatare amarezza e solitudine. “Io vedo mamme di famiglia che quando viene Natale, Pasqua, non fanno nemmeno da mangiare, perché dicono che non c’è il marito o il figlio: è un disastro. E quindi per loro altro che feste sono quelle” (39).
37) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 55.
38) C. Barberis, Sociologia rurale. Edizioni Agricole, Bologna, 1965, pag. 111.
39) A. Massucco Costa / G. Rizzo, 100 anni dopo nella terra di De Sanctis. op. cit., pag.157.
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In questa realtà la madre risulta la persona più provata: alle responsabilità per guidare e amministrare il proprio nucleo si aggiunge il dovere di custodire l’onore familiare, in un ambiente perfido, che la segue, la perseguita e la tiene segregata.
Tanta frustrazione non ne indebolisce la capacità organizzativa ma le concede la forza di continuare e di dirigere.
Anzi oggi viene ad occupare, come lavoratrice e conduttrice d’azienda, un ruolo preminente nell’attività produttiva, proprio perché è stata l’elemento meno coinvolto nel processo migratorio.
Nella nuova responsabilità le donne si rivelano — scrivono Massucco Costa e Rizzo — “maestre in un’economia di sussistenza, avvezze a carichi esorbitanti di lavoro”.
La nuova posizione, non sorretta da un’adeguata scolarità e da un’attiva partecipazione alla vita pubblica e sociale, le mantiene sottoposte “a un triplice sfruttamento in quanto donna, in quanto contadina, in quanto lavoratrice” (40).
Ma la reale condizione femminile e la sua effettiva attività agricola sfuggono a un esame approfondito e lasciano nell’anonimato qualsiasi riconoscimento, persino una gratificazione sul piano umano.
La mancanza o la scarsa attendibilità di esperienze vive o di soggetti attivi danno “descrizioni letterarie che ci parlano di donne contadine che faticano da mane a sera, abbruttite dai lavori più pesanti, che si affaccendano intorno ad ogni sorta di animali, che subiscono invecchiamento precoce” (41).
La poca veridicità di queste osservazioni conferma tuttavia il fatto che, nella famiglia di tipo tradizionale, la donna sposata ha pochi rapporti fuori dalla famiglia, che resta la base elettiva in cui esercitare il ruolo materno: i figli ne sono la funzione reale e la continua identificazione.
Ma la maternità ha subito sensibili modifiche più quantitative che qualitative; ieri “i figli erano un ‘patrimonio’ e la maternità era quindi organica a quel ‘bene domestico’ che era per tutti la suprema finalità” (42); oggi essi non rappresentano più questa certezza e sono sentiti come un peso, come una preoccupazione da limitare.
Infatti “con lo sviluppo della società industriale e l’accentuarsi continuo della separazione dei ruoli, invece, il conflitto si acuisce al massimo: la maternità diviene sovente un dramma. I figli sono un peso che la
40) A. De Feo. La donna nell’impresa contadina, op. cit., pag. 37.
41) Ivi, pag. 38.
42) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 130.
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famiglia coniugale non riesce più a sopportare, e quindi la donna è dominata dal terrore di metterli al mondo, quando le condizioni economiche della famiglia non sono floride” (43).
In questa situazione, non convenientemente informate, alcune usano scarsi mezzi contraccettivi, altre usano certi espedienti: ci sono donne che sono convinte di evitare una nuova gravidanza, allattando per un periodo più lungo il proprio bambino.
Da queste attenzioni trova significato l’espressione delle donne irpine “mi guardo, mi sono guardata”. Ma tanto sacrificio procura l’ultima delusione: la madre si vede privata dei figli e del marito e soffre patetici ma umani problemi di sostegno materiale, di affetto e d’intimità.
43) Ivi, pp. 130-131.
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I figli
L’incubo della morte e dell’estinzione della stirpe è un altro aspetto della civiltà contadina, o meglio della sua cultura del negativo.
In una vita consumata nella continuità di un rapporto fra corpo e terra, sangue e ruolo, la progenie ha rappresentato e rappresenta caratteri di necessario e di eterno.
Con questi legami e con tale convinzione, il contadino ha sempre visto nella figliolanza un semplice evento naturale e non si è mai chiesto il perché della procreazione e della programmazione della famiglia.
La figliolanza è sempre stata per lui un fatto istintivo, una decisione inconscia più che un desiderio calcolato.
Tuttavia, negli ultimi anni, la prolificità ha subito enormi flessioni; tra le ragioni più immediate, a provocare la consistente riduzione, sono state la polverizzazione fondiaria e la scomparsa della famiglia patriarcale.
Capita di rado, perciò, di trovare famiglie con un elevato numero di figli, i quali, nella nuova realtà, non rappresentano più il potenziale lavorativo da utilizzare nei campi.
La più bassa natalità si riscontra “in piccolissimi comuni dove la popolazione è prevalentemente sparsa in confronto a quelli medi; ciò è da attribuire alla maggiore povertà che esiste nel primo tipo di comuni rispetto ai secondi e ai maggiori spostamenti di popolazione” (44).
I contadini si rendono, ormai, conto che pur essendo i figli la manifestazione palese della capacità di accoppiarsi e di generare dei loro genitori, nel residuo economico attuale “essi non possono che presentarsi come un passivo per il nucleo familiare” (45).
44) Calò, Famiglia ed educazione oggi in Italia, op. cit., pag. 41.
45) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 133.
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Tuttavia il figlio che nasce è visto come un fatto importante e ancora più ben accetto, se maschio.
Il mito della razza è ancora diffuso.
Ci sono esempi di madri che avendo avuto sempre figlie femmine sono state maltrattate dai mariti ed esposte al dileggio della comunità.
Per quanto riguarda la crescita, una volta i bambini venivano fasciati fino all’altezza del torace, per un periodo di sei, sette mesi e venivano allattati per più di un anno.
Le bambine, già in tenera età, vengono educate a stare composte; i maschi sono più vezzeggiati e tollerati.
Quando i figli sono bambini esistono condizioni affettive e “di dipendenza reciproca tra i vari membri, di solidarietà rispetto alla soddisfazione dei bisogni, di convergenza rispetto ai fini” (46).
Già da piccoli vengono utilizzati nelle attività domestiche, nel pascolo di piccoli greggi, nella raccolta dei frutti; anche i ragazzi che vanno a scuola danno il loro contributo.
Per i loro problemi e per chiedere consigli si rivolgono ai genitori; si constata una maggiore confidenza verso la madre.
Questa scelta confidenziale e fiduciosa, si è oggi rivelata un punto obbligato. L’esodo migratorio dei capofamiglia costringe i ragazzi, ridotti a “orfani morali” a rivolgersi unicamente alle loro madri.
(La famiglia riacquista la sua fisionomia e la sua funzionalità una, due volte all’anno!)
I ragazzi, perciò, crescono senza guida patema in un ambiente limitato e femminilizzato; mancano, dunque, del processo di identificazione e crescono sbandati, taluni capotici e rissosi, altri timidi e introversi.
Le ragazze sono inoltre sottoposte a un’azione frenante e reclusoria. “I genitori, le madri in particolare, tendono ancora a limitare d’autorità l’indipendenza delle figlie, piuttosto che a maturarne il senso di responsabilità, tendono a difendere le ragazze dall’ambiente extrafamiliare, piuttosto che ad armarle perché possano affrontarlo meglio” (47).
Le ragazze vivono la loro giovinezza in uno stato se non di privazione almeno di controllo; se sono fidanzate non possono uscire sole di casa, perché rischiano di rompere il fidanzamento ed il matrimonio.
46) L. Balbo, Stato di famiglia — Bisogno privato collettivo, Etas Libri, Milano, 1976, pag.134.
47) G. Cesareo, La contraddizione femminile, op. cit., pag. 164.
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Quest’ultimo rappresenta la loro realizzazione; per le donne l’unico ruolo possibile è quello di madre. Ma le ragazze, oggi, non accettano più queste imposizioni e si ribellano all’autorità e al controllo familiare. “In particolare le giovani non se la sentono più né di vivere in campagna, né di stare sotto l’immancabile disciplina di un capo-famiglia” (48).
L’onore, tuttavia, implica un assiduo controllo che viene esercitato dai genitori e dai fratelli maschi, piccoli e grandi che siano. “Dall’essenza della sorella, nasce nelle società più depresse, il correlato dell’onore dell’individuo e del casato da tenere alto nella sorella-madre, come purezza dell’origine e del sangue e da assicurare, per il futuro della famiglia, nella sorella-fidanzata-e-sposa” (49 ).
Lo stesso comportamento viene adottato dalla sorella nei confronti del fratello; in lui vede l’essenza di “fratello-padre e fratello-figlio: il fratello in cui sono trasferiti l’amore e l’ammirazione della ragazza per il padre, e l’imponderabile della ragazza per il figlio di domani e per la madre che sarà: il fratello da difendere, in ogni caso, e da aiutare e di cui compiacersi” (50).
I giovani avvertono più di tutti le contraddizioni economiche, che gravano sulla stabilità del tessuto familiare, e i rapporti d’autorità a cui sono legati ma che essi rifiutano.
L’affetto e l’emotività, apparenti cardini di stabilità della famiglia contadina, si rivelano, perciò, una copertura formale. I figli non sempre hanno un reale attaccamento verso i genitori, perché spesso sono costretti a scontrarsi con la loro rigidità e con il loro dispotismo.
Il desiderio di libertà e di autonomia li spinge a sposarsi giovani, cosa che consente di lasciare la famiglia d’origine e la formazione di una nuova.
Ma le scarse risorse economiche non permettono di assicurare alla famiglia una vita dignitosa ed obbligano i giovani ad emigrare molto presto; questa decisione è dovuta, secondo Formica, a due cause: in una prevalgono fattori d’espulsione, nell’altra fattori di attrazione.
48) A. De Feo, La donna nell’impresa contadina, op. cit,, pag. 85.
49) L. Volpicelli, La famiglia in Italia, op. cit., pag. 92.
50) Ivi, pag. 93.
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Tra i fattori espulsivi, subiti dal contadino, vanno considerati “il basso livello del reddito e le precarie modalità del suo perseguimento, l’insufficiente assistenza sanitaria, l’elevato grado di faticosità e penosità del lavoro agricolo, la fluida delimitazione ed instabilità dei periodi di tempo libero rispetto a quelli di tempo lavorativo, le inadeguate condizioni dell’abitazione, dei servizi, della rete stradale e in generale delle infrastrutture, l’isolamento rispetto ai centri di vita associativa, la dispersione totale dell’insediamento” (51).
La spinta iniziale, che è stata la fuga dalla miseria e dalla fame, ha assunto via via altre caratterizzazioni, che non ne hanno mutato la fisionomia, per il persistere di problemi economici ed occupazionali nelle zone d’origine.
L’esodo si è ripercosso, in modo rilevante, proprio sull’agricoltura che ha perso gli elementi maschi più attivi e più giovani.
Secondo i dati statistici sono molto pochi i giovani rimasti che esercitano l’attività paterna e che investono capitali nelle aziende agricole.
In base all’andamento dell’occupazione rurale e alle scelte professionali operata dai giovani nel ventennio 1951-71 è stato calcolato che “tra qualche anno l’agricoltura potrebbe trovarsi del tutto priva di mano d’opera inferiore ai 30 anni, soprattutto maschile, poiché esigui appaiono gli elementi nuovi che intraprendono i lavori dei campi rispetto a quelli che l’abbandonano” (52).
Si profila una visione allucinante: le campagne, già, luoghi di solitudine e di depressione rischiano di diventare depositi spettrali d’economia e di uomini, non facilmente riconvertibili.
51) Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa Sociale, L’introduzione alla tematica dell’esodo rurale, in “L’esodo rurale o lo spopolamento della montagna nella società contemporanea”, Milano, Vita e pensiero, 1966, pag. 230.
52) C. Barberis, Venti anni di esodo: previsione di occupazione agricola al 1975, in “Riv. Econ. Agr. 1971, fase. I, pag. 18.
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Tra familismo e solidarietà
La crisi stagnante della realtà socio-economica della famiglia rurale irpina è una “vexata quaestio” dalle molteplici interpretazioni.
Il naturale senso di diffidenza e di sfiducia del contadino ha dato, finora, una sua immagine poco comprensibile e poco verosimile, tant’è che non sono stati e non sono pochi coloro che attribuiscono il mancato processo evolutivo alle sue incapacità di adattamento, di accettare le innovazioni e di favorire le aggregazioni.
Ma l’aver assunto una posizione conservatrice non dimostra affatto una colpevolezza specifica e il conseguente rifiuto del progresso. Al contrario, tale comportamento può essere una conseguenza di esperienze contraddittorie e problematiche che hanno ritardato o non permesso il concretizzarsi delle sue aspirazioni.
Non fa meraviglia, pertanto, l’analisi tendenziosa di una certa cultura che scarica sui deboli le responsabilità della loro mancata emancipazione.
Questa concezione restrittiva, poco incline all’obiettività, ha fornito dell’Irpinia e del Sud intero aspetti negativi “di forza subalterna, di cultura paesana, di associazionismo campanilistico e corporativo; o come pericolosa impulsività e inaccettabile iniziativa individualistica, fonte di indisciplina e di disgregazione” (53).
Certamente non si può ignorare come il vivere ai margini della società, in condizione di solitudine e di continuo bisogno, abbia influito sulla mancata partecipazione alla vita pubblica, creando una sorta di scetticismo nei confronti delle istituzioni.
Le richieste avanzate, infatti, non hanno mai avuto riscontri immediati, sicché il contadino è stato costretto a volgere tutte le sue attenzioni sulla famiglia, in seno alla quale ha adempiuto le funzioni fondamentali: la trasmissione dei valori culturali, la funzione di difesa, la produzione dei beni necessari alla sopravvivenza,
53) A. Massucco Costa — G. Rizzo, Nella terra di Francesco De Sanctis 100 anni dopo, op. cit., pag. 22.
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l’educazione dei figli.
Quest’agire circoscritto ha permesso facili generalizzazioni, per cui il suo mancato decollo sociale è stato ritenuto direttamente proporzionale al suo morboso attaccamento alla famiglia, che rappresenta “la visione globale del mondo”.
Secondo questa teoria, ogni vantaggio materiale viene utilizzato in funzione della crescita familiare, a scapito di quella comunitaria.
A favorire il nascere e il consolidarsi di questo comportamento che Pizzorno critica con asprezza e che definisce “la sindrome del familismo amorale” intervengono vari fattori: la mancanza di rapporti attivi con le classi superiori, l’angoscia esistenziale, la sfiducia nei partiti e la povertà.
Il contadino si troverebbe, quindi, prigioniero degli interessi familiari, continuamente impegnato a perseguire il bene e il prestigio del suo nucleo.
La solidarietà e il bene comune sarebbero, invece, volutamente ignorati.
La famiglia costituirebbe l’ethos assoluto, secondo cui il contadino tende “a massimizzare i vantaggi materiali e immediati del nucleo familiare e a supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo” (54).
Questa visione, così brutale ed esasperata, avvalorerebbe l’esistenza di una subcultura contadina prettamente egoista e asociale, a danno di una presa di coscienza, da tempo tesa a riscattare la soggezione economica, politica e comunitaria.
La mancanza di autosufficienza, espressa soprattutto da un’economia di sussistenza, ha polarizzato l’attenzione e l’impegno della famiglia in un’estrema e salutare difesa.“In una scala di valori che comprende famiglia, comunità, chiesa, scuola, l’apprezzamento della famiglia supera di gran lunga tutti gli altri” (55).
Ma quest’interessamento non può obbligare a credere che la famiglia sia prigioniera di una morale centrata unicamente su se stessa.
54) E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, a cura di D. De Masi, II Mulino, Bologna, 1976, pag. 105.
55) C. Sciortino Gugino, Coscienza collettiva e giudizio individuale nella cultura contadina, op. cit., pag. 38.
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Esistono ragioni e cause più motivate che determinano lo stato di precarietà e di approssimazione della sua organizzazione: la miseria, l’emarginazione, la subordinazione di classe (56).
“L’arretratezza, infatti, deriva da cause strutturali più tangibili, storicamente determinate e che traggono le loro origini ben lontano dal profondo Sud, nei centri dai quali il potere tira i fili delle vicende sovraregionali e sovranazionali” (57).
Le conseguenti difficoltà di crescita non hanno saputo tradurre in lotta l’indignazione, limitando la protesta contadina ad assidue lamentele; ma è pur certo che la classe rurale irpina saprà prendere coscienza della propria condizione. Anzi questo processo è già in atto: si contano ovunque, numerose aggregazioni cooperativistiche con invidiabili progetti di produzione e di trasformazione dei prodotti.
Il ritorno alla terra è ancora un bisogno, maggiormente avvertito in quei paesi dove il distacco non riesce ad allentare “i profondi legami parentali e di sentimento verso la casa, rifugio e difesa contro una civiltà e una cultura vissute come sopraffattrici e violente” (58).
La marginalità di certi rilievi è prossima a finire, soppiantata dalla collaborazione e dalla solidarietà, che ha già dato una prima risposta a certi intrighi politici di campanile, che avrebbero preteso un’azione prioritaria nella ricostruzione.
L’acquisizione del concetto che l’unità costruisce e modifica le strutture del vivere sociale è diventata la base ideale per valorizzare e riqualificare la terra.
L’associazionismo, rompendo l’isolamento, sancisce la presenza del contadino nel reale, allontana l’umiliante espulsione, rivaluta il suo lavoro e garantisce un attivo economico di guadagni e di investimenti.
La civiltà irpina resta quella della terra che “deve essere il campo delle sue prime trasformazioni” e del suo riscatto umano e sociale.
56) Si vedano per questo: J. Galtung, // ruolo del familismo amorale, tratto da Members of two Worids, Oslo, Universitet-forlaget, 1971, pp. 55-69; A. Colombis, II familismo amorale visto da un familista, tratto da “Sociologia dell’Organizzazione;’, 4, 1975, pp. 437-488; J. Davis, Principi morali e arretratezza, tratto da “Comparative Studies in Society and History, 12 (luglio 1970), n. 3 pp. 340-353.
57) D. De Masi in E.C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, op. cit., pp. 20-21.
58) A. Massucco Costa-G. Rizzo, Nella terra di Francesco De Sanctis 100 anni dopo, op. cit., pag. 27.
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C A P I T O L O I I I
LA CULTURA
UN’ IDENTITA’ IRRICONOSCIBILE
Il tentativo di interpretare la cultura contadina si rivela un compito arduo e controverso.
Una vasta bibliografia, non riuscendo, ancora, a stabilire i canoni e l’attendibilità dei metodi di ricerca, è tutt’oggi in polemica con se stessa.
Le varie proposte fatte, non potendo contare su esami rigorosi e scientifici, risentono di suggestioni neopopulistiche, di visioni metastoriche e di facili generalizzazioni.
Tanta confusione ed incertezza accrescono le probabilità di incorrere in giudizi errati e condizionati, ma la singolarità e l’importanza di affrontare questo discorso meritano il rischio.
Sappiamo che ogni ordine sociale comporta l’esistenza di una sua cultura; quello contadino, prettamente comunitario, “essendo basato sul consenso della volontà, si fonda sull’armonia ed è sviluppato e nobilitato dalla cultura folk, dai costumi e dalla religione” (1).
Questi supporti, in situazioni costanti, assicurano la sopravvivenza della comunità rurale, anzi ne caratterizzano l’autonomia, la libertà espressiva e la continuità culturale.
Ma il concetto di autonomia implica un’autosufficienza e una gestione di capacità economiche e culturali tali da incidere nella storia.
Mancando questa prerogativa, secondo taluni studiosi, l’organizzazione autonoma della tradizione non esiste. Per il Redfield, infatti, “la cultura di una comunità contadina… non è autonoma. È un aspetto o una dimensione della civiltà di cui fa parte. Come la società contadina è una “mezza società” così la cultura contadina è una “mezza cultura” (2).
1) F. Tonnies, in G.A. Marselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, Loescher Editore, Torino, 1973, pag. 117.
2) R. Redfield, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 122
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La tradizione popolare ha il torto di essere accettata nella sua interezza, senza essere esaminata né confrontata criticamente. Non avendo né crescita né perfezionamento essa è una ripetizione continua di fatti , luoghi e persone (3).
Ma pur in questa continuità non si può ignorare come la natura e gli effetti della storia (“i contadini sono soggetti ai risultati della storia più che parte attiva nel suo sviluppo…)” (4) influenzino i loro comportamenti, diventino fattori educativi e determinino il loro mondo motivazionale.
Inoltre la stessa economia condiziona la formazione culturale. Dove l’economia è florida, la cultura si rafforza; dove l’economia è abbandonata o dispersa, anche la cultura si disperde.
L’Irpinia, castigata da un economia di sopravvivenza, ha conosciuto un graduale declino della sua civiltà.
La perdita di vigore dei suoi rituali non può permetterci di abbandonare all’oblio questa realtà semplice e complessa, espressione e simbolo di tante generazioni e della loro umanità.
“Essa, da un lato, testimonia il dominio di classe — sia nelle forme folkloriche oppositive alla cultura egemone, sia in quelle conformistiche — dall’altro, con la sua radicale diversità, indica una resistenza, più o meno organizzata, e consente il recupero critico (laddove è possibile) di alcuni valori essenziali nella costruzione di una società realmente equalitaria e giusta” (5).
I segni e le definizioni riscontrabili parlano tutti di una “cultura della povertà” (o sottocultura) (6), di una cultura scrive Lombardi Satriani come “tecnica di disinnescamento del pericoloso, “tecnica di esorcizzazione del male, del negativo esistenziale o storico e quindi cultura del disordine come discorso
3) Anche per Gramsci “il popolo per definizione non può avere concezione elaborate nel loro sia pur contraddittorio sviluppo, ma anzi molteplice”. Cfr. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino Einaudi, 1966, pag. 215.
4) F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 126.
5) L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, Guida Editori Napoli, 1974, pag. 15.
6) O. Lewis, La cultura della povertà, in “Centro Sociale”, a. XIV, n. 74-75, 1967, pp. 1-11. Lewis scrive che la “cultura della povertà rappresenta un tentativo di far fronte al senso di disperazione dovuto alla consapevolezza dell’improbabilità di conseguire il successo nei termini e nei valori degli scopi delle più vaste società… molte caratteristiche della cultura della povertà possono essere considerate tentativi di trovare soluzioni locali dei problemi non risolti dalle istituzioni e dagli enti esistenti, perché il popolo non può esservi eletto, non può permetterselo, o le ignora come sospette”.
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dell’anormalità, della follia, della ribellione, del ridicolo” (7).
L’estrema condizione di bisogno influenza le varie esperienze di vita e le conoscenze assimilate dalla famiglia contadina. Su di essa incidono le continue aspirazioni a migliorarsi per modificare o capovolgere la propria economia e per creare dei “sostegni artificiali alla personalità umana”.
La visione fatalistica della vita, espressa nell’antica concezione dualistica del bene e del male, in un alternarsi magico e capriccioso, può essere spiegata dai significati reconditi delle leggende.
“È molto interessante notare che in quasi tutte le leggende, la cui area di diffusione si estende lungo l’arco della cosiddetta zona di sottosviluppo economico, principalmente per i paesi dell’Alta Irpinia, il tema dominante della narrazione è costituito dal tentativo, costantemente riemergente di cercare un “tesoro nascosto” avvalendosi pure di forze occulte e diaboliche” (8).
In Alta Irpinia e più precisamente a Conza si racconta “il tesoro di Monte Travaglioso”, a Calitri “lo scazzamauriegghio, a Lioni “Lo maleviento”.
Non possono esser ignorati altri paesi della provincia: Contrada (il tesoro dei diavoli). Baiano (Frate Giammarino, voce del diavolo), Savignano Irpino (la grotta del diavolo), Capriglia (o monaciello).
Alle leggende di matrice diabolica fanno riscontro quelle mitologiche e più ancora quelle storico-religiose; la fantasia popolare, ignorante e succube del misterioso, ha sempre cercare di fondere il pagano ed il cristiano, pratiche sciamaniche e voti, per eliminare le forze del male e per autoproteggersi. Al filone religioso appartengono le leggende:
Santa Nesta (Bagnoli I.), S. Guglielmo e il lupo (Montevergine), La storia della Madonna (Carpignano di Gesualdo), S. Amato ed il Guiscardo (Nusco), Le maggiaiole di S. Andrea (S. Andrea di Conza).
Nella narrazione di quest’ultima, che trova riscontri reali, ancor oggi, si ricorda l’intervento prodigioso della Madonna della Gaggia o dell’Acacia, in favore delle ragazze di S. Andrea.
L’ultimo sabato di maggio di ogni anno queste diventano “pellegrine d’amore” e vanno a piedi da S. Andrea a Conza, con la divina promessa che non resteranno senza marito.
7) L.M. Lombardi Satriani, op. cit., pag. 55.
8) C. Piscopo, Saggio di Storia delle tradizioni popolari (Due studi di folklore irpino). Nuova Stampa, Avellino, 1975, pag. 81.
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La leggenda irpina ha una struttura molto semplice ma dai risvolti didattici; in un mondo povero di emozioni e di conoscenze essa rivela i caratteri della saggezza, della pietà, del rischio e del coraggio. Tanta creazione fantastica resta la parte più significativa e, nello stesso tempo, di più facile accessibilità della letteratura popolare.
Le misteriose vicende di maghi, di spiriti maligni e di santi hanno rappresentato il potenziale culturale ed il supporto necessario per provocare le emozioni e l’istruzione di un popolo.
Ma tutto questo è in via di dissolvimento.
La gente ha acquisito un grado di informazione e di formazione che le permettono di credere nelle proprie capacità.
Le vagheggiate illusioni per migliorare la debole situazione economica appartengono al passato e non devono più supplire le ansie e le aspirazioni di un avvenire incerto, passibile di eventi casuali e lontano dalla dimensione umana. La disperazione rassegnata della “cultura della miseria” sta subendo un radicale rinnovamento; il contadino irpino ormai è convinto che essa non è più il capriccio del destino ma la diretta conseguenza del comportamento degli uomini.
La miseria diventa, perciò un fattore umano d’emarginazione che apre la porta alla rabbia e alla rivendicazione e quindi alla nuova “cultura della contestazione”.
Possiamo constatare come la cultura tradizionale dispersa in una miriade di dialetti, che non hanno permesso la trascrizione e la conservazione del materiale, stia per essere soppiantata.
I nuovi germi, non più contemplazione del mitico e del fantastico, vogliono diventare la certezza cosciente e l’attuazione delle strategie della civiltà moderna e dinamica che costruisce solide strutture economiche e l’invidiato benessere.
Nel nuovo sacrificio l’Irpinia appare disgregata ma non disposta a cedere.
Alcune unità lavorative sono partite per garantire con le rimesse una vita decorosa ai familiari; altre sono rimaste sul posto per costruire il futuro, attraverso un presente che parla già di scelte oggettive e democratiche.
La cultura del giusto e del libertario toglie la catena al facile vittimismo, all’angoscia, alle difese solitarie e alla sfortuna.
La presenza di giovani e di contadini nei partiti e nei sindacati rompe la naturale sfiducia “dello stato che promette e gabba sicuro”.
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L’amara vita, che relegava il contadino alla terra o lo sbatteva qua e là senza lasciargli niente, oggi rivendica la sua esistenza con un linguaggio nuovo che parla di rinascita, di lavoro e di crescita sociale.
È il linguaggio di speranza, lento, faticoso ma certo. È la lotta d’emancipazione della gente e della loro terra.
La lingua
Una delle caratteristiche dei paesi irpini è la lingua. Zone limitrofe conservano, anche se non più con la purezza originaria, un dialetto proprio, con varietà di vocaboli e soprattutto con pronunce diverse.
Nell’Alta Valle del Calore, paesi vicini come Nusco, Montella e Bagnoli presentano differenze notevoli, spiegabili, forse, con l’influenze subite durante la varie invasioni e gli stanziamenti di razze nella zona.
Il dialetto di Nusco è caratterizzato dalla presenza insistente della vocale u, dalla pronuncia della vocale “e” ed “o” molto chiusa e dalla dentale t poco marcata, che suona d.
“Nel dialetto di Bagnoli le parole sono sensibilmente marcate ed in esso si ha qualcosa che potrebbe far pensare alle vocali lunghe e brevi dei Romani.
Nel dialetto di Montella c’è una sovrabbondanza di suoni finali, dra, dro, dri, pronunziati marcatamente, senza sfumature” (9).
Diversa, invece, è la situazione in Avellino e nei comuni confinanti, dove prevale il dialetto napoletano.
In altre zone dell’Alta Irpinia, il dialetto non differisce molto, conservando parole ed accenti uguali.
“A S. Angelo, ad esempio, predomina, come a Guardia, la “d”, mentre a Lioni la “r” (quiddo-quiro)… Guardia abbonda della lettera “c”, e fa sentire molto le dentali, che, spesso lascia smorzare sulle labbra (es. “portedde”). Morra e Rocca hanno pronuncia e dialetto assai simili a quello di S. Angelo: il che può dirsi anche di Andretta, di Bisaccia e di Aquilonia. A Conza, a S. Andrea e a Teora la pronuncia è prevalentemente nasale alquanto cantata; predomina la “n” e la “t” (lattano, ziano,..): il che si nota ancora di più a Caposele, dove molte vocali rimangono in gola” (10).
9) F. Palatucci, Montella di ieri e di oggi, Laurenziana, Napoli, 1969, pag. 170.
10) G. Chiusano, Folklore Altirpino, Di Mauro Editore, Cava dei Tirreni, 1975, pag. 105.
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Una visione globale, tuttavia, manca: uno studio filologico e semantico sul dialetto irpino non è mai stato intrapreso; una raccolta organica della tradizione e dei canti non è stata mai concepita o programmata.
La frammentarietà della ricerca circoscritta a questo o a quel paese permette, comunque, di avere materiale informativo e linguistico.
L’eredità limitata lascia trasparire, anche qui, l’amara constatazione di come il patrimonio linguistico dialettale sia ormai lontano e in via di estinzione; le ragioni di tanto ostracismo possono essere ricondotte ad una sola spiegazione: il dialetto, come lingua, ha subito l’incalzare delle trasformazioni sociali, un processo di deculturazione che ha favorito “la diffusione di un italiano subalterno”.
Il registro linguistico è stato abbandonato , soppiantato dalla scolarizzazione di massa, dai mezzi d’informazione e dai nuovi rapporti sociali e di lavoro. La confusione generata ha fatto perdere nell’uso vivo la specificità, la fonetica, il vocabolario, in definitiva tutta la storia delle classi dominate.
Nelle campagne, anche nelle più sperdute, si assiste ad un lento ma progressivo processo di degradazione; i vecchi, depositari della tradizione contadina, non trasmettono più il loro sapere; i giovani, d’altro canto, rifiutano quei valori divenuti, ormai, anacronistici in una società competitiva e completamente trasformata.
Il dialetto, venendo a mancare l’”ethos” familiare e di classe, non risponde più alle esigenze sociali di un mondo diverso, consapevole ed impegnato.
La nuova cultura ha frantumato la vecchia, assimilandone alcune note di folklore, soprattutto musicali che, nella logica della presente struttura sociale, diventano fattori commerciali o meglio oggetti di consumo.
L’integrazione non è soltanto linguistica ma investe la cultura, l’economia e i costumi; tale cambiamento è il risultato anzi è la “linea fondamentale sulla quale attualmente si modula tutta la politica culturale svolta — con violenza implicita o macroscopicamente esplicita — delle classi dominanti nel loro rapportarsi alle classi dominate” (11).
11) L.M. Lombardi Satriani, Menzogna e verità nella cultura contadina del Sud, op.cit., pag. 17.
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Proverbi, filastrocche, indovinelli
A regolare i rapporti di convivenza della società contadina, pur con innovazioni e assimilazioni linguistiche, molte volte vengono citati proverbi e detti.
La validità di queste note di colore è tale da risolvere, ancora oggi, controversie, da determinare scelte, da caratterizzare persone e da definire particolari momenti della vita.
Questa saggezza in pillole (da alcuni ritenuta propria dei popoli non progrediti) ne esprime lo spirito critico, rivelandosi la parte meglio conservata del patrimonio folklorico irpino.
La continua ed attenta osservazione fenomenica, l’arguzia bonaria ma sottile, la capacità di sintesi del reale costituiscono, oltre ogni approssimazione, l’autobiografia essenziale per conoscere il sistema di vita rurale.
Nei proverbi — scrive Di Napoli, memore della lezione gramsciana — è facile cogliere “oltre i soliti consigli politici e le acute osservazioni ironiche, talvolta protetti da una raffinata ipocrisia, per la particolare funzione che essa generalmente svolge nella storia dei diversi popoli, i caratteri essenziali di una cultura, quella popolare profondamente diversa da quella ufficiale, titolare di una visione del mondo, portatrice di significati esistenziali durevoli e di valori profondi” (2).
L’episodico, più volte confrontato, acquista i caratteri e, quindi, i valori oggettivi e duraturi, divenendo sentenzioso e proverbiale.
L’attenzione non è frammentaria né settoriale ma si rivolge all’intera sfera del vissuto.
Ogni momento della vita ogni controversia non appaiono mai scoperti, potendo essi cogliere motivi e ragioni su cui adagiarsi.
12) A. Di Napoli, I proverbi dell’Alta Irpinia, in Civiltà Altirpinia, Anno V. fase. 1-2, 1980 pag. 44.
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Proverbi religiosi, etici, amorosi, familiari, agricoli assicurano il supporto esistenziale.
La religione, a volte speranzosa, altre volte rassegnata, condiziona il carattere e l’ideologia contadina.
L’alternarsi di elementi contraddittori, più volte fatto segno dagli studiosi come manifestazione di cultura reazionaria, esprime, invece, l’incertezza della vita e il continuo tentativo di adattamento.
Una prova dell’instabilità d’animo e della saggezza che si piega alle varie occasioni può essere assunta da alcuni proverbi religiosi che, pur nelle diverse articolazioni linguistiche, riassumono comuni convincimenti e un’identica esperienza di fede.
L’anema a Dije e la robe a chi regne.
(Conza della C.)
Futti ru panu a casuta e li juorni a Diu.
(Nusco)
Chi a uommini crere paraviso non bere.
(Montella)
Pe chi prateca co la velanza de paraviso non c’è speranza.
(Lioni)
Re la fatica re la festa, lu riavelo se veste.
(S. Angelo dei L.)
Ancora più stridente appare il contrasto nei proverbi etici. La morale non è un fatto assoluto ma sa trovare nel contingente significati nuovi e irreprensibili.
La morale, mancando fattori educativi, rappresenta il codice d’onore del contadino, lo zibaldone del suo comportamento
I ripetuti ammonimenti e le conoscenze acquisite lo aiutano a formarsi il buon senso e a sapere come comportarsi.
Nun ti mangià quand’hai e nun dì quandu sai.
(Nusco)
Nè case vicino a signuri, né terre vicino a vadduni.
(Lioni)
Chi vole mangià assaije s’affoche.
(Conza)
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Chi sputa ncielo, nfaccia torna,
(S. Angelo dei L.)
Anima si, anima criri.
(Montella)
Di ampio respiro, sintomatico dell’importanza originaria, si rivela il patrimonio dei proverbi riguardante la famiglia.
Meglio nno marito strippungieddro ca n’amando mberatore.
(Montella)
La miglière è mièzze pane.
(Conza)
La casa non ave pace
quanno la mugliere parla
e lu marito tace.
(Castelfranci)
La fortuna rè le figlie femmene sta addereto le porte.
(S. Angelo dei L.)
Li nnammurati songu comu a li piatti unu ni rumpi, cienti n’accatti.
(Nusco)
Tra i riferimenti più frequenti ci sono massime che interessano la donna che, per le sue scontate posizioni di debolezza e d’inferiorità, viene presentata sotto molteplici aspetti: infedele, onesta, fertile, lavoratrice, dedita alla famiglia.
Non mancano, tuttavia, consigli per l’uomo, per natura votato al comando e alla direzione della famiglia, per i figli, per le loro scelte amorose e per le conseguenti delusioni.
Sono proverbi dall’inconfondibile caratura, dove il bene è una continua ricerca e il male una ripetuta esecrazione.
Altre “gemme sparse qua e là nel discorso del volgo” (13) interessano il mondo del lavoro con rilievi precipui alle previsioni atmosferiche. Ogni mese ha le sue definizioni che, se corrispondono, possono
13) A. D’Amato, Vita ed anima del popolo irpino nei proverbi. Avellino, 1935, pag. 90.
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favorire il raccolto o danneggiarlo:
Marzu siccu, massaru riccu ri pecuru no ri granu.
(Nusco)
Chi sarreca re marzo enghe lo capàzzo.
(Montella)
Quanne marze vole fa, sape chiove e nevecà.
(Conza)
Marzo putazzo… a la vigna toia, no a la mia
(Lioni)
Se marzo ngrogna, tè fa care l’ogne
(Castelfranci)
Cicci pe’ marzo e levene pe’ aprile
(S. Angelo dei L.)
Tutte queste norme di vita, alcune singolari, altre empiriche, altre didattiche, sono ancora vive tra la gente anziana. Nell’uso vengono citate ma con una certa reticenza; le giovani generazioni, invece, educate alla logica e alla dialettica, rifiutano questo sapere programmato.
Un’altra tradizione singolare è quella degli indovinelli; essi venivano recitati per constatare la prontezza dei riflessi e la capacità di memorizzazione dei bambini. Nell’uso sono scomparsi.
Tuttavia la bellezza delle immagini e l’arguzia compositiva testimoniano le finalità didattiche di un gioco che non era soltanto passatempo.
Vinde vendine de gatte, quatte piede a gatte,
cinqe ogne a pède, fàtte lu cunde quande véne.
(Conza)
Porta la sella e nonn’è ciuccio, Tene rè come e nonn’è bacca;
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Pitte re mure e nonn’è pittore:
addivina si si dottore (14).
(Montella)
Lu patru è ri lu voscu,
la mamma è cuscistorta,
la figlia è facci tonna
e bbenu miu l’avessa a r’ogna.
(Nusco)
Identica sorte è toccata alle filastrocche.
Usate nei giochi dei bambini, o per farli addormentare o come scioglilingua, non hanno resistito ai nuovi tempi.
Per avere un saggio della bellezza ritmica e linguistica, ne riportiamo qualcuna:
Unu, rui e tré
lu Papa nunn’è rè,
lu rè nunn’è papa;
la vespa nunn’è apa,
l’apa nunn’è vespa,
lu suoruvu nunn’è niespulu
lu niespulu nunn’è suoruvu
la senga nunn’è purtusu
lu purtusu nunn’è senga
la trotta nunn’è arenga;
l’arenga nunn’è trotta,
ru casu nunn’è ricotta
la ricotta nunn’è casu,
mastu Nicola nunn’è mastu Biasu,
mastu Biasu nunn’è mastu Nicola (15).
(Nusco)
14) L’indovinello è tratto da: S. Bonavitacola/M. D’Agostino, Lo ritto re l’antici non fallisce mai, Eliotipografia dei fiori, Montella. 1982, pag. 69.
15) S. Di Mita, Le tradizioni popolari di Nusco, (tesi di laurea) anno acc. 67-68, Università di Messina, pag. 120
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Michele, Michele
piglia la gatta pe lo pere,
lo sorgu abballa abballa
e Michele pe la chitarra.
Chitarra e biulino,
Michele pe la gaddina,
gaddina e gadduccio
e Michele stampo re ciuccio.
(Montella)
Maruca cacciacorne
màmmete tè scorne
tè scorne a lu muline
cacce pòvele e farine.
Farina macenàte
lu prèute è malate
appicciame re cannèle
e gghiàmel’a bbedè.
(Conza)
Dobbiamo constatare, con la pena nel cuore, che la finzione e i falsi impegni hanno tradito il recupero della tradizione, tante volte invocato ma, mai, seriamente seguito. Scompare, per irresponsabilità e faciloneria, la matrice culturale di un’intera civiltà, senza rimpianti e senza troppe emozioni.
Un triste destino accompagna la civiltà rurale, ieri emarginata, oggi rifiutata e dimenticata dai suoi stessi portatori.
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I canti
I malinconici rilievi del processo di degradazione della tradizione hanno qualche nota di conforto e di speranza.
Per una fortunata coincidenza è sopravvenuta, qualche anno fa in Italia, la moda, di stampo prettamente consumistico, del “folk music revival”.
Ad alcune ricerche improvvisate, non prive di sospetto, hanno fatto riscontro talune, vedi la N.C.C.P., che hanno saputo interessarsi al folklore irpino. Poche le iniziative serie!
La vastità del materiale, poi, non permette ancora una raccolta definitiva e selezionata (16), tant’è che Chiusano afferma con amarezza: “Tuttora un’organica storia della poesia popolare dell’Irpinia, Alta e Bassa, non esiste” (17).
Dalla dispersione e dalla complessità della materia, bisogna, comunque, trarre gli elementi necessari per approfondirne l’importanza, i motivi ispiratori, i significati nascosti, i ritmi musicali, i metri delle canzoni.
La forma dei canti risente degli argomenti e dei sentimenti espressi.
In quelli santangiolesi sono “usati l’ottonario e il quinario, ma non sempre, nelle narrazioni di miracoli.
Nelle ninne nanne è preferito il quinario doppio.
Molte libertà di sillabe e di ritmo è per altri argomenti” (18).
Nei canti di lavoro, ad esempio, fa riscontro il verso sciolto, a dimostrazione della semplicità e della immediatezza delle immagini.
16) Tra le raccolte, più recenti, dei canti popolari vanno ricordate quelle di : Stefano Di Mita e Nino luliano di Nusco, Fedele Giorgio di Conza, Roccopietro Colantuono di Lioni, Giuseppe Chiusano di S. Angelo, Ferdinando Palatucci di Montella
17) G. Chiusano, Folklore Altirpino, op. cit., pag. 12.
18) Ivi.
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Anche l’impostazione e le parole dei vari paesi sono diverse, proprie di esperienze culturali e lavorative dissimili.
Cale, cale sole
ch’agge avute male patrone:
m’have date poche pane,
cale sole me face fame.
E lu sole m’ha ddate n’azzìnne:
m’ha dditte vattìnne, m’ha dditte vattinne.
E lu sole m’ha zzennijate:
m’ha dditte vattìnne ca so calate.
(Conza)
Ara, gualano mio, ara gualano
si vuoi che puorti nnanti su diuni:
l’aratro è r’oro, e lu iugo è r’argiento
le curriele so rè filo a dante:
sempe a lo coricchio tiene mente,
bella, ca l’uocchi tui so diamanti.
Chi vole sta a lu munno pe gorè
avria chi t’ha amato e tienelo ncore.
(S. Angelo dei L.)
Nei canti lirici lo strambotto è la forma più immediata e trova massimo uso nel rispetto, che ha come verso privilegiato l’endecasillabo e a volte il decasillabo; quest’ultimo “non ha varietà d’armonia e riesce monotono e malinconico”.
Vengono usati anche versi più brevi che suppliscono la mancanza di sillabe con l’allungamento delle note del canto e della musica.
Il ritmo sciolto conferisce una libertà espressiva, una spontaneità che riesce a tenere l’armonia pur nel verso irregolare (19).
Il motivo poetico, scrive Barbi, si condensa “nel quadernario a rime alternate per poi ribattere, nelle
19) S. Di Mita, Le tradizioni popolari di Nusco, op. cit., pag. 41.
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riprese sul particolare che più importa; oppure accennare nelle prime a circostanze esteriori, per manifestare poi il sentimento vero nella seconda”(20).
Miezzu a sta via ngi sta na rundinella,
tutta si presta cu la billezza,
la mamma vaci rucennu; Figlia, figlia,
stu bellu guaglionu ti l’è a piglia.
Spingulu r’oru e acu r’argientu,
quistu è lu ninnillu tua che t’ama tantu:
guarda ca nu li rai nu trarimientu,
ca nu l’avissa cangia cu n’atu amantu.
(Nusco)
Nel santangiolese, invece, “per quelli d’amore e di odio è usata l’ottava con rime alterne, o con le ultime quattro, o due baciate; talvolta l’assonanza sostituisce la rima” (2).
Facce rè na serpe rè cannito
quanno cammini cuoteli la capo,
tè fai cuntenè co su vesito
na cascia rotta e nu lietto sfunnato.
Facce rè crapa selvaggia
si ghiuta a nasce e la metà re Foggia
cumme a nu cane m’è mossa la raggia
tutti li malandrini a caseta alloggene.
(S. Angelo dei L.)
Nei canti di sdegno di Conza, ma lo troviamo pure in altri paesi, prevale come forma metrica il tetrastico, e come verso il decasillabo oppure versi più brevi:
Figliole ohi figliole
nun té métte a ccère a ssole:
si te face la faccia neure
ppò nisciune cchiù tè vòle
20) M. Barbi, La poesia popolare italiana, Firenze, 1939, pag. 97.
21) G. Chiusano, Folklore Altirpino, op. cit., pag.12.
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Chiove e méne lu vénde
e sse dufreschene rè llenzòle:
la mamme vaje chiangènne
ca la fjglie dorme sole.
Tu chj tiène la dote
mittatille a la callare:
cu ssa facce de mascijare
probbje a mme vuoje ammagà.
I nuovi tipi di rapporti, che regolano la nostra società, hanno reso meno problematico l’avvicinamento e la “conquista” della donna.
Le serenate e le canzoni non servono più per far conoscere i propri sentimenti. La stessa libertà comportamentale, avendo superato certi tabù, non fa più sospirare né desiderare il sorriso malizioso, ma sa trovare altri argomenti più intimi.
Cambiati i costumi e le abitudini, le pene d’amore, le speranze riposte e l’alterno sentimento fanno solo sorridere. La canzone, che seguiva il ritmo del cuore angosciato o allegro, resta alla mercé del mercato discografico, che ne ha fatto un prodotto di consumo.
Non abbiamo tracce di canti di ribellione, a dimostrazione della mancanza di lotta contadina e di classe. Contemporaneamente in zone analoghe, vedi il Cilento, non diverso per problemi e realtà rurale, il canto di protesta rappresenta più pagine della cultura e dell’anima popolare.
La condizione subiettiva irpina, invece, vista sempre come un assurdo destino, non trova sfogo nel canto.
I bisogni del riscatto, mai sopiti, sono contenuti nel silenzio, nell’attesa di momenti più felici, per esplodere nella rivendicazione.
Ma la protesta è stata poca cosa ed è venuta tardi.
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Teatro e feste popolari
L’isolamento e la monotona e snervante vita dei campi non hanno mai distolto la famiglia contadina dal favorire e dall’accrescere i momenti associativi.
L’uccisione di un maiale costituiva, ma lo è tutt’oggi, l’occasione per scambiarsi le visite, le opinioni, per avvicinare le famiglie e per rinsaldare i vincoli di amicizia, di parentela e di vicinato.
La stessa uccisione viene fatta oggi secondo antiche disposizioni di tecnica e di tempo.
Ogni famiglia, anche la più povera, non rinuncia a questo rituale; anche se tanta presenza comporta l’acquisto di roba, il sacrificio della spesa è un fatto obbligato a cui non si può contravvenire.
Una volta quest’incontro veniva concluso con una festa danzante; durante il suo svolgimento si creavano fidanzamenti, si programmavano matrimoni; in sintesi si assicuravano i legami di continuità della famiglia. Ben altra risonanza, e con un cerimoniale non completamente scomparso, offrono i grossi appuntamenti di massa: le feste religiose e il carnevale.
Le prime, in una mistione di sacro e profano, costituivano l’unica occasione per vendere alla fiera le bestie e i prodotti agricoli e per fare le provviste (abbigliamento, utensili) bastevoli per l’intero anno. (La fiera era un’istituzione in uso già al tempo dei Comuni).
All’aspetto civile rappresentato da scambi economici e rallegrato dalle luminarie e dai mortaretti, pagati con il contributo di tutti (collette), si affiancava l’aspetto religioso.
La gente povera ma devota sfilava scalza, portando in processione le offerte: grosse candele di cera con penne colorate, portate dai vari pellegrinaggi, e i “muzzetti” (misure di grano, abbellite con nastri e figure del Santo).
A Nusco, in Alta Irpinia, durante la festa di S. Amato venivano portate in Chiesa le pecore della Masseria Armentizia, in precedenza ammaestrate.
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Appena compariva il vessillo raffigurante il Santo, tutte le pecore s’inginocchiavano (22).
Della tradizione non è rimasta traccia.
Di altre, invece, anche se i nuovi tempi dimostrano una concezione della fede più intima e meno penitente, conserviamo un rituale religioso-folkloristico, in parte ripreso negli ultimi anni.
Molti paesi, come dimostra la singolare pubblicazione curata da P. Grasso e P. Russoniello, corredata da notizie storico-critiche e da fotografie, rivivono aspetti della loro tradizione (23).
Ne riportiamo i più significativi:
A Flumeri, il 16 agosto, si festeggia il giglio di S. Rocco. Due sono le note caratteristiche: il giglio, un gigantesco obelisco, di origine pagana, montato su cinque piani di forma quadrangolare, che vanno restringendosi verso l’alto, e tutto rivestito di spighe; il manto del Santo ricoperto d’oro.
A Mugnano e ad Altavilla, durante le rispettive feste di S. Pellegrino e Santa Filomena, i battenti sfilano in processione per vari chilometri con sbandieramenti, danze frenetiche, pianti ed implorazioni.
In ricordo di un’apparizione della Madonna, Castelvetere organizza la festa del pane miracoloso. Tutta la gente fa a gara per offrire il grano, da cui, poi, verranno fatte le ciambelle, offerte il 28 aprile giorno della Madonna.
Alcune ragazze, sotto i 12 anni, tutte vestite d’oro e accompagnate da padrini con nodosi bastoni, dispensano, secondo il desiderio della Madonna, il pane miracoloso.
A Lapio, invece, si solennizza il Venerdì Santo.
Ventidue tavolate, gruppi plastici in cartapesta, raffiguranti la passione, vengono portate in processione. Uno stuolo di bambine, vestite di nero, (le addoloratine) segue Gesù morto.
S. Mango ricorda la festa di S. Anna.
I giovani sanmanghesi fanno una lunga cavalcata fino al fiume Calore e di qua alla chiesetta di campagna dedicata alla Santa. Vogliono ricordare il gesto di un lontano cavaliere venuto in quel posto per il voto di una grazia ricevuta.
22) G. Passaro, Verso il IX Centenario della morte di S. Amato, Tipografia Napoletana, 1973.
23) P. Grasso / P. Russoniello, Fede e folklore in Irpinia, De Mauro Editore, Cava dei Tirreni, 1979.
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Prata P.U. festeggia l’Annunziata.
Due fanciulle, sospese in alto, e in abbigliamento angelico salutano la Madonna e rievocano la rappresentazione dell’Annunciazione.
A Mirabella si ricorda la tradizione del carro.
L’obelisco, poggiato su un carro, e rivestito con pannelli intessuti di paglia lavorata a mano, che danno archi, capitelli, figure di frutti, è formato da sette piani che si assottigliano verso l’alto. Il carro viene tirato con le funi da varie centinaia di persone.
Montella solennizza la festa della SS. Trinità. In quella sola occasione tutte e 12 le congreghe partecipano insieme a una manifestazione religiosa. Vogliono ricordare una provvidenziale pioggia, che, da una temuta carestia, procurò un abbondante raccolto.
Una tradizione, che ha subito grossi colpi distruttivi, pur con sensibili segni di cambiamento, resta quella del carnevale.
Una volta disdegnata perché popolare, volgare e letteralmente legata alla terra, oggi accomuna tutti senza distinzione.
In origine essa iniziava il 17 gennaio, festività di S. Antonio Abate. La conferma ci viene assicurata da un vecchio detto:
S. Anduonu mascharu e suonu
ed ancora:
Chj buone Carnevale vóle fa,
da Sand’Anduone hadda accumenzà
(Conza e Morra de Sanctis)
Tutt’oggi il popolo collega l’inizio del divertimento e della festa con questa ricorrenza.
Le maschere, in prima uscita, danzano vicino a grossi falò accesi in onore del Santo, i cui carboni, fino a qualche anno fa, venivano portati in ogni casa e conservati, secondo la tradizione, per scongiurare i temporali. Intorno ai falò la gente ama incontrarsi per socializzare e consumare castagne, patate e vino.
Sui falò sono interessanti due teorie interpretative del Foschi: “l’una vede nei falò la sopravvivenza di un culto del fuoco (del sole secondo una teoria affine); l’altra vi riconosce soltanto il valore magico profilattico, sul principio che il fuoco purifica tutto e quindi elimina ciò che è cattivo, e non lascia sussistere se non ciò che è puro e santo” (24).
24) P. Toschi, II folklore, Roma, II Edizione, 1960, pag. 71.
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La festa vera e propria, che ha risonanza in ogni contrada, è il martedì di carnevale e la domenica successiva.
Maschere e fantocci presidiano le piazze; frenetici balli, accompagnati da urla, invitano alla danza.
Scomparse le maschere dell’orso e del diavolo, simboli propri della società agreste, troviamo accanto a maschere tradizionali (Pulcinella, la zingara, la donna procace) altre di recente assimilazione, caratterizzanti tipi e costumi del nostro tempo.
Ma il Carnevale ha profondi significati da spiegare; ovunque ha rappresentato il cerimoniale del mondo alla rovescia in cui “l’alto viene ricondotto al basso” e quindi alla morte, per ricominciare nuovi cicli.
In questo divenire ed alternarsi di vita e di morte ci sono altre ragioni che codificano il carnevale irpino. Tra le considerazioni emerse, infatti, non si era “riflettuto sul fatto che, in Campania, questo ciclico e provvisorio rovesciamento d’ogni codice, questo “abbassamento” materialistico d’ogni sublimità coincidono con la sostanza tellurica e infera della cultura popolare meridionale” (25).
Certe maschere e certi movimenti esprimevano, quindi, una cultura sommersa e diabolica.
Della vecchia tradizione non sappiamo molto.
La presente, invece, nell’entroterra irpino non si discosta molto da un paese all’altro: balli processionali accompagnati dal suono della fisarmonica, del clarinetto, del tamburello e delle “castagnole”.
A Gesualdo e a Castelvetere, oltre alla sfilata delle maschere, c’è quella dei carri allegorici.
A Piazza di Pandola, invece della tarantella, si danza il “ballo in trezzo”.
Nelle zone limitrofi di Avellino (Bellizzi, S. Potito, Cesinali) la festa del Carnevale è espressa dalle Zeze. L’azione è retta da quattro personaggi: Pulcinella, sua moglie Zeza, la loro figlia Vincenzella e Don Nicola pretendente di Vincenzella.
“Azione puramente rituale, la canzone di Zeza, rappresenta la figura di un anno, padre ormai morente il quale cede a rassicurare con un nuovo matrimonio sulla continuità di un ciclo naturale e rigenerativo. La figura di Pulcinella padre, infatti, conserva tutti i caratteri del tradizionale maschio patriarcale prevalentemente geloso ed inconsciamente amante della figlia, mentre Zeza, emblema della madre fallica
25) A. Rossi / R. De Simone, Carnevale si chiamava Vincenzo, De Luca Editore, Roma, 1977, pag. XV.
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e cioè di un matriarcato tuttora esistente in Campania, risolve il dramma contribuendo alla castrazione del marito” (26).
Agli innegabili aspetti culturali fanno riscontro i bisogni economici, singoli e collettivi, auspicanti un mutamento sociale in questa direzione: il travestimento maschile e l’uso di abiti borghesi nelle Zeze (desiderio di cambiare la propria posizione socio-economica).
Il movimento scenico nelle Zeze e soprattutto il ballo nelle tarantelle risentono di gesti naturali, derivanti dal lavoro quotidiano, magici, sacrali e di imitazione degli animali.
Le componenti possono essere così sintetizzate: componenti di protezione, d’angoscia, di liberazione, di morte e di sesso.
“Nelle danze popolari, l’oscillazione o dondolio ugualmente riveste i molteplici esposti. Tale gesto esprime un istinto biologico (desiderio di muoversi, desiderio della culla, della madre, desiderio sessuale), si ricollega a stati angosciosi dell’individuo ed esprime in ultima analisi col suo significato comunemente una affermazione o una negazione. Ritmica-sessuale la relazione e la comunicazione col mondo dei morti” (27).
In alcune zone (Nusco, Ponteromito, Lioni), durante la sfilata, si procede alla questua; vengono raccolte offerte in denaro o in natura.
“Affacciativi signurinu
ca vogli nu capu ri sasicchiu
e si nun mi lu vuliti rà
ca vi pozza nfraciutà,”
Una volta alla richiesta di Pulcinella la gente dava salsicce, formaggio e vino.
A Montefusco, invece, vengono recitati, davanti alle case dei giovani sposi, i cosiddetti ‘“ngiarmi”, componimenti a rime baciate.
Le maschere di Solofra si distinguono per il travestimento e sono chiamate “zingarelle”.
26) A. Rossi / R. De Simone, op. cit., pp. 101-102.
27) A. Rossi / De Simone, op. cit., pag. 24.
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A Grottolella, Capriglia e Summonte è consuetudine che i giovani si mascherino e si presentino davanti alle case degli amici (28). A Morra de Sanctis, si rappresenta la tragicommedia “Cecilia”.
Il Carnevale con la sua diversa sopravvivenza dà nuovi impulsi alla vita, alle sue difficoltà, e permette la continuità della “festa dei poveri”, riproponendo, anche se con minore intensità, i suoi significati di “esorcizzazione del negativo, del grottesco, del ridicolo, della festa come liberazione”.
L’ultimo atto è il processo e la morte di Carnevale. Con la lettura del testamento gli si fanno fare e dire le cose più impensate.
In alcuni paesi irpini la tradizione è ancora viva (Montemarano, Nusco, S. Potito); a Montella è sopravvissuta fino a pochi anni fa: era l’occasione perché alcune maschere, travestite da personaggi ed animali, apprezzabili opere di artigiani locali, denunciassero le magagne dei cittadini.
Il testamento è costituito da componenti satirici che hanno il manifesto intento di far conoscere le malefatte e le beghe della vita paesana.
“Coloro che sono colpiti sopportano la rivelazione di esse che, fuor di quel momento, non tollererebbero in alcun modo. Tutto ciò risponde a quella mentalità a cui si ispira la confessione collettiva dei peccati ben nota a chi si occupa di Storia delle Religioni, e il cui scopo mira ad espellere, con la confessione, il male-peccato, in modo che la collettività possa muovere pura e sana verso il nuovo anno” (29).
28 C. Piscopo, Saggi di Storia delle tradizioni popolari (Due studi di folklore irpino), op. cit.
29) P. Toschi, Il folklore, op. cit., pag. 70.
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Superstizione e religione
I momenti diversi e contrastanti della superstizione e della religione contadina non si prestano ad essere ben definiti.
La continuità, l’integrazione e la confusione dei due aspetti producono un gioco di parole: religione superstiziosa o superstizione religiosa?
Il mondo contadino, pervaso da oscure forze del male e restio alle innovazioni, non ha mai rinunciato alle vecchie divinità e a certe pratiche; ha fuso, abilmente, in un sincretismo religioso, la vecchia cultura pagana con la religione cristiana.
Ma la convivenza lascia spazio al contrasto dei “due punti di vista che si contendono reciprocamente il campo: la fede in un potere divino, non contaminato dalla vita quotidiana, e una concezione magica, espressa da una miriade di santi e superstizioni, in cui il cosmo è stato ridotto, com’era in origine, a proporzioni umane e reso operante nelle minute difficoltà di ogni giorno…” (30).
Pur seguendo le pratiche liturgiche cristiane, il contadino non rinuncia a quelle magiche e sciamaniche, in cui non trascura invocazioni a Dio, alla Madonna a ai Santi.
Tale ampliamento dell’orizzonte religioso gli garantisce la presenza di Dio e gli evita il conflitto della situazione peccaminosa.
La stessa richiesta di grazia, generalmente rivolta ai Santi (con i quali esiste un rapporto di familiarità e di solidarietà), se soddisfatta, viene ripagata con ex voto o con doni in denaro.
Da questo convincimento derivano i continui pellegrinaggi nei santuari.
La devozione, senza ignorare l’evasione, coinvolge soprattutto la donna-madre “che ha ragioni culturali profonde di tenere in vita un legame con la devozione, quale si concreta nel voto del pellegrinaggio: e che per ciò stesso tende a mantenere, presso il marito e i figli, saldo il prestigio della devozione e delle
30) F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, La civiltà contadina e la trasformazione delle campagne, op. cit., pag. 129.
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condizioni di culto che vi sono collegate” (31).
La richiesta di protezione serve a ridurre la minaccia dell’ignoto e del negativo.
Questa cultura religiosa, testimoniata in prevalenza da donne avanzate negli anni, rivela i caratteri propri della miseria, di una deficienza psicologica e non quelli di “una dimostrata affinità dei processi socio-culturali di emarginazione”.
La religione popolare è una proiezione della cultura della povertà e dell’emarginazione; queste condizioni sono conseguenza dei mancati processi socio-culturali da cui dipendono i comportamenti, i consumi e la solidarietà.
Secondo De Martino “l’equazione religiosità popolare povertà s’articola in due diverse direzioni, una esistenziale e una storica” (32).
Nella prima la religione soddisfa, simbolicamente, i bisogni legati all’esistenza; nella seconda, non potendo incidere nel presente, si rifugia nel passato e nel futuro come “generica forma di coscienza-conoscenza umana”.
L’impossibilità e l’incapacità di raggiungere risultati positivi e di crescita difendono, perciò, l’esercizio della sua vita religiosa.
Il contadino invoca la mediazione, per ridurre gli eventuali malefici; si accontenta di non subire il male e poco gli importa di affrontare processi evolutivi o di cambiamento.
L’opportunismo rinunciatario e la fiducia nella protezione mediata fanno capire le sue virtù che non sono “cristiane, ma le virtù naturali di un popolo realistico che vive entro i confini sociali e cosmici della “miseria” (33).
Tutta la sua vita è avvolta dalla paura e dal mistero: persino la morte e le sofferenze sono conseguenze della miseria.
In questa visione del quotidiano, sempre prossimo all’apocalittico, l’imprevisto e il malefico possono provocare danni irreparabili e mettere in crisi la pace e la fortuna familiare.
La morte, ad esempio, costituisce la nota negativa maggiore; essa rompe ogni equilibrio, provoca eccessi di dolore e crea un rituale di pianto e di lamenti con cui si celebrano le memorie e gli affetti del defunto.
31) G. Giarrizzo, Mezzogiorno e civiltà contadina, in Campagna e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia, De Donato Ed. vol. II, 1979, pag. 328.
32) E. De Martino, in G. Giarrizzo, op. cit., pag. 338. 33; F.G. Friedmann, in G.A. Marselli, op. cit., pag. 128.
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Tale lamento è un’altra proiezione della miseria: si piangono e si cantano, nello stesso tempo, le lodi ovvero le gesta epiche dei morti per evitare il loro ritorno — secondo De Martino — come una “rappresentazione ossessiva o come immagine allucinatoria”.
La popolazione contadina sospettosa, impaurita, credulona, ammaliata dagli stati di possessione, affida le sue paure e le sue difficoltà alla magia.
“Il culto dei santi e dei defunti, il suo Cristo eternamente agonizzante, la sua ossessione dello sguardo malefico e delle fatture, le sue dimestichezze con i monacelli e le tarantole, la sua vertigine degli oracoli, dei Sogni e della Sorte” (34), sopravvivono ancora in Irpinia, ma si avvertono ovunque segni di erosione e di poca consistenza.
Le invocazioni propiziatorie, che servivano per piantare un albero e per far covare le uova dalla chioccia, sono state soppiantate.
Restano, invece, nell’uso e con rinnovata credibilità alcune tradizioni: il maiale non va ammazzato nello stesso giorno della settimana in cui capita, in quell’anno, la festa di S. Sebastiano; neppure i salami possono essere confezionati in quel giorno; identico comportamento viene mantenuto per la preparazione delle salse, per l’imbottigliamento del vino e per la conservazione degli ortaggi.
Fa pure meraviglia l’importanza riconosciuta al sogno: tuttora esercita una funzione di predizione e di ammonimento. Anche se il condizionamento non viene riconosciuto apertamente, esso può determinare l’agire: anticipa o ritarda i tempi di esecuzione di una faccenda, assicura o distoglie da un investimento, avvalora o rinnega scelte o decisione da adottare.
Una considerazione a parte va fatta per i sogni che interessano le apparizioni dei morti. Tale specificità assicura, nel quotidiano, la presenza del defunto, che chiede suffragi o parla dell’aldilà; ne derivano giudizi e consigli, in una comunione extrasensoriale, che fa tenere, nella giusta considerazione e con la dovuta apprensione, la figura del trapassato.
Il sogno conserva le virtù proprie del presagio, non tutte riconducibili a convinzioni di suggestione e di magia, se si pensa quale considerazione gode, in psicologia, il pensiero onirico.
Nonostante queste resistenze, il mondo civile continua, imperterrito, la sua azione demolitrice.
34) Ivos Margoni, in A. Rossi / R De Simone Carnevale si chiamava Vincenzo. op. cit., pag. XIV.
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Magia e credenze*
L’alternativa fra “magia” (1) e “razionalità”, scriveva un ventennio fa il De Martino, “è uno dei grandi temi da cui è nata la civiltà moderna” (2). L’affermazione aveva ed ha un suo innegabile fondo di verità. La storia dell’umanità, infatti, è stata caratterizzata da tutta una serie di compresenze di manifestazioni “irrazionali” e “razionali” che col passare degli anni, consolidandosi, si sono trasformate in pratiche, credenze, usanze, conquistandosi, in tal modo, un loro spazio di credibilità.
La lotta tra questi due mondi, quello fondato sulla “magia” e quello fondato sulla “razionalità”, non venne sempre esercitata con rigore scientifico.
Nel Mezzogiorno, in particolar modo, la partecipazione della cultura “alta” alla polemica antimagica conobbe aspetti positivi solo quando la “polemica antimagica entrò nella sua forma più pertinente di alternativa fra magia e razionalità, fra esorcismo ed esperimento, fra incantesimo e scienza riformatrice” (3).
In questi ultimi anni il dibattito ha assunto toni completamente diversi. Lo sviluppo economico e il contemporaneo risanamento dei dislivelli sociali preesistenti hanno fortemente condizionato l’esercizio
* II paragrafo “Magia e credenze è, nella sua integrità, uno studio di Alessandro Di Napoli.
1) Per una corretta definizione del termine “magia”, che in questo nostro lavoro noi usiamo nel suo significato più estensivo, si consiglia la seguente bibliografia: E.B. Tylor, Primitive Culture, New York, 1871; J.G. Frazer, The Golden Bough, London, 1922 (trad. it. Il Ramo d’oro, Torino, 1965); B. Malinowski, Argonauts of the Western Pacific: Native Enterprise and Adventure in Melanesion New Guinea, London, 1922; IDEM, Magic, Science and Religion and Other Essays Glencoe, Illinois, (trad. it.. Magia, scienza e religione. Roma, 1976); E. Durkheim, Les formes elementaires de la vie religiouse, Paris, 1912, (trad. it., Le forme elementari della vita religiosa. Roma, 1973); L. Lèvy-BruhI, La Mentalità primitiva, Torino, 1966); M. Mauss, Teoria generale della magia, Roma, 1975; E. De Martino, il mondo magico, Torino, 1948; E. De Martino, Sud e magia, Milano, 1959.
2) Cfr., E. De Martino, Sud e magia, op. cit.
3) E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 9.
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delle più diffuse pratiche magico-rituali, facendo, di pari passo, regredire l’uso di tecniche ad esse direttamente collegate, perché ritenute storicamente superate.
I documenti in nostro possesso, e le continue osservazioni sul territorio dimostrano che l’uso di tali tecniche è del tutto scomparso o, se praticato, esso è limitato a situazioni precarie di tipo molto particolare.
In questo lavoro, oltre ad una esplorazione di alcune tra le più diffuse sopravvivenze irpine, tenteremo di determinare la struttura delle tecniche magiche, la loro funzione psicologica, il regime di esistenza che ne favorisce lo sviluppo e la scomparsa. Infine, tenteremo di scoprire le ragioni che hanno, definitivamente, messo in crisi la credibilità di gran parte di alcuni cerimoniali che, un tempo, dominavano la vita delle piccole e indifese comunità agricole della provincia di Avellino.
Il malocchio
Uno dei temi fondamentali della bassa magia cerimoniale irpina, ma praticato con altre denominazioni in tutto il Mezzogiorno (4), è la fascinazione (in dialetto: maluocchio). “Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta” (5).
In provincia di Avellino il trattamento della fascinatura si fonda sulla esecuzione di un particolare cerimoniale da parte di operatori non necessariamente specializzati (6).
Ad Andretta, secondo l’usanza ancora diffusa, soprattutto tra la popolazione rurale, una vecchia si pone il bambino, che si sospetta sia stato preso dal malocchio, sulle ginocchia, gli fa il segno della croce sulla
4) E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pp. 13-65; Cfr. E De Martino, Morte e Pianto Rituale nel Mondo Antico, Torino, 1958.
5) E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 13.
6) In Lucania si richiede la partecipazione di operatori specializzati (Cfr. E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 13 e sgg.). In Alta Irpinia, invece, la pratica del malocchio può essere realizzata da chiunque e con la stessa efficacia.
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fronte, sul petto e sulla pancia e ripete per tre volte il seguente scongiuro:
Dui occhi ci tengo in fede,
quattro me ne salvo occhi passandoli core crescendo; In nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Schiattano i mal’uocchi e crescono buon’occhi (7).
Ma la pratica più diffusa, per eliminare il malocchio, è la seguente:
Due occhi ti offendono (8),
tre ti difendono,
il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Due occhi t’hanno visto,
tre t’hanno flagellato
e lo Spirito Santo t’ha liberato (9).
Subito dopo aver pronunciato la formula si fanno una infinità di croci, alle tempie e sulla fronte, alla persona sottoposta alla pratica.
A Monteverde, invece, per evitare di essere colpiti dal malocchio si portano addosso alcuni oggetti (forbici, corno, ecc.) e si ripete la seguente formula:
Uocc t’hann affascinat,
Sant l’hann aiutai Angil sant da li cielo calast,
Panne e ngiens tu purtast,
Lu purtast appi la via
Leva ‘st’affascu ra cimma a ‘sta criatura mia (10).
7) Cfr. A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, Catania, 1933.
8) Variante del melfese:
Doi uocchi t’hanno aducchiato
e tre sand t’hanno aita;
A nnome d lu Patr
d lu Figli e d lu Spird sant,
non t’aiutu come a figli miei
ma coma a figli d Marei.
Scatta maluocchie
e crisci bonucchie.
Cfr., R. Nigro, Tradizioni e canti popolari lucani: il Melfese, Bari, 1976.
9) Cfr., A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit., pag. 10.
10) Cfr. A. D’Amato, ivi, pag. 13.
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A S. Andrea di Conza si spargono sul fuoco incenso, foglie secche di ulivo e sale e, mentre il bambino viene mantenuto sul fumo, la fattucchiera dice quando segue:
Duie uocchie t’affennono, tre te salvano,
Lo Padre, lo Figliuolo, lo Spirito Santo,
Scattate maluocci tutti quanti (11).
L’ideologia della fascinazione, come già si è cercato di mettere in evidenza, costituisce il tema dominante della bassa magia cerimoniale irpina, in quanto le altre forme di magia sono in stretta connessione psicologica con l’esperienza di dominazione su cui poggia la fascinazione. Per quanto riguarda la fascinazione magica della malattia è da notare che, in provincia di Avellino, le testimonianze sono abbastanza rare. Generalmente, i ragazzi colpiti da malore si incensano. Il rituale, in questa occasione, è molto semplice: sul fuoco del braciere o del caminetto si versa dell’incenso e, mentre questo brucia, si prende il ragazzo, per le braccia, e lo si agita a modo di croce. Contemporaneamente, la madre si esprime con un apposito scongiuro:
Mamma t’incensa
dalla capo allo pere
e chi ti ha fatto ro male
ti face ro bene (12).
Per allontanare, invece, il mal di pancia si formula il seguente scongiuro:
Santo Pietro venia ra Roma, (13)
in casa re ‘na ronna fu alloggiato;
11) A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit., pag. 13.
12) A. D’Amato, ivi, pag. 10. 33) Variante di Ferrandina:
S. Pietro da Roma venia
Chiaggendo e lacrimando scia.
Acchiò o maestro pè via:
— Ce jè Pietre ca vai chiaggendo?
— Stà zitte maestro mio,
tengo la rugna e la capa pennata
e da tutti sò schifate,
—Piagghia nu poco d’uogghio
e nu poco de pisciate
e la tigna t’è sanate!
Cfr. R. Nigro, Tradizioni e canti popolari lucani, op. cit.
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piglia nfossa e ossa sporpate,
male re ventre te sia passato (14).
Subito dopo lo scongiuro si fanno tre croci sulla pancia del paziente.
In Irpinia la possibilità di fascinare e di essere fascinato trova un terreno particolarmente fertile nella vita amorosa: solo che, mentre gli scongiuri contro il malocchio e l’invidia dei parenti, degli amici e dei vicini tentano di istituire una difesa dell’energia maligna che insidia le persone, gli incantesimi d’amore sono quasi sempre impiegati per stringere a sé la persona che si ama.
Questo tipo di fascinazione, è bene sottolinearlo, viene praticato, essenzialmente, dalle donne mentre l’uomo ricorre ad essa solo in rarissime occasioni.
La donna, infatti, per la sua particolare condizione di sudditanza, almeno sino a qualche anno fa, si affidava molto più facilmente, considerata anche la sua condizione di elemento tradizionalmente passivo nella vicenda d’amore, alla piccola strategia dei filtri amorosi, delle pratiche augurali e divinatorie. Il sangue catameniale, la secrezione femminile e il sangue delle vene hanno, secondo una tradizione ancora oggi diffusa, il potere di legare a sé l’uomo desiderato (15). Non esistono, comunque, per questo tipo di pratica né rituali prestabiliti né formule precise, anche perché in questo ultimo decennio, data l’evoluzione culturale delle zone interne, la pratica è quasi scomparsa.
Credenze e superstizioni
Le superstizioni, le piccole credenze, senza particolari implicazioni magiche, sono praticamente scomparse, anche se esse trovano terreno fertile soprattutto in quelle aree dove la diffusione della cultura moderna ha trovato poca incisività.
Un piccolo elenco di esse ci consentirà di valutare, con un certo rigore scientifico, l’entità del fenomeno e il valore sociale che esse assumono in un contesto culturale ed economico ancora in via di sviluppo.
14) A. D’Amato, Nuovo contributo al folklore irpino, op. cit., pag. 10.
15) Cfr, E. De Martino, Fascinazione ed eros, in Sud e magia, op. cit., pp. 17-19.
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1. Ogni favilla che si sprigiona dai carboni o dai “tizzoni” semispenti rappresenta un’anima che vola nell’altro mondo. (Bisaccia)
2. Se nel dire il rosario si spezza la corona è segno che la grazia richiesta è stata soddisfatta. (Monteverde)
3. Quando canta la civetta, (la cristarella) sul tetto di un’abitazione, è segno che, nell’altra abitazione, quella guardata appunto dalla civetta, qualcuno deve morire.
4. I capelli caduti, mentre le ragazze si pettinano, devono essere subito bruciati, in quanto si teme che qualcuno, trovandoli, possa servirsene per fabbricare una fattura.
5. Il vino che si rovescia sulla tovaglia, durante, prima o dopo i pasti, è malesegno (16).
6. Il fischio all’orecchio è segno di buone notizie, segnale di avvenimenti lieti.
7. Il singhiozzo è segno che qualcuno sta parlando di noi.
8. Il sale e l’olio, versati sul tavolo, sono segni di sventura.
9. Sciogliere o legare le scarpe vicino al focolare acceso porta sfortuna.
10. L’ombrello non va mai aperto in casa.
Tutte queste superstizioni, osservate sino a qualche anno fa con particolare vivacità, stanno quasi scomparendo. Le nuove generazioni, infatti, non solo non le osservano, ma, molto probabilmente, le ignorano persino. I genitori, d’altra parte, passati da una cultura rurale ad una cultura pre-industriale e di massa, non amano più neanche tramandarle o, cosa più giusta, farne, con i figli, oggetto di studio e di dibattito.
Questo mondo, come si auspicava il Di Fronzo (17), sta veramente scomparendo.
A questo punto se ci si chiedessero le ragioni che hanno contribuito a far sopravvivere, sino a qualche anno fa, un’ideologia così arcaica, rozza e mal definita nei suoi più intimi connotati, la risposta non potrebbe essere che questa: sino a qualche anno addietro, nella nostra provincia, nonostante le pressioni della civiltà moderna, regnava un regime di vita precaria, capace di condizionare fortemente l’esistenza
16) Maleaugurio, Cfr. P. Di Fronzo, La superstizione, in Vecchio mondo in declino, Lioni, pp. 9-13.
17) P. Di Fronzo, op. cit., pp. 7-8.
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di larghi strati sociali della popolazione irpina.
In questa situazione esistenziale “la precarietà dei beni elementari della vita, l’incertezza della prospettiva concernente il futuro, la passione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllati, la carenza di forme di esistenza sociale, l’asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola arretrata, l’angusta memoria di comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell’esistenza costituiscono altrettante condizioni che favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche” (18).
D’altra parte, come potevano i contadini, privi d’istruzione, privi di qualsiasi bene materiale, fronteggiare la presenza del precario e del negativo lungo tutto l’arco di vita individuale, della propria famiglia, del proprio gruppo sociale? Quali risposte potevano essi formulare di fronte alle presenze di forze oscure che non riuscivano ad individuare e a definire?
I temi della forza magica, della fascinazione, della fattura, della possessione, dell’esorcismo, sono, quindi, senza ombra di dubbio, in stretta connessione con la straordinaria potenza del negativo quotidiano, che esercita la sua forza, la sua presenza sugli individui dalla nascita alla morte. Infine, come è possibile non pensare che le ideologie magiche relative alla gravidanza, al parto, all’allattamento, allo svezzamento, ai rischi cui è esposto il bambino nei primi anni di vita, non siano in stretto rapporto “con i dati relativi all’alto numero delle gravidanze e degli aborti spontanei, alla natimortalità, ai disturbi dell’allattamento, alla carenza di forme assistenziali per la gestante, la partoriente, la madre, il bambino” (19)?
Probabilmente, di fronte ad un fenomeno di così vasta portata, se si pensa che in taluni paesi dell’Alta Irpinia, questi cerimoniali della bassa magia venivano quasi, quotidianamente, praticati, si dovrebbe andare al di là di certi giudizi di tipo illuministico e positivistico (ignoranza, analfabetismo, ecc.) per cercare di capire le ragioni psicologiche fondamentali che hanno determinato la nascita e quindi lo sviluppo e l’uso di tali pratiche.
Infatti, questo elemento psicologico, di cui abbiamo parlato e sul quale già si era soffermato ampiamente il De Martino, mette in luce l’esistenza “ di un negativo più grave di qualsiasi mancanza di un bene
18) E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 66.
19) E. De Martino, Sud e magia, ivi.
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particolare: mette in luce il rischio che la stessa presenza individuale si smarrisca come centro di decisione e di scelta, e naufraghi in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi comportamento culturale” (20).
La magia in Irpinia, come tutta la magia meridionale, è un insieme di tecniche, fortemente socializzate e socializzanti, rivolte, soprattutto, a proteggere quanti la praticano dalla possibile caduta nel “negativo”, nel “male” religiosamente e moralmente inteso.
In tal senso l’uso della bassa magia esercitava ed esercita, laddove essa ancora sopravvive, una forte funzione protettiva che non sempre trova riscontri oggettivi pertinenti nell’analisi del vissuto quotidiano delle nostre zone interne.
20) E. De Martino, Sud e magia, op. cit., pag. 66.
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CONCLUSIONE
La ricerca fin qui effettuata, necessita di un rapido consuntivo, sia per constatare la metodologia intenti-risultati, sia per assicurare la continuità e lo sviluppo dei problemi e delle prospettive.
L’eredità emersa, ancora in fase di trasformazione, non ha dati acquisiti e duraturi ma offre al temporaneo rilievi e risposte che non possono essere ignorati.
Il disinteresse e la poca accortezza procurano poche illusioni per un destino già segnato.
L’impossibilità di far resuscitare una civiltà (che è un processo continuo e non uno stato di cose) non distoglie, tuttavia, dal conservare testimonianze, ancora vive, prima che vengano dimenticate o diventino reperti, soggetti alle varie interpretazioni.
La famiglia contadina, violentemente esposta ai nuovi processi, non è più portatrice della vecchia cultura, non esalta più i suoi valori, divenuti, oggi, poco funzionali, in una società pragmatica e antagonista nella produzione.
In poco tempo le immagini di qualche decennio si sono sbiadite, acquistando connotati non ancora definibili, per il persistere di aspetti diversi e contrastanti.
Le ripetute aggressioni della civiltà, un nuovo sistema di vita incontenibile per capacità ed organizzazione, e la poca consistenza di un logorato modello di difesa familiare e culturale, ormai prossimo al collasso, hanno favorito il processo di disgregazione e di trasformazione.
Il nuovo corso non registra accettazioni passive o facili integrazioni ma fa vivere situazioni di conflitto, perché il contadino conserva forme di sospetto e di incertezza.
Il sottosviluppo, l’assenza di livelli di elementi di dinamicità, la mancanza di articolazione professionale, la diffidenza per le innovazioni, la mancata modernizzazione concorrono a mantenere uno stato di bisogni, di inquietudine e di sottomissione.
Il tardivo sviluppo implica processi economici non facilmente ribaltabili o convertibili, trovando “precisi
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riferimenti esplicativi nell’eredità storica delle sue strutture di classe” (1).
La lenta o la mancata elevazione sociale, altrove realizzabile e in tempi più brevi, l’energia e le capacità perdute con l’emarginazione, divenuta talora permanente, hanno mantenuto in poca considerazione le richieste avanzate, proprio per lo scarso peso rivendicativo.
Gli stessi rappresentanti del potere pubblico si sono poco curati di scrutare attentamente in queste strutture sociali, per scorgervi i consumi poveri e regressivi e per modificare la rigidità di tecniche socializzative. Si sono preoccupati unicamente di consolidare il potere, accentuando le dipendenze clientelari e sacrificando lo sviluppo collettivo.
Sono queste le classi che, strettamente collegate alle borghesie locali, determinano il sottosviluppo e lo sfruttamento (2).
La formazione sociale e la produzione economica sono, perciò il risultato di una particolare disgregazione, conseguenza propria di uno sviluppo capitalistico favorito e controllato da classi sociali esterne a tale area.
In quest’emarginazione coatta le sensazioni emozionali sono poche ed impediscono gli slanci e le proiezioni generose.
In questo compromesso avvilente la liberazione sembra lontana, soffocata dal conformismo e dall’interesse privato che non è soltanto la preoccupazione contingente della famiglia, ma dello stesso potere pubblico, che tende a privatizzare e a gestire in proprio gli interessi comunitari.
La crisi ideologica della famiglia, a cui si fa riferimento da più parti, è nella fattispecie irpina una crisi economica e sociale che va oltre la sua struttura gerarchica.
Il cambiamento diventerà possibile solo se la famiglia supererà i suoi fattori ascrittivi, limitati all’ottica della sopravvivenza e dell’arrangiamento; dovrà costruire, tramite una nuova politica di investimenti, di associazionismo e di solida programmazione culturale, un’ impresa economica capitalistica, tale da
1) P.P. Donati, Famiglia, stratificazione e classi sociali, in Nuove Questioni di Sociologia, Editrice la Scuola, Brescia, n. 3, 1976, pag. 177.
2) Cfr. C. Donolo, Sviluppo ineguale e disgregazione sociale nel Meridione. Note per l’anili delle classe nel Meridione, in “Quaderni Piacentini”, 1972 n.47, pp. 101-128; L. Libertini, Integrazione capitalistica e sottosviluppo. I nuovi termini della questione meridionale, Bari, Laterza, 1968; N. Zitara, II proletariato esterno, Milano, Jaca Book, 1972.
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incidere nella crescita propria e della comunità, pur sapendo che la funzione produttiva sarà sempre diretta dal mercato e dal capitale. I mutamenti auspicabili permetteranno di superare l’odierna contraddizione antagonista, che isola ed espelle chi non è portatore dei nuovi modelli.
Il restare nei campi non dovrà significare né una maledizione né una costrizione ma l’acquisizione di un nuovo ruolo sociale e produttivo della famiglia.
Essa resta, ancora, una sovrastruttura, una forma ideale di sicurezza e di assistenza reciproca dei suoi membri, con capacità non ancora utilizzate di solidarietà collettiva.
La famiglia rurale, il gruppo sociale più provato e che ha pagato al progresso un prezzo molto caro, risulta il punto di riferimento più importante per l’identificazione e per la ricomposizione della vita quotidiana, della socializzazione dei figli, dell’istruzione e della stabilizzazione psicologica della persona adulta. Una funzione culturale caratterizza il suo nuovo ruolo, anche se la cultura, in senso ampio, resta prerogativa della struttura pubblica.
Certo è che il suo patrimonio di civiltà, abbastanza ridimensionato nei valori tradizionali e nelle funzioni educative, è oggi legato alle esigenze della realtà.
La cultura dei poveri, non più tale, viene assorbita e riproposta sotto forma di folklore; gli stessi rappresentanti della civiltà rurale, non più disponibili a difendere gli archetipi culturali, sono diventati consumatori della loro stessa civiltà.
L’apostasia della vecchia cultura con tutti i deterrent negativi di sottosviluppo, di arretratezza e di miseria, diviene con un abile raggiro (una riconversione culturale) una nuova cultura.
La nuova esperienza, perciò, conserva intatti i significati di un passato, che se non ha molto da insegnare, neppure può essere fatto oggetto di rifiuto e di cancellazione. La cultura resta sempre l’immagine speculare di un popolo, un supporto che motiva le ansie, le aspirazioni e le richieste.
E impensabile a questo punto un ritorno nostalgico a certe forme comportamentali — anche se le vecchie generazioni spesso le rimpiangono — ma neppure sembra corretto e logico un rigetto totale ed immotivato di quanto sa di vecchio e di tradizionale.
L’affannosa corsa per bruciare le tappe, pur di raggiungere determinati fini, non ha avuto tempi materiali sufficienti per riflettere e conservare.
La passata ingenuità non è in assoluto sinonimo di plagio, di dabbenaggine e di ignoranza. Certe azioni hanno goduto di libertà espressive e comportamentali tanto da diventare momenti significativi della storia
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e della letteratura popolare.
Il recupero e la salvaguardia, non limitati al folklorico, devono stimolare una ricerca integrale della precedente civiltà, facendone oggetto di analisi sul territorio, mediante continue operazioni scolastiche, sociali e culturali.
La stessa famiglia potrà rientrare in possesso della sua civiltà, sia per non rinnegare la propria identità, sia per poter constatare i graduali momenti di crescita, di conflittualità e di affermazione sociale.
Questa riqualificazione familiare e culturale esige un sostegno e chiede riforme sociali e servizi collettivi “per l’edificazione di una società in cui a tutti siano date garanzie di un’esistenza non precaria, un dignitoso livello di vita per far fronte ai bisogni” (3).
La richiesta non passa in silenzio; è la rivendicazione d’oggi, per superare l’elemosina e l’asservimento di ieri.
Sotto le pietre accumulate dal sisma sono rimaste sepolte la miseria, la rassegnazione e l’umiliazione ma non la civiltà di un popolo e la sua fiera dignità che gridano, nei nuovi bisogni, il diritto umano della solidarietà e dell’uguaglianza.
Tanta presenza riafferma il diritto inalienabile della partecipazione, forza della comunità e dei suoi membri che, insieme, propongono, controllano, costruiscono e crescono.
La soluzione dei problemi non riconosce più deleghe né gestioni a mezzo servizio, ma vede gruppi di individui unirsi ed informarsi per allontanare gli impostori, gli intriganti e i possibili gestori di nuove miserie.
L’alba nuova ha dimensioni più credibili e meno lontane!
3) M. Wynn, in P.P. Donati, Famiglia stratificazione e classi sociali, op. cit., pag. 234.
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MA CHE FINE HA FATTO QUESTA ITALIA? CHIEDETELO A PASOLINI
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Le aziende inquinanti da Nord a Sud d’Italia
Da Marghera a Porto Torres sono migliaia le aree tossiche. Ma raramente le società responsabili pagano per la bonifica.
di Marco Mostallino
Oltre alla Sardegna, Syndial è presente anche in Veneto.
Un’impresa sana economicamente, che però inquina in maniera pesante e intossica i lavoratori e i residenti attorno all’impianto, può essere commissariata dal governo.
Il caso dell’Ilva di Taranto, affidata a un manager pubblico – Enrico Bondi – per «default ambientale» ora spaventa tutti quegli industriali che in Italia hanno costruito imperi e ricchezze lasciando una lunga scia di vittime collaterali: mari, fiumi e terreni inquinati, ma soprattutto migliaia di persone avvelenate da fumi, scarichi e detriti.
LA MAPPA DEI VELENI MADE IN ITALY. Tanto è che in Italia, da Nord a Sud non v’è regione che non abbia abbondanza di immondezzai tossici e nocivi per le persone: tra questi, in Valle d’Aosta c’è la cava di amianto di Emarese, cinque sono i siti in Piemonte, tra cui la Eternit di Casale, in Lombardia la Caffaro di Brescia e l’area siderurgica di Sesto San Giovanni, in Emilia gli scarti delle ceramiche di Sassuolo, poi in Liguria discariche di arsenico cadmio e piombo persino in mare, le acciaierie in Toscana e Umbria, in provincia di Frosinone sono a rischio 85 comuni su 91 (farmaceutica e altre industrie), mentre la Campania ha discariche tossiche sparse nel territorio di decine di paesi anche sul litorale e ai piedi del Vesuvio e si ritrova con un pesante inquinamento nel bacino del fiume Sarno.
Ma il record, secondo un rapporto di Greenpeace del 2010, è della Sardegna che con 445 mila ettari è la regione con più territorio inquinato, 100 mila ettari in più della Campania.
IL FLOP DEL «CHI INQUINA PAGA». Da Marghera alla Sicilia, passando per l’oltraggiata Sardegna, secondo un rapporto del ministero della Salute (diffuso ad aprile) sono migliaia in Italia le aree contaminate e, si legge nel dossier, «57 di esse sono definite di ‘interesse nazionale per le bonifiche’ (Sin) sulla base dell’entità della contaminazione ambientale, del rischio sanitario e dell’allarme sociale» per un totale di 6 milioni di persone a rischio «tumori e asma» e altre malattie a causa delle scorie industriali mai eliminate.
Negli Anni 80 l’Unione europea impose agli Stati di applicare il principio detto «chi inquina paga»: ovvero, le industrie responsabili di danni alle persone e all’ambiente devono farsi carico delle spese, dei risarcimenti e del ripristino dei siti sfruttati, ma spesso i terreni vengono abbandonati a se stessi, zeppi di veleni di ogni tipo.
IL CASO MARGHERA. In Italia, insomma, la strada del «chi inquina paga» è diventata un vicolo cieco e il caso di Marghera lo dimostra meglio di ogni altro: dopo aver contaminato il suolo e le acque venete, l’ex colosso statale Enichem, invece di pagare il disastro, nel 2003 ha cambiato nome e mssion. Ora si chiama Syndial (gruppo Eni,di cui lo stato detiene il 30,10% del capitale azionario) e si occupa di bonifiche, spesso portandosi a casa ricchi appalti statali e degli enti pubblici.
La società poi si occupa anche di rivendere i terreni bonificati, d’accordo con comune, regione e consorzi. Così il «chi inquina paga» a Marghera è diventato «chi inquina guadagna». È il caso dell’accordo di programma dell’aprile 2012, con cui il comune di Venezia e la regione Veneto intendono comprarele aree ex Enichem al fine di utilizzi a uso pubblico e di riqualificazione ambientale.
In Sicilia e Sardegna allarme alto
Intanto i disastri ambientali non si fermano. L’ultimo caso è quello di Gela in Sicilia, dove in seguito a un guasto dai tubi della raffineria Eni almeno una tonnellata di petrolio è finita prima nel vicino fiume, quindi in mare.
Legambiente, in una nota, sembra voler accennare a soluzioni simili a quella di Taranto, che però qui sarebbero inapplicabili: lo Stato dovrebbe commissariare un’azienda che è in parte sua, l’Eni appunto.
Un paradosso impossibile, ma nel comunicato dell’associazione si legge comunque che «mentre le operazioni di contenimento pare si stiano concludendo (ma bisognerà subito avviare quelle di bonifica), Legambiente desidera richiamare ministero dell’Ambiente, Regione, Arpa, Asp, Comune, Provincia ed Eni alle proprie responsabilità».
IL PETROLCHIMICO DI PRIOLO. E non è l’unica area a rischio in Trinacria. Inquinamento e malattie sono molto diffusi anche nell’area siracusana del petrolchimico di Priolo e Augusta, dove in base ad alcune ricerche locali i morti di tumore sono il 10% in più rispetto al resto della Sicilia, e superano il 20% quelli per tumore al polmone. Come se non bastasse, nell’area dal 1990 è scattato anche l’allarme malformazioni genetiche.
In particolare a Priolo nel 2000 il 5% dei bambini è nato con malformazioni cinque volte in più della media nazionale. Diffusissima l’ipospadia, una malattia congenita dell’apparato genitale, che ad Augusta colpisce il 132 per mille dei nati. Numeri che a oggi non hanno ancora trovato una causa specifica per la legge. Manca il nesso causale, ovvero la dimostrazione che i tumori e le malformazioni genetiche derivino dall’inquinamento delle industrie.
L’INQUINAMENTO DELLA SARAS. Se cambiamo isola e ci spostiamo in Sardegna la musica non cambia molto. Nella notte di lunedì 3 giugno un allarme è scattato a Sarroch, paesino costiero della provincia di Cagliari addossato alla raffineria Saras, la società della famiglia Moratti, che però non è inserita nella lista dei 57 siti del ministero.
Le sirene hanno cominciato a suonare e i residenti si sono preparati a lasciare le case per andare nei punti di raccolta di Sarroch, ma l’allerta è cessata poco dopo.
Si era trattato del guasto a un impianto, in seguito al quale le fiaccole (ciminiere alte decine di metri che bruciano i gas residui) hanno emesso fiamme più alte del solito, ben visibili anche da Cagliari, che pure dista quasi 30 chilometri dalla raffineria.
Non sono rare nemmeno le perdite di petrolio in mare, identiche a quella avvenuta a Gela, mentre un rapporto stilato dalla Regione Sardegna nel 2006 ha denunciato che «i rischi di morte per cancro polmonare negli uomini mostrano allontanamenti dai valori attesi nelle aree di Portoscuso e Sarroch, entrambe con eccessi del 24%».
IL PIOMBO DI PORTOVESME. Sempre in Sardegna e non lontano da Sarroch c’è la grande area industriale di Portovesme, dedicata soprattutto all’industria metallurgica e inserita nella lista del ministero.
Qui tumori, leucemie e altre malattie hanno tassi elevatissimi, mentre nei dintorni delle fabbriche vi sono le grandi pozze di ‘fanghi rossi’, acque purpuree a causa dell’enorme concentrazione di metalli negli scarichi.
Negli anni scorsi nei bambini di Portoscuso (paese attaccato alle fabbriche di Portovesme) sono stati riscontrati livelli elevatissimi di piombo nel sangue, mentre anche numerose coltivazioni per il vino Carignano (vitigno pregiato, importato nell’isola dai fenici) sono state abbandonate perché cariche di piombo e nel territorio di Portoscuso è tuttora vietato vinificare.
LA CRISI INDUSTRIALE NON AIUTA. Ma qui c’è poco da commissariare, perché lo sfacelo ormai è anche industriale. Eurallumina è stata chiusa e i proprietari russi si sono dissolti, mentre gli americani hanno abbandonato Alcoa e tutti i suoi operai. Resta in funzione la Portovesme Srl, spesso al centro di polemiche per i presunti casi di inquinamento.
Qui, nell’area industriale del Sulcis, lo studio del 2006 della Regione Sardegna ha parlato di «mortalità per malattie respiratorie significativamente in eccesso negli uomini a Portoscuso, dove (nel periodo esaminato, ndr) sono stati osservati 205 casi rispetto ai 125 attesi».
La montagna tossica di Porto Torres scoperta nel 2003
L’entrata di Syndial nella zona industriale di Porto Torres, nel Nord della Sardegna.
Sempre in Sardegna se dal sud si risale verso nord si raggiunge Porto Torres. Anche qui la Enichem fino al 2000 operava con le sue industrie chimiche.
Proprio nel recinto dell’azienda, nel 2003 il leader indipendentista Gavino Sale sollevò il velo sul segreto di Pulcinella, conducendo una pattuglia di giornalisti e parlamentari a visitare una montagna di rifiuti tossici provenienti da tutta Italia, alta 30 metri e diffusa su oltre una ventina di ettari. Sotto quell’immondezza chimica un tempo si trovava uno stagno, completamente sparito sotto le gettate di rifiuti, proprio di fronte al parco naturale dell’isola dell’Asinara.
Anche in questo caso il conto de danni è lì da pagare, ma non c’è nessuno a cui consegnarlo. Ma a Porto Torres, in base a dati forniti dalla Regione Sardegna, l’eccesso di mortalità riguarda le malattie respiratorie, i tumori dell’apparato digerente e del sistema linfatico.
IL DISASTRO DELLA CAMPANIA. Insieme con la Sardegna, la Campania è la regione con l’estensione più vasta di territorio contaminato, in questo caso più da discariche tossiche e abusive e dalle scorie dell’industria metallurgica, mentre nell’Isola i danni peggiori li ha fatti la chimica.
Entrambe le regioni sono, dagli Anni 70 a oggi, diventate preda dello smaltimento abusivo dei rifiuti tossici anche di molte aziende del Nord Italia, come dimostrano le sigle sui sacchi nascosti nella terra e scovati negli anni dagli investigatori e dalle Asl.
In Campania il rischio è più alto a causa della fortissima densità di popolazione: tra le aree contaminate della lista ministeriale vi è l’intero litorale vesuviano, oltre 8 mila ettari e numerosi comuni anche grandi, come Pompei, Torre del Greco, Ercolano e Castellamare di Stabia.
NON C’È PACE PER BAGNOLI. Un altro territorio contaminato è Bagnoli, a causa delle acciaierie Ilva e di altre aziende, ormai dismesse, ma minacciose per gli scarichi, ancora presenti, di arsenico, piombo, amianto, idrocarburi e scorie di fusione.
Qui un tentativo di recupero era stato compiuto, con la realizzazione del parco tecnologico chiamato Città della scienza, ma il complesso è stato devastato a marzo da un incendio doloso appiccato dalla Camorra.
BOOM DI TUMORI IN LOMBARDIA. E chi pensa che a Nord si respiri un’aria diversa è decisamente fuori strada. Un esempio? A Brescia uno studio dell’epidemiologo Paolo Ricci e dell’Istituto superiore di sanità ha di recente sollevato il velo sui 252 ettari di terreno contaminati da un potente cancerogeno, il Pcb, prodotto per decenni dalla Caffaro, un’azienda ormai chiusa, ma ancora pericolosa.
Secondo la ricerca sono almeno 25 mila i residenti a rischio a causa di acqua e terra inquinate: e secondo i dati diffusi, l’incidenza del tumore della tiroide nella città della Leonessa è più del 49% superiore rispetto al resto del settentrione, mentre i tumori al fegato, al seno e i linfomi oscillano su quote tra il 20 e il 58% oltre la media del Nord Italia.
Anche qui nessuna bonifica è avvenuta e nessuno tra gli imprenditori ha pagato e si prevede paghi.
Sempre in Lombardia, regione che conta ben sette siti nella lista nera del ministero, è pesante la situazione di Sesto San Giovanni e Cologno Monzese, dove le acciaierie Falck e le loro discariche hanno contaminato, secondo il dicastero, 255 ettari e dove il costo stimato – per ora – della bonifica è di 25 milioni di euro. Chi paga? Non si sa.
Sabato, 08 Giugno 2013
http://www.lettera43.it/economia/aziende/le-aziende-inquinanti-da-nord-a-sud-d-italia_4367597858.htm
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L’oro nero che in Italia rende poveri (vedi video)
Viaggio in Basilicata. la regione ricca di petrolio dove chi denuncia l’inquinamento finisce in galera – di Antonio Crispino
La Basilicata è la regione più povera d’Italia: dati Istat 2010. La Basilicata ha una percentuale di morti per tumore più alta della media nazionale: dati dell’Associazione Italiana Registro Tumori.
In Basilicata le aziende agricole si sono dimezzate nell’arco di 10 anni: dati Confederazione Italiana Agricoltori. La Basilicata ha un tasso di disoccupazione costantemente in crescita: dati Cgil
«Nella sola Val d’Agri (dove è più intensa l’attività dei petrolieri) ci sono 8 mila persone tra disoccupati e inoccupati». La Basilicata ha oltre 400 siti contaminati dalle attività estrattive: dati della Commissione Bicamerale sul Ciclo dei rifiuti. La Basilicata è ricca di petrolio: dati Eni.
CHI DENUNCIA VA IN GALERA– In Basilicata si sta tentando di salvare l’ambiente da un presunto inquinamento provocato dai pozzi petroliferi. Per questo si va in galera. Ne sa qualcosa Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia Provinciale di Potenza che per aver segnalato una massiccia presenza di idrocarburi nelle acque del lago del Pertusillo, a due passi dal Centro Oli Eni a Viggiano, è stato sospeso dal servizio, dalla paga e dai pubblici uffici per due mesi, sottoposto a un processo e spostato a guardare le statue in un museo.
Non è andata meglio al giornalista e coordinatore dei Radicali lucani Maurizio Bolognetti che ha pubblicato la notizia dell’inquinamento. I carabinieri gli hanno perquisito casa da cima a fondo. Pochi mesi dopo, in quel lago sono morti centinaia di pesci.
IL TIRA E MOLLA – Di pozzi nella sola Val d’Agri ce ne sono 39, alcuni a pochi metri da una scuola materna o addirittura uno che sovrasta un municipio. Ma quello a cui si assiste è un imbarazzante tira e molla tra chi dice che è tutto a posto e chi invece sventola dati da far rabbrividire. «Abbiamo trovato 6458 mg/l di idrocarburi in quel lago che porta acqua potabile nei rubinetti di Puglia e Basilicata – denuncia Albina Colella, geologa e sedimentologa dell’Università degli Studi della Basilicata -. Su undici campioni di sedimenti, ben sette avevano presenza di idrocarburi superiori al limite di riferimento».
Il responsabile del distretto Meridionale dell’Eni, Ruggero Gheller, smentisce qualsiasi collegamento con le attività estrattive: «I nostri impianti sono chiusi, non c’è alcun rilascio di sostanze all’esterno ma soprattutto ogni pozzo è stato costruito dopo autorizzazioni della Regione e sottoposto a rigidissimi controlli da parte dell’Arpab». Tutto vero. Le strumentazioni non hanno mai rilevato niente di importante. Ma come si è svolto il sistema di controlli in questi anni, ce lo spiega bene il nuovo presidente dell’Arpab, Raffaele Vita, in un fuorionda. A lui hanno affidato la patata bollente dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente dopo un’escalation di arresti. «Qui era come al catasto. Sono entrate persone che facevano tutto un altro mestiere e all’improvviso si sono trovati ad affrontare il tema del petrolio. Li ho trovati a scaricare i film dai computer, ho dovuto mettere le protezioni. Eravamo una massa di improvvisati. E la politica faceva tutt’altro che mettere la barra dritta».
25 ANNI DI ESTRAZIONI – Non è un caso che un certa rete di monitoraggio sia stata attivata solo dal 2011 (per stessa ammissione dell’Eni) mentre il petrolio in Basilicata si estrae da circa 25 anni (risalgono al 1981 le prime ricerche di petrolio in Val d’Agri con il pozzo Costa Molina 1). Anni in cui sono passati sotto silenzio tutta una serie di incidenti e anomalie. Che per l’Eni, però, non si chiamano incidenti ma eventi, cose che possono capitare. «Come la fuoriuscita di migliaia di litri di greggio in un bacino naturale per la raccolta di acque piovane il 17 marzo 2002; la nebulizzazzione di 500 litri di greggio il 06 giugno del 2002; l’immissione in aria di ingenti quantitativi di gas inquinanti il 4 ottobre del 2002» ricorda Bolognetti. Oppure la «misteriosa» intossicazione da idrogeno solforato di 20 operai di un’azienda che si trova proprio di fronte il Centro Oli, per i quali fu necessario contattare il centro anti veleni di Pavia.
«Dovete chiedere a chi in questi anni ha gestito il petrolio in Basilicata come hanno fatto a dare certe autorizzazioni» inveisce il sindaco di Marsicovetere Sergio Claudio Cantiani. E’ un medico. Il suo municipio anziché essere sovrastato dal classico campanile, si trova all’ombra di un pozzo di petrolio. «Noi siamo contenti, tutto va bene e andrà ancora meglio quando l’Eni ci pagherà le royalties che ci consentiranno di far fronte ai mancati trasferimenti da parte dello Stato. Per il resto siamo solo vittime delle gestioni precedenti». Andando a vedere chi ha gestito la Basilicata in questi anni, si trovano persone come Filippo Bubbico, presidente della Basilicata dal 2000 al 2005. Nominato tra i dieci saggi del presidente della Repubblica e di recente premiato viceministro del governo Letta, è stato indagato per abuso di ufficio, associazione a delinquere e truffa aggravata e ne è sempre uscito incensurato. Oppure Vincenzo Santochirico, l’assessore all’Ambiente che parlò di «maldestro tentativo di allarmare la popolazione della Basilicata sostenendo che l’acqua destinata ad uso potabile fosse inquinata», promosso prima presidente del Consiglio regionale e poi a grande elettore del Capo dello Stato.
LA STORIA DEL PETROLIO – Ma per capire come è andata la storia del petrolio in Basilicata, basta spulciare la cronaca giudiziaria recente. In quasi dieci anni sono finiti in manette il direttore generale dell’Arpab, il coordinatore provinciale dell’Ente regionale Ambiente, il vicepresidente, tre assessori e un consigliere regionale. Altri otto consiglieri sono stati destinatari di divieto di dimora, mentre sotto inchiesta sono finiti due deputati lucani. E non c’è solo la politica. Nel 2002 sono stati arrestati un maggiore della Guardia di Finanza, un generale dei servizi segreti (Sisde), imprenditori, banchieri, finanzieri. Tutti al centro di inchieste con un unico comune denominatore: il petrolio.
LA DIGA E L’INQUINAMENTO – Al di là di quello che è il balletto dei numeri, siamo andati sulla linea di sbarramento della diga del Pertusillo. A dieci metri di distanza c’è l’impianto che porta queste acque a Bari, Brindisi, Lecce e in parte della Basilicata. Le stesse acque vengono utilizzate in agricoltura. In superficie galleggia un fitto manto marrone, schiumoso e maleodorante. «Non è terreno – ribadisce il tenente Di Bello – Sotto ci saranno almeno altri 60 mt di acqua». Lancia un sasso. Fa fatica ad affondare. Si muove come in una melma, come se fosse petrolio. C’è di tutto, dalle bottiglie di detersivo agli pneumatici. «L’amalgama di tutto sono gli idrocarburi leggeri e i densattivi provenienti dai depuratori che non funzionano». Idrocarburi sono stati trovati anche nel miele delle api. Nessuno osa dire da dove provengano. «Qui nessuno dice che c’è inquinamento. Se vai alla regione ti dicono che è tutto a posto» commenta sconfortata Giovanna Perruolo della Confederazione italiana agricoltori.
Sta di fatto che sui mercati agricoli nazionali i prodotti che vengono da questa parte della Basilicata non li vogliono. «I fagioli di Sarconi erano il nostro vanto, venivano richiesti anche all’estero. Oggi gli agricoltori sono costretti a dire che vengono dalla Cina. Nessuno li vuole perché sospettano la contaminazione». L’elenco delle conseguenze dell’inquinamento è lungo. Parla di animali che non fanno più il latte nelle vicinanze degli impianti petroliferi, vigneti secchi, uva che cresce con una patina d’olio sui chicchi, terreni diventati infruttiferi, pesci che muoiono in massa, pere dal marchio Dop che non coltiva più nessuno. «Ormai ci arrivano solo richieste di pensioni per masse tumorali, l’incidenza delle malattie è altissima». L’Eni paga il 10% di royalties. Il 7% va a Regione ed Enti locali. Il 3% serve a finanziare un bonus benzina di 180 euro l’anno destinata a ogni automobilista della Basilicata. «Peccato che qui il petrolio paradossalmente costa di più che in altre parti d’Italia» rivela Costantino Solimando. Di professione fa la guardia zoofila e appena può va fuori regione a fare benzina. «Il gasolio lo pago 1,60, qui in Val D’Agri è a 1,80. Mi dica lei se non è una presa in giro anche questa».
Antonio Crispino 9 giugno 2013
MAASTRICHT EREDE DI AUSCHWITZ
Postato il Giovedì, 24 ottobre @ 22:03:02 CEST di davide
La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke, ha sortito l’effetto di attribuire anche ad un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire. Non era però questo l’obiettivo principale dell’operazione, dato che l’isterismo così generato ha fornito il pretesto per reintrodurre in grande stile nella legislazione la criminalizzazione delle opinioni; ciò attraverso il reato di “negazionismo” nei confronti del cosiddetto “Olocausto”. In molti hanno notato che, rispetto allo scopo dichiarato, la legge contro il “negazionismo” appare del tutto incongruente; anzi, essa finisce per attribuire all’opinione che si dice di voler combattere una patente di anticonformismo culturale e persino di eroismo.
Sono quindi altre le opinioni che si vogliono effettivamente colpire, perciò si vedranno ben presto una legislazione ed una giurisprudenza ad hoc, che magari dilateranno la categoria di “negazionismo” a ben altri scetticismi, come quello di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 settembre, o nega l’esistenza di Bin Laden. Lo scopo non è esclusivamente repressivo, ma soprattutto di discredito nei confronti di opinioni che vedrebbero con imbarazzo il trovarsi accomunate a “quel” negazionismo.
L’aspetto paradossale di questa vicenda sta nel fatto che l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del premio Nobel per la Pace. Molti storici hanno notato che l’aspetto pionieristico e sperimentale del nazismo è consistito nell’aver applicato all’Europa metodi che erano stati tipici del colonialismo in Africa, in America ed in Australia. Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio sulle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero possibili solo in società tribali, etniche e frammentate, e fossero invece impraticabili in un’Europa in cui le società erano ben strutturate ed esistevano nazioni dotate di lingue e storie comuni.
A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare ed usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali, era stato nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale, e ciò in riconoscimento di quanto gli Ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la guerra mondiale in corso contro la Germania. La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli Ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli Ebrei. Ma nel “Mein Kampf” l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia perfida e ostile, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque ed in ogni situazione.
Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che, sino ad allora, si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa. La redenzione dell’Europa dell’Est dal cancro dello statalismo economico dopo la caduta del Muro di Berlino, ha finito così per coinvolgere anche l’Europa occidentale, che si è dovuta piegare alle stesse forche caudine delle privatizzazioni e della liquidazione del welfare, come se anch’essa fosse parte sconfitta nel dopo-Guerra Fredda. Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di redenzione. La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il FMI uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, ed i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la seconda guerra mondiale.
Nel secondo dopoguerra l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani -, per quanto conosciuto e documentato, è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca IG Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La IG Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank.
>La IG Farben di Auschwitz rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale. Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle relocation aziendali, costituisce una macabra ironia della Storia.
Data la logica aziendale che presiedeva ad Auschwitz, risulta persino irrealistico ritenere che un genocidio non vi sia stato, visto che questo era pienamente conseguente alle premesse. Se, grazie alle deportazioni di massa, la materia prima umana veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere, ne derivava, per mere ragioni di budget, la sottoalimentazione dei lavoratori e la eliminazione sistematica degli inabili al lavoro.
Si è detto spesso, retoricamente, che Auschwitz ha rappresentato il “Male Assoluto”, “il Male allo stato puro”, e l’uso di un termine magniloquente ed esoterico come “Olocausto” contribuisce a perpetuare questa metafisica. In realtà non esiste il “Male Assoluto”, ma esiste il male, che consiste nell’asimmetria delle relazioni umane. Se nella relazione economica il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili. Al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi. Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali.
Il nazismo viene di solito fatto passare per un nazionalismo estremo; al contrario, il nazismo anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato. Tutto deve essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale. Chiaramente il contesto tecnologico attuale è molto diverso, quindi i parallelismi con il passato non devono prendere la mano. Rimane comunque il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa.
La nuova frontiera del business è il microcredito, di cui una delle forme suscettibili di maggiore sviluppo è il “migrant banking”. Grazie ai cellulari l’inclusione finanziaria può coinvolgere agevolmente persone senza fissa dimora. L’enorme attenzione dedicata al business del migrant banking è testimoniata da un progetto cofinanziato dall’Unione Europea ed dal Ministero degli Interni italiano, ed attuato in collaborazione con una delle più grandi aziende di servizi finanziari del mondo, la Deloitte, una società di origine svizzera che però oggi ha le sue principali sedi operative a New York e Londra. Ancora una volta le istituzioni pubbliche si piegano agli interessi del lobbying privato per costruire una nuova Auschwitz, stavolta diffusa sul territorio.
Fonte: http://www.comidad.org
Link: http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=577
2410.2013
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Che Tempo che Fa, 13 ottobre 2013: Renzo Piano
20.33 Preferisce essere chiamato architetto, si sente più preparato. Ma racconta della grande emozione provata entrando in Senato: “Un orgoglio civile, non un orgoglio personale”.
20.34 Quale il rapporto tra arte e politica? “La politica è un’arte. Io penso sempre al giuramento della Polis, in cui i politici giuravano di consegnare al termine del mandato un’Atene migliore di quella che avevano ricevuto”. Come oggi proprio, eh.
20.36 “L’Italia è per forza una culla delle cultura, perché ha la testa in Europa e i piedi in Africa”.
20.37 Si parla dunque del progetto delle città del futuro: per lui sono le periferie. “Spesso non sono fotogeniche, ma sono ricche di umanità. Il destino delle città è nelle periferie. La nostra generazione ha fatto un po’ di disastri su quello che ci hanno lasciato i nostri avi, ma i giovani devono guardare alle periferie”.
20.39 Il suo concetto non è ‘ampliare’ le periferie, ma completarle, raffinarle, ma non estenderle, anche perché bisogna tutelare la fragilità del nostro territorio. “Il nostro Paese ha bisogno di un’opera ciclopica di ‘rammendo’, sul fronte idrogeologico, sismico. E come una casa bella ma mai manutenuta”.
20.41 La sua bellezza, la sua idea di bellezza è nell’urbanità, nel costruire luoghi di incontro.
20.42 Perché da noi non si punta sulle energie alternative? E’ uno dei grandi misteri. “Se mettiamo insieme la bellezza paesaggistica, quella costruita e la bellezza del suo popolo, l’Italia è imbattibile”.
20.43 “La bellezza è come il silenzio, come lo evochi sparisce. Ma quella dell’Italia non è fatta di cipria, di superficie, ma profonda, di cultura. Che non è affatto inutile. Ed è quello che deve dare la forza ai giovani”. Un discorso molto ‘politico’ nota Fazio.
20.44 La differenza tra buon lavoro e un bel lavoro? “Il buon lavoro è bello anche dentro…”.
20.46 Fazio ricorda che la prima barca che ha costruito era sbagliata. “Non l’avevo disegnata io, ma la costruì. E non passava per la porta del garage”. Aveva 18 anni, eh.
20.47 “Si parla tanto di local, ma quando lavori sulle radici, che ti porti sempre con te, diventa il tuo universale”.
20.48 Perché non ha votato la fiducia? “Perché ero a New York. Ma ho intenzione di onorare le istituzioni. Io ho un ufficio a Roma, ed è la prima volta che ho un ufficio e ci andrò. E questo è proprio il mio progetto più ambizioso. Ma quello che ha colpito me e le matricole è che è un impegno a vita: non è una corsa, è una maratona”.
20.49 “Qualche gentile critico ha parlato di me e di noi senatori a vita come una ‘pedina’ nelle mani di qualcuno: ma figuratevi se io o Carlo Rubbia possiamo diventare pedine di qualcuno! Nessuno di noi si farà mai usare”.
20.51 Darà il suo emolumento da senatore per girarli a giovani progettisti per il consolidamento di istituti pubblici, scuole in primis.
20.51 “I mestieri di grande responsabilità penso debbano essere retribuiti. Questo depauperamento della politica mi preoccupa, temo livelli alla mediocrità”: così Fazio, che mi sa lancia già frecciate al prossimo ospite…
20.53 “E’ importante che i giovani non si abituino alla mediocrità” dice Piano che non fa che parlare di giovani, giovani, nuovi mestieri per i giovani, ai quali lui sta e vuole lavorare. “Mi domando se questo sia possibile in un Paese che si sta ripeigando su se stesso, che si autocommisera, fino all’autodistruzione”. E il consiglio è sempre lo stesso: viaggiare, per conoscere e capire gli altri. E capire che la diversità è un valore, non un problema”. E per capire anche quanto sia bella l’Italia, alla quale siamo fin troppo abituati.
21.00 Brunetta: “Posso dire una cosa? Bellissima intervista politica a Renzo Piano”; Fazio: “Beh sì, politica ALTA”. Si inizia alla grandissima.
20.55 “Pubblicità, sennò ci danno la multa”: altra frecciata?
Bando per 179 orti a Milano
Fonte: Terra Nuova
C’è tempo fino al 4 novembre per avanzare domanda per ottenere uno dei 179 orti che il Comune di Milano assegna in concessione.
C’è tempo fino al 4 novembre per avanzare domanda per ottenere uno dei 179 orti che il Comune di Milano assegna in concessione.
Quanti amano la soddisfazione di sedersi a tavola e mangiare ciò che hanno coltivato con le loro mani? Sono sempre più persone a cercare di realizzarlo, anche perché, economicamete parlando, conviene. Anche a Milano esistono gli orti urbani e ora il Comune ne mette a disposizione altri 179 in zona Parco delle Cave.
Per rientrare nella gara di assegnazione occorre presentare una domanda, che dovrà essere recapitata a mano all’Ufficio Protocollo del Settore Zona 7 (piazza Stovani 3, 1° piano – tra le 9 e le 12) oppure inviata a mezzo posta raccomandata entro e non oltre le ore 12 del 4 novembre.
Il termine è tassativo e, ai fini della validità della presentazione e come spesso accade farà fede la data della consegna/arrivo della stessa presso il protocollo.
Tutte le informazioni necessarie sono disponibili alla pagina del bando integrale.
Il bando potrà anche essere ritirato insieme alla domanda presso l’Ufficio Protocollo del Settore Zona 7 negli stessi orari (dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 12).
Per informazioni si può contattare l’Ufficio Monitoraggio tecnico al numero 02/88458714.
LA “STORIA” RACCONTATA DA PRESA DIRETTA
IL MIO SALTO SULLA POLTRONA
di Filippo Giannini
Presa diretta è un programma, diciamo politico, trasmesso settimanalmente da Rai/3 (una volta indacata come Radio Kabul). Ebbene il giorno 2 settembre 2013, il conduttore Riccardo Lacona, scrupolosamente con un brillantino all’orecchio sinistro, certamente per essere consono alla way of life yankee, ad un certo punto della trasmissione intervistò un signore. Questi era seduto in uno stanzone, dietro a lui, sullo sfondo, si intravedeva un grande quadro raffigurante Karl Marx; rispondendo ad una domanda del conduttore disse che per uscire dalla crisi che ci attanaglia, dovremmo fare quel che fece negli anni ’30 Franklin D. Roosevelt. Data l’enormità della bestemmia non potei trattenermi dal fare un balzo dal divano dove ero seduto.
Provo a spiegarne il motivo.
Per prima cosa prego i lettori di leggere attentamente e di tenerlo ben presente anche oltre la fine della lettura, quanto ebbe a dire l’allora futuro Presidente Usa Woodrom Wilson. Questi tenne una lezione alla Columbia University e, sfacciatamente, così caricò la mentalità predatoria degli studenti americani: <Dal momento che il commercio ignora i confini nazionali e il produttore preme per avere il mondo come mercato, la bandiera della sua nazione deve seguirlo, e le porte delle nazioni chiuse devono essere abbattute… Le concessioni ottenute dai finanzieri devono essere salvaguardate dai ministri dello stato, anche se in questo venisse violata la sovranità delle nazioni recalcitranti… Vanno conquistate e impiantate colonie, affinché al mondo non resti un solo angolo trascurato o inutilizzato>.
Sarebbero sufficienti queste parole per comprendere “come siamo ridotti oggi!”. Ma non basta, tanto è sufficiente per esclamare: e pensare che in Europa ci sono ancora tanti idioti che festeggiano la data della “liberazione” del 1945!
Ma la lezione di Woodrom Wilson è solo un passaggio; vediamo le sue radici.
Quello che poi sarà il primo Presidente degli Stati Uniti, George Washington profetizzò quella che sarà la guerra contro l’Europa (cito a memoria): <Quelli che sono i mali dell’Europa, dovranno diventare i nostri beni>. Pochi decenni dopo subentrò colui che sarà il quinto Presidente Usa, James Monroe con la sua famosa Dottrina, detta, impropriamente: Dottrina Monroe (2 dicembre 1823): essa sanciva che il continente americano (tutto, incluso quello meridionale!) non era un territorio destinato alla colonizzazione europea e che ogni tentativo delle potenze europee di estendere la loro influenza sul continente americano sarebbe stato considerato dagli Stati Uniti come una minaccia. In altre parole gli Stati Uniti ponevano la propria sovranità non solo sull’America del Nord (che sarebbe pure stato giusto e ovvio), ma su tutto il “continente americano”, quindi anche sull’America meridionale. Infatti non tardò molto che gli statunitensi si avvalsero di questo diritto (?).
E questo diritto sarà esercitato non solo sul continente americano tutto, ma su ogni angolo del mondo, grazie all’alleanza massonica della diabolica triade Francia-Gran Bretagna-Stati Uniti. Gli effettivi padroni del mondo, anche grazie alla scarsa capacità politica dimostrata nel XX Secolo. Le prime due cadranno da Potenze Mondiali, lasciando il posto alla terza, quella cioè, come ha scritto Bernhard Shaw: <Gli Stati Uniti sono l’unico Paese occidentale ad essere passati da uno stato di barbarie ad uno di decadenza senza essersi fermati in quello della civiltà>. Quindi siamo messi bene! Da Bernhard Shaw, anche il direttore della rivista Harper’s: <Nel 1945 gli Stati Uniti hanno ereditato la terra… Alla fine della seconda guerra mondiale, quello che era rimasto della civiltà occidentale passò sotto la responsabilità americana>. E siamo come stiamo!
Torniamo alla ci a zeta zeta a ta proferita dal capiscine di turno nella ricordata trasmissione Presa diretta e cioè che per uscire dalla crisi dovremo fare come Roosevelt negli anni ’30.
Anticipo che negli anni ’30 tutto il mondo – ad eccezione di Italia e Germania – affogavano nella crisi congiunturale iniziata nel 1929. Si facciano forza il capiscione e il signor Riccardo Lacona, ma quanto segue è la verità VERA. In merito sentiamo quanto hanno scritto su “L’Economia Italiana fra le due Guerre” Giorgio De Angelis, laureato in Scienze politiche all’Università di Roma: <L’onda d’urto provocata dal risanamento monetario non colse affatto di sorpresa la compagine governativa (per intenderci guidata da Benito Mussolini, nda)… L’opera di risanamento monetario, accompagnata da un primo riordino del sistema bancario, permise comunque al nostro Paese di affrontare in condizioni di sanità generale la grande depressione mondiale sul finire del 1929 (…)>. E, sempre nello stesso volume, il professor Gaetano Trupiano, a pag. 169, afferma: <Nel 1929, al momento della crisi mondiale, l’Italia presentava una situazione della finanza pubblica in gran parte risanata; erano stati sistemati i debiti di guerra, si era proceduto al consolidamento del debito fluttuante con una riduzione degli oneri per interessi e le assicurazioni sociali avevano registrato un sensibile sviluppo>.
Ed ora altre citazioni .
J.P. Diggins (L’America, Mussolini e il Fascismo) a pag. 45 ha scritto: <Negli anni Trenta lo Stato Corporativo sembrò una fucina di fumanti industrie. Mentre l’America annaspava, il progresso dell’Italia (…). In confronto all’inettitudine con cui il presidente Hoover affrontò la crisi economica, il dittatore italiano appariva un modello di attività>. E ancora: il giornale Noradni Novnij di Brno, il 15 dicembre 1933, scriveva: <(…). In Italia il piano Mussolini rende una popolazione felice e nuove città sorgono in mezzo a terre redente, coperte ovunque di biondi cereali>.
Caro Capiscione e caro signor Riccardo Lacuna, un invito accettatelo, se siete solo ignoranti vi suggerisco di andare a leggere la Storia (quella vera); se invece la vostra è solo malafede, beh! Continuate così. Però aggiungo: l’Italia sotto il male assoluto, pur essendo una piccola provincia in una grande Europa, tuttavia dettava leggi al mondo. Una prova? Una volta eletto Roosevelt, (e questo nel dopoguerra venne accuratamente nascosto) inviò nel 1934, in Italia Rexford Tugwell e Raymond Moley, due fra i suoi più preparati uomini del Brain Trust per studiare il miracolo italiano.
Lucio Villari ha scritto: <Tugwell e Moley, incaricati alla ricerca di un metodo di intervento pubblico e di diretto impegno dello Stato che, senza distruggere il carattere privato del capitalismo, ne colpisse la degenerazione e trasformasse il mercato capitalistico anarchico, asociale e incontrollato, in un sistema sottoposto alle leggi e ai principi di giustizia sociale e insieme di efficienza produttiva>. Roosevelt inviò Rexford Tugwell a Roma per incontrare Mussolini e studiare da vicino le realizzazioni del Fascismo. Ecco come Lucio Villari ricorda il fatto tratto dal diario inedito di Rexford Tugwell in data 22 ottobre 1934 (Anche l’Economia Italiana tra le due Guerre, ne riporta alcune parti; pag. 123): <Mi dicono che dovrò incontrarmi con il Duce questo pomeriggio… La sua forza e intelligenza sono evidenti come anche l’efficienza dell’amministrazione italiana, è il più pulito, il più lineare, il più efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto. Mi rende invidioso… Ma ho qualche domanda da fargli che potrebbe imbarazzarlo, o forse no>. Molti economisti americani, vedevano nel Corporativismo italiano il coordinamento economico statale necessario davanti alla bancarotta liberista del lassez-faire, quindi suggerirono a Roosevelt di introdurre anche negli Stati Uniti qualcosa di simile al corporativismo italiano, il New Deal. Così nel 1933 (attenzione alla data signor Capiscione) Roosevelt firmò il First New Deal e il Second New Deal venne firmato nel 1934-1936.
Lo stesso Bernhard Shaw affermò che <lo Stato corporativo fascista costituiva il grande avvenimento del secolo>. Fu un grande avvenimento, ma costituiva un ulteriore motivo di attrito con quei Paesi che adottavano il sistema liberista in economia e questo aggravato ancor più dal fatto che in quasi tutti i Paesi del mondo sorgevano partiti o movimenti tendenti a seguire l’esempio italiano.
Che l’Italia fosse sulla strada giusta è attestato proprio da colui che è considerato uno dei maggiori scrittori del secolo: Giuseppe Prezzolini. Giuseppe Prezzolini nacque per caso (così era solito dire) a Perugia il 27 gennaio 1882 (morì, centenario, a Lugano nel 1982). Iniziò la sua attività di giornalista ed editore appena ventunenne. Dopo aver partecipato alla Prima Guerra mondiale si trasferì negli Stati Uniti nel 1929; ma, come poi scriverà, non mancherà di tornare frequentemente in Italia. Dopo uno di questi viaggi compiuto nei primi anni Trenta, scrisse: <Le mie impressioni possono forse parere semplici per i lettori italiani, ma hanno però lo sfondo dei paesi per i quali passo quando torno: un confronto e un controllo. Pace in questa Italia: ecco il primo sentimento certo che si prova venendo da fuori e dura per tutto il soggiorno. La pace degli animi, il silenzio delle lotte che divorano gli altri paesi, e separano classi e spezzano famiglie e rompono amicizie, e disturbano il benessere, talora in apparenza maggiore. Le strade non saranno grandi come le Avenue, ma non ci sono mitragliatrici; le lire non saranno molte come i dollari, ma sono sempre lire e lo saranno domani. I ricchi non hanno bisogno di guardie del corpo per salvare i figlioli dal sequestro. I poveri non devono pagare la taglia mensile alla mala vita per esercitare il loro mestiere. C’è oggi una generale convinzione che in un mondo come quello d’ora l’esercito è uno strumento di prima necessità. Nel resto del mondo vi sono momenti in cui anche la famiglia più modesta e l’uomo più pacifico pensano che sia meglio saltare un pasto per comprarsi un revolver (…). Il popolo italiano appare rinnovato. Sta lontano dalle osterie e dalle risse; sale sui monti in folla. Gode, come nessun altro popolo, del paesaggio, dei fiori, dei colori e dell’aria. I discorsi e i commenti che vi senti, lasciano trasparire l’atmosfera di serenità e di salute. Il popolo italiano ha un aspetto più forte, più dignitoso, più serio, più curato, meglio vestito di un tempo, è ossequiente alle leggi e ai regolamenti, è istruito nella generalità e più aperto perfino agli orizzonti internazionali. Si muove di più, viaggia di più: conosce meglio di una volta il suo paese. Non è ricco come altri popoli, ma non lo è mai stato e in confronto del popolo americano mi pare senza dubbio più contento>.
Il grande banchiere americano John P. Morgan sembra condividere l’opinione di Prezzolini: <In America i nostri uomini politici non si curano se non di un problema, quello della loro rielezione. Tutto il resto non li interessa che mediocremente. Felici voi, italiani, che grazie a Mussolini, avete in questo periodo così difficile il senso della sicurezza e della fiducia in voi stessi. Ci vorrebbe anche per l’America un Mussolini>.
E questo, e tanto altro ancora in Italia, mentre l’America in quegli anni ancora navigava nella grande congiuntura che portava centinaia di persone al suicidio per la disperazione e la miseria.
La grande Nazione americana doveva provvedere ad assistere 13 milioni di disoccupati. Questo, mentre l’Italia fascista era impegnata in una pianificazione economica di vasta portata. Il Presidente americano intravide nel piano italiano i mezzi necessari per porre rimedio ai mali esplosi nel 1929; nel contempo quegli stessi mezzi potevano essere utilizzati per evitare che nel futuro il Paese potesse cadere nella medesima crisi. Roosevelt imboccò quella strada utilizzando, però, mezzi e leggi non proprio conformi ad una democrazia. Con questa definizione ci riferiamo all’Executive Order 6102 a firma di Franklin D. Roosevelt: con tale Order veniva imposto agli americani di consegnare tutto l’oro alla Federal Riserve. A questa imposizione faceva eccezione l’oro utilizzato per scopi professionali, ad esempio, per i dentisti. Chi non ottemperava rischiava una pena di 10 mila dollari (del valore del tempo) e fino a 10 anni di carcere. In Italia, invece, proprio in quegli anni, sotto la dittatura mussoliniana vennero offerti alla Patria, con spontaneità ed entusiasmo, oltre 33 mila chili d’oro e più di 94 mila chili d’argento. Il testo, in lingua originale dell’Executive Order, viene riportato in Appendice n° 3 e 4 nel mio ultimo libro Le Guerre di Mussolini? (attenzione al punto interrogativo).
Oggi la triade gangsteristica, Usa, Gran Bretagna e Francia, o quel che rimane dei soliti noti, stanno organizzando un nuovo attacco, questa volta tocca alla Siria, Le giustificazioni sono le solite banali, e pre-costruite.
E la solita storia che si ripete da almeno quattro secoli.
Perché un contadino medievale aveva più tempo libero di te
Fonte: http://cogitoergo.it/?p=23381
La vita per il contadino medievale non era certo una scampagnata. La sua vita era segnata dalla paura della carestia, della malattia e dai venti di guerra. La sua dieta e l’igiene personale lasciavano molto a desiderare. Ma nonostante la sua reputazione di miserabile, lo si potrebbe invidiare per una cosa: le sue vacanze.
L’aratura e la raccolta erano faticosi compiti, ma il contadino poteva godere ovunque da otto settimane a sei mesi all’anno di riposo. La Chiesa, consapevole di come mantenere una popolazione lontano dalla ribellione, ordinava frequenti feste obbligatorie. Matrimoni, veglie e nascite significavano una settimana di riposo a tracannare birra per festeggiare, e quando i vagabondi giocolieri o gli eventi sportivi arrivavano in città, per il contadino era previsto del tempo libero per l’intrattenimento. C’erano domeniche libere dal lavoro, e quando le stagioni di aratura e raccolta erano finite, il contadino aveva anche tempo di riposare. In effetti, l’economista Juliet Shor ha scoperto che durante i periodi di salari particolarmente alti, come l’Inghilterra del 14° secolo , i contadini potevano lavorare non più di 150 giorni l’anno.
E per il moderno lavoratore americano? Dopo un anno di lavoro ottiene una media di otto giorni di vacanza all’anno.
Non doveva finire così : John Maynard Keynes, uno dei fondatori della moderna economia, fece una famosa previsione che entro il 2030 le società avanzate sarebbero state abbastanza ricche che il tempo libero, piuttosto che il lavoro, avrebbe caratterizzato gli stili di vita nazionali. Finora , tale previsione non è stata rispettata.
Che cosa è successo? Alcuni citano la vittoria della moderna giornata di otto ore, 40 ore nella settimana lavorativa che pose fine alle punitive 70 o 80 ore del lavoratore del 19° secolo passate a lavorare duramente come prova che ci stiamo muovendo nella giusta direzione. Ma gli americani hanno da tempo detto addio alla settimana lavorativa di 40 ore, e l’analisi di Shor sui modelli di lavoro rivela che il 19° secolo fu un’aberrazione nella storia del lavoro umano. Quando i lavoratori combatterono per la giornata lavorativa di otto ore, non stavano cercando di ottenere qualcosa di radicale e nuovo, ma piuttosto per ripristinare ciò di cui i loro antenati avevano goduto prima che i capitalisti industriali e la lampadina elettrica entrassero in scena. Tornando indietro a 200, 300 o 400 anni fa, e si scopre che la maggior parte delle persone non lavoravano affatto molte ore. Oltre al relax durante le lunghe vacanze, il contadino medievale aveva il suo tempo per mangiare i pasti e di giorno spesso era incluso il tempo per un sonnellino pomeridiano. ” Il ritmo della vita era lento, anche piacevole, il ritmo di lavoro rilassato “, osserva Shor . “I nostri antenati non potevano essere ricchi, ma avevano l’abbondanza di tempo libero.”
Tornando al 21° secolo, gli Stati Uniti sono l’unico paese avanzato senza nessuna politica di vacanza nazionale. Molti lavoratori americani devono continuare a lavorare per giorni festivi e i giorni di vacanza sono spesso inutilizzati. Anche quando si riesce ad avere una vacanza, molti di noi rispondono a messaggi di posta elettronica e di ” check-in ” addirittura se siamo in campeggio con i bambini o cercando di rilassarci sulla spiaggia.
Alcuni incolpano il lavoratore americano di non prendere ciò che gli spetterebbe. Ma in un periodo di elevata e costante disoccupazione, precarietà e debolezza dei sindacati, i dipendenti possono non avere altra scelta che accettare le condizioni stabilite dalla cultura e dal datore di lavoro privato. In un mondo di occupazione a gogò, in cui il contratto di lavoro può essere risolto in qualsiasi momento, non è facile sollevare obiezioni.
È vero che il New Deal riportò alcune delle condizioni che i lavoratori agricoli e artigiani del Medioevo davano per scontato, ma dal 1980 le cose sono andate costantemente peggiorando. Con l’occupazione a lungo termine sempre più lontana, la gente salta da un lavoro all’altro, così l’anzianità non offre più i vantaggi di giorni aggiuntivi di riposo. Il trend di crescita dell’orario full e part-time di lavoro, alimentato dalla Grande Recessione, significa che per molti l’ idea di una vacanza garantita è solo un pallido ricordo.
Ironia della sorte, questo culto della fatica senza fine non aiuta nei risultati. Studi e ricerche dimostrano che il superlavoro riduce la produttività. D’altra parte le prestazioni aumentano dopo una vacanza quando gli operai tornano con rinnovata energia restaurata e concentrazione. Più lunga è la vacanza più le persone sono rilassate e felici al ritorno in ufficio.
Le crisi economiche forniscono ai politici dalla mentalità ristretta alla sola austerità le scuse per parlare di diminuzione del tempo libero aumentando l’età pensionabile, e di tagli per i programmi di assicurazione sociale e degli ammortizzatori sociali che avrebbero dovuto consentirci un destino migliore che lavorare fino allo sfinimento. In Europa, dove i lavoratori hanno in media da 25 a 30 giorni di ferie all’anno, politici come il presidente francese Francois Hollande e il primo ministro greco Antonis Samaras stanno inviando segnali che la cultura delle vacanze lunghe sta arrivando al termine. Ma la convinzione che le vacanze più brevi portano vantaggi economici non sembra piacere. Secondo l’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE ), i greci, che devono affrontare una crisi economica orribile, lavorano più ore rispetto a tutti gli altri europei. In Germania , una potenza economica, i lavoratori si classificano secondi per numero di ore lavorate più basse lavorate. Nonostante abbiano più tempo di riposo, i lavoratori tedeschi sono all’ottavo posto come i più produttivi in Europa, mentre i greci con lunghe ore di lavoro si piazzano al 24° posto su 25 per quel che riguarda la produttività.
Al di là dello sfinimento, vacanze di corta durata fanno soffrire i nostri rapporti con le famiglie e gli amici. La nostra salute si sta deteriorando: la depressione e alto rischio di morte sono tra gli esiti per la nostra nazione senza vacanze [NdA, gli USA]. Alcune persone lungimiranti hanno cercato di invertire questa tendenza, come l’economista progressista Robert Reich che ha argomentato a favore di un periodo obbligatorio di tre settimane di vacanza per tutti i lavoratori americani. Il deputato Alan Grayson ha proposto la legge Paid Vacation del 2009, ma, ahimè, il disegno di legge non ha nemmeno varcato la soglia del Congresso .
Parlando del Congresso, i suoi membri sembrano essere le uniche persone in America ad ottenere più tempo libero del contadino medievale. Hanno avuto 239 giorni di riposo quest’anno.
Link all’<a href=”http://blogs.reuters.com/great-debate/2013/08/29/why-a-medieval-peasant-got-more-vacation-time-than-you/“>articolo originale in inglese</a>.
Traduzione di Daniele Pace
FOTO: Caitlin, un turista australiano, gode il sole su una spiaggia della Croisette durante una calda giornata estiva a Cannes 31 luglio 2013 . REUTERS / Eric Gaillard
Paragone improponibile , che può uscire solo da una mente contaminata dal contesto malato in cui vive l’autrice ( la società americana nello specifico e occidentale in generale )
Improponibile per un motivo molto semplice : nel medio evo il tempo non era in vendita , la vita delle persone , non solo dei contadini , era scandita dal ritmo delle stagioni , dei raccolti , il concetto ” vacanza ” non esisteva perchè non esisteva il concetto di lavoro come lo intendiamo noi dopo l’industrializzazione agli inizi dell’800.
Forse il contadino medioevale aveva tanti problemi , come citati nell’articolo , ma perlomeno non doveva preoccuparsi di rendere conto a degli schizzati mentali che lo sezionavano al microscopio della produttività del suo tempo , doveva preoccuparsi se c’era siccità , troppa pioggia, carestia , non dell’andamento del dollaro o del petrolio.
E poi , fortuna sua , il tempo del riposo era tutto suo , anche quello , non ulteriore mercificazione come le nostre vacanze.
Vivere con poco: intervista a Stefania Rossini
Creato il 31 luglio 2012 da Tipitosti
No, Stefania Rossini, blogger di Natural-mente, 37 anni, bresciana, tre figli, casalinga tuttofare, un marito operaio metalmeccanico. non ci sta. E sbotta: “Io sacrifici? Ma scherza? Dalla vita ho avuto tanto. Direi che sono alla continua ricerca di soluzioni per continuare a vivere con 5 euro ogni giorno. Vi assicuro, le idee sono tante e le ho raccolte nel mio libro: “Vivere in 5 con 5 euro al giorno” , edizioni L’età dell’Acquario.
Per lei, studiare come risparmiare, è un divertimento.
In questa intervista ci spiega come si fa a vivere con poco ed essere felici.
Com’è la sua giornata standard?
Non ho una giornata standard, la mia giornata inizia alle 6,30, a volte anche prima. Le cose da fare sono sempre tantissime. Le valuto in base alle esigenze dei miei figli, alla temperatura, ai capricci delle mie figlie – che “portano via un sacco di tempo” – alle esigenze quotidiane di tutti componenti della famiglia.
Programmi dettati dal tempo: cosa significa? Se piove, non posso andare nell’orto a seminare e piantare. Ci vado solo per raccogliere qualcosa per i pasti. Quindi ho più tempo per altre cose. Se i bimbi vanno a scuola, ho quasi tutta la mattina libera, quindi posso organizzarmi per moltissime attività. Se sono in vacanza, invece, riesco a fare molto meno. Se è finito il pane, subito mi metto ad impastare. Inoltre, se i bimbi si alzano con richieste culinarie particolari cerco di accontentarli quasi sempre. Insomma, non ho programmi. Mi godo la bellezza della decisione istantanea. Adoro improvvisare.
Ma fa tanti sacrifici?
Bella domanda! Ognuno ha la propria scala di sacrifici. Io mi sento talmente fortunata, che non posso dire che la mia sia un’esistenza di stenti. Sarebbe un’offesa nei confronti di chi i sacrifici li fa davvero. Ho tutto quello che desidero. Per alcune donne sacrificio è rinunciare ad una borsa costosissima di LV. Io, invece, non darei alcun valore a quei sacchi, perché le borse le scambio, me le creo io, le firmo e non le pago. Al massimo le prendo in superofferta. Per alcune donne sacrificio è non poter permettersi l’estetista e avere l’abbronzatura perfetta. Sa cosa faccio io?
Vado nell’orto e il colore di solito arriva. Se non arriva, pazienza. Quando le persone mi guardano spero non vedano l’abbronzatura, ma quello che ho dentro. Il calore, più che il colore. Potrei andare avanti giorni, ma mi limito. Vorrei far capire che mi sento fortunata davvero e preferisco dare peso ai valori autentici, non agli oggetti. Posso dire che uno è il grande sacrificio che faccio. Mio marito non ha molto tempo da dedicare alla sua famiglia. I bimbi sentono molto la sua mancanza. Ma non può fare diversamente, il suo stipendio è fondamentale. E’ fuori tutto il giorno e sta poco con noi. Però, non mi lamento tanto. Del resto, ha un lavoro stabile, che ci permette di stare tranquilli.
Che progetti ha per il futuro?
Riuscire a pagare il mutuo! Poi continuare a realizzare oggetti in casa, imparare sempre cose nuove, conoscere nuove persone, che adottano il mio stile di vita. Direi che il grosso progetto già ce l’ho: una famiglia, una casa, dove c’è molto terreno per essere autosufficienti.
Cosa c’è dietro la scelta di vivere con 5 euro ogni giorno? Se le proponessero un lavoro interessante e guadagni interessanti, accetterebbe?
Valuterei molto seriamente un lavoro interessante. Mi piacerebbe lavorare magari da casa per potere gestire la famiglia, fare le cose che sto facendo e anche lavorare. Sarebbe uno dei miei sogni nel cassetto. Ma non pretendo troppo dalla vita. Dico solo: magari! Sarebbe una manna dal cielo. Un aiuto economico in casa non farebbe male. Il massimo sarebbe se questa attività ipotetica mi consentisse di non trascurare la mia famiglia. Ma andiamo avanti e il segreto è fare di necessità virtù.
Lei ha un blog. C’è qualche commento ai suoi consigli che l’ ha colpita?
Il commento che mi colpisce sempre purtroppo è solo uno: moltissime persone vedono un numero, il 5 del titolo del mio libro. Solo quello. E in base a quello criticano, mi riempiono di parolacce e giudicano. Purtroppo capisco che è difficilissimo azionare il cervello in certe situazioni. E’ molto più facile scaricare sul primo che capita la propria insoddisfazione, che approfondire un argomento. Capisco che è tostissimo vivere in un certo modo. Non pretendo che si capisca e si condivida, ma che ci si informi, prima di offendere! Comunque, ci sono anche gli entusiasti di questo vivere sano e frugale, che ricorda i tempi andati.
E’ parecchio difficile tornare all’antico e vivere come una volta?
Sul lato pratico è davvero molto semplice, perché alla fine si tratta di cose semplicissime da realizzare. La difficoltà più grande è nella nostra testa. Molte persone non vogliono capire, non vogliono mettersi in gioco. Invece, io dico che esiste un altro modo di vivere, senza essere più schiavi del consumismo. Questo spaventa tanti. Fa paura pensarla diversamente ed essere isolati. Mettersi in gioco richiede elaborazioni mentali, che non tutti desiderano fare. E’ molto più facile fare i robot. E continuare a vivere come ci hanno insegnato.
In concreto cosa propone e cosa consiglia ai lettori di questo blog?
Io non propongo, semplicemente dico quello che faccio. Poi ognuno prende quello che sente suo. Ho riscoperto valori e pratiche antiche con il pc in mano, quindi niente medioevo. Anzi, il segreto è sfruttare meglio la tecnologia. La mia nuova vita non è fatta solo di antico. Senza il pc forse non avrei imparato quello che ora faccio. per il resto rimando al libro.
Quale deve essere il giusto rapporto con il denaro per essere felici?
denaro serve a comperare quello che purtroppo non riesco a produrre da sola, a pagare il mutuo e le tasse. Anche a me piacerebbe vivere di rendita (anzi lo metto tra i miei desideri nel cassetto), ma non per avidità. Vorrei solo essere più tranquilla. Il denaro ha innescato un circolo vizioso. C’è chi ne ha troppo e chi per nulla! Purtroppo solo con il denaro si può accedere a servizi fondamentali. E realizzare sogni. L’importante però è non farsi risucchiare dal desiderio di avere sempre di più.
Ognuno dovrebbe avere il proprio giusto rapporto. Io dico quello che per me, per la mia famiglia è il giusto, senza imporre a nessuno la mia idea. Per me il
Vivere con poco e di poco: spesso è solo una moda, uno slogan, magari da parte di chi di soldi ne ha tanti?
Beh, io vivo con poco, ma non di poco. Anzi, vivo di tanto. Ritengo di avere tantissimo. Per altri noi siamo dei barboni. Noi per cena mangiamo quello che raccogliamo nell’orto. Altri devono per forza spendere cifre rilevanti. Certo abbiamo un mutuo da sostenere, ma senza essere retorici, siamo felici. E in famiglia l’uno è il sostegno dell’altro. Abbiamo sin dall’inizio valorizzato molto lo stare insieme, il dialogo continuo, la qualità di vita. E i soldi, i pochi che abbiamo, continuiamo ad investirli nel nostro sogno, quello che farà ridere tanti, ma che ci riempie la vita: l’amore della nostra famiglia.
Cinzia Ficco
Le Vandee italiane contro i giacobini e Napoleone dal 1796 al 1815
«Come possono gli storici ritenere che sia credibile che centinaia di migliaia di italiani abbiano combattuto per vent’anni col rosario in mano, sotto le insegne di Maria e delle legittime dinastie reali al solo scopo di nascondere odii di clan e faide locali, oppure per camuffare incipienti lotte di classe?». A chiederselo è Massimo Viglione, docente di Storia moderna all’Università Europea di Roma e docente Isem del Cnr. Il riferimento è a quelle che lui stesso definisce «le Vandee italiane». Cioè le molteplici rivolte di popolo contro i giacobini e Napoleone dal 1796 al 1815. Rivolte che vennero represse nel sangue «con l’uccisione di oltre 100 mila persone in massacri di massa, con stupri collettivi, anche nei monasteri, profanazioni di chiese, violenze blasfeme, distruzioni di interi paesi». Argomento che Viglione ha affrontato già nel 1999 con un libro edito da Città Nuova, e sul quale è tornato oggi con “Le insorgenze controrivoluzionarie nella storiografia italiana. Dibattito scientifico e scontro ideologico (1799-2012)”. Un testo edito da Olschki (pagine 130, euro 16) nel quale si tratta di come gli storici nostrani abbiano ripetutamente insabbiato questa vicenda fino a farla sparire completamente.
Come si fanno a tenere nascosti più di 100 mila morti?
«Per quel che riguarda la Vandea ne hanno tenuti nascosti molti di più. In ogni caso 100 mila è una cifra al ribasso. Pensi che nella primavera del 1799 il generale francese Tiebourth in una comunicazione ufficiale al Direttorio scrive che nel territorio del regno di Napoli in tre mesi sono stati passati per le armi 60 mila uomini, senza considerare le donne, i vecchi e i bambini. Nella sola Napoli, fra il 13 e il 22 gennaio vengono uccise oltre 10 mila persone. Le case dei Quartieri Spagnoli sono incendiate una a una con i soldati che si divertono a sparare sulle donne e i bambini in fuga».
Le stesse violenze che in Vandea?
«Non è stata la stessa cosa. Quello vandeano fu un genocidio con 300 mila morti su 500 mila abitanti. Lì i soldati francesi sono giunti a fare il sapone con la pelle dei bambini, a confezionarci indumenti. In Italia, anche se molti massacri sono stati ordinati da reduci vandeani (come nel caso di un ufficiale di nome Flavigni in Piemonte), non si è arrivati a tanta atrocità. Sebbene la similitudine con la Vandea emerga anche dagli scritti di ufficiali francesi che, per esempio, parlano della Romagna (dove le insorgenze furono numerose e continue) come della “Vandea italiana”».
Però si racconta di molti episodi truci.
«Ci furono tante profanazioni di chiese e conventi. Lo stesso Bacchelli nel Mulino del Po fa nascere le fortune-sfortune di Lazzaro Scacerni (il protagonista) dalla profanazione di una chiesa durante le campagne napoleoniche. L’abbazia di Casamari, nel frusinate fu occupata nel 1799. I monaci aprirono le porte offrendo quello che avevano. I soldati presero tutto, poi per sfregio profanarono in maniera ignobile le ostie nel tabernacolo. I monaci tentarono di difenderle buttandosi su di esse per mangiarle. I militi tagliarono loro le dita e poi li passarono a fil di spada risparmiando solo un francese che, paradossalmente, era stato a servizio nella reggia di Versailles».
Furono distrutti anche interi paesi.
«A Guardiagrele in provincia di Chieti vennero uccisi 1500 uomini. La prima strage avviene a Binasco, vicino Pavia, raso al suolo casa per casa. In parte analoga la sorte di Lugo di Romagna. Verona si salva, ma la repressione è durissima con la fucilazione di preti e di nobili. Ma rivolte e repressioni accadono in tutta Italia, dal Piemonte alla Puglia, alla Calabria, alla Liguria, alla Toscana».
Quale è stata la logica degli storici che hanno nascosto questi eventi?
«Certamente ideologica. Prima della seconda guerra mondiale non se ne parlava nelle scuole, ma il tema era oggetto di libri e dibattiti. Dopo la Resistenza la contemporanea affermazione nella storiografia di una visione crociana liberale e del gramscismo ha messo il tappo. Se ne è ricominciato a parlare col bicentenario della Rivoluzione francese. Anche in Francia è successa la stessa cosa. Il velo sulla Vandea è stato tolto dagli studi di Reinold Secher, che per questo è stato ostracizzato a livello accademico».
Perché tanto accanimento ideologico?
«Perché secondo quel tipo di storiografia in quei giorni gli italiani hanno preso le armi dalla parte sbagliata: per difendere la fede, la Chiesa e il potere costituito. Ma nel ’99 la rivolta coinvolse tutto il territorio. A gennaio i francesi occupavano tutta la Penisola tranne il Triveneto. Ad agosto non era rimasto un francese. Al cardinale Ruffo, sbarcato in Calabria con sette uomini, in poco tempo se ne aggregano 50 mila che riconquistano il Regno di Napoli. In Toscana il Granducato è riconquistato al grido di Viva Maria».
Una rivolta di popolo, mentre il Risorgimento, come disse Gramsci, venne imposto dall’alto.
«Questo è il motivo dell’ostracismo. Non si vuole riconoscere che l’Italia dell’epoca era cattolica e controriformista. Del resto, come si può esaltare Garibaldi e mille uomini senza seguito e poi raccontare che solo alcuni anni prima centinaia di migliaia di italiani si erano ribellati al giacobinismo?».
E ora?
«Oggi il fenomeno non si può più nascondere, allora si sostiene che gli slogan “Viva Maria”, “Viva il Papa”, “Viva il Re” dei ribelli erano solo coperture per nascondere interessi di parte. Ma è lampante che quegli italiani combatterono per la loro identità».
9 agosto 2013
Fonte: GENUINO CLANDESTINO:
ESISTE un numero imprecisato di persone che praticano un’agricoltura di piccola scala, dimensionata sul lavoro contadino e sull’economia familiare, orientata all’autoconsumo e alla vendita diretta; un’agricoltura di basso o nessun impatto ambientale, fondata su una scelta di vita legata a valori di benessere o ecologia o giustizia o solidarietà più che a fini di arricchimento e profitto; un’agricoltura quasi invisibile per i grandi numeri dell’economia, ma irrinunciabile per mantenere fertile e curata la terra (soprattutto in montagna e nelle zone economicamente marginali), per mantenere ricca la diversità di paesaggi, piante e animali, per mantenere vivi i saperi, le tecniche e i prodotti locali, per mantenere popolate le campagne e la montagna.
Per quest’agricoltura che rischia di scomparire sotto il peso delle documentazioni imposte per lavorare e di regole tributarie, sanitarie e igieniche gravose, per ottenere un riconoscimento che la distingua dall’agricoltura imprenditoriale e industriale, per ottenere la rimozione degli ostacoli burocratici e dei pesi fiscali che ostacolano il lavoro dei contadini e la loro permanenza sulla terra,
CHIEDIAMO CHE
1. Chi coltiva un appezzamento di terra, qualunque sia la sua dimensione, per l’autoconsumo familiare e per la vendita diretta e senza intermediari, possa liberamente:
a. trasformare e confezionare i propri prodotti nell’abitazione o nei suoi annessi, attraverso le attrezzature e gli utensili usati nella consueta gestione domestica;
b. vendere i propri prodotti agricoli (comprese le sementi autoriprodotte), alimentari e di artigianato manuale ai consumatori finali, senza che ciò sia considerato atto di commercio.
2. I contadini che, come occupazione prevalente, praticano la coltivazione del fondo e del bosco o l’allevamento o la raccolta di erbe e frutti spontanei, esclusivamente per l’autoconsumo familiare e per la vendita diretta ai consumatori finali e agli esercenti locali di vendita al dettaglio e ristorazione, e che non siano anche lavoratori dipendenti o liberi professionisti né abbiano dipendenti, salvo eventuali avventizi impiegati in attività di raccolta
SIANO ESONERATI DA
a. il regime Iva, la tenuta di registri contabili, l’obbligo di iscrizione alla camera di commercio; ogni imposta o tassa relativa all’occupazione prevalente, alla propria abitazione e al fondo, comprese quelle di registrazione e proprietà relativa all’acquisto di terreni confinanti con i propri e confinanti tra loro;
b. l’applicazione del sistema HACCP e, più in generale, le norme vigenti in materia di igiene e sicurezza degli alimenti;
c. i vincoli progettuali e urbanistici per:
– la costruzione di stalle, serre e altri annessi sui propri terreni e per l’esclusiva occupazione prevalente, purché realizzati con una dimensione massima di 30 mq e a un piano fuori terra, secondo tipologie bene inserite nel contesto ambientale, con strutture solo rimovibili e senza possibilità di cambio della destinazione d’uso;
– la ricostruzione di manufatti preesistenti in terra, in legno o in pietra a secco;
ABBIANO DIRITTO DI
d. macellare direttamente nel proprio fondo il bestiame nato e allevato nel podere, limitatamente a un numero di capi proporzionati ai membri della famiglia e ai propri ospiti, e seppellirne i resti secondo le consuetudini locali, fatti salvi gravi motivi sanitari o la non idoneità dei terreni;
e. esercitare nella propria abitazione e sul proprio fondo attività di ospitalità rurale, fino a un massimo di dieci coperti e posti letto, senza necessità di autorizzazioni e senza essere soggetti a regole fiscali e sanitarie;
f. pagare i minimi contributi assistenziali e previdenziali;
g. ricevere, attraverso le regioni, servizi gratuiti a domicilio di:
– assistenza veterinaria e agronomica;
– assistenza burocratica e ricezione per qualunque domanda, dichiarazione, denuncia o modulistica di altro genere a qualunque titolo richiesta dall’amministrazione pubblica o comunque dovuta per legge.
3. I contadini definiti nel punto 2 siano registrati in uno specifico albo del comune di residenza e possano attestarsi con autocertificazione, vera fino a prova di falso.
4. Il lavoro prestato ai contadini definiti nel punto 2, nel loro fondo, gratuitamente o come apprendistato o come scambio di opere, sia assimilato al volontariato e – salvo l’uso di scale o di macchine e attrezzature elettriche o a motore- non sia assoggettato a obblighi contributivi e previdenziali.
5. Siano abolite le limitazioni sui contratti agrari in natura, purché favorevoli ai conduttori per una misura non inferiore al 70% del raccolto.
http://genuinoclandestino.noblogs.org/
Il dottor Price testimonia la forte salute fisica e mentale delle popolazioni che nel 1900 non avevano ancora abbandonato lo stile di alimentazione tradizionale basato su cibi locali e genuini, e dimostra come i problemi di ortodonzia e i difetti della struttura scheletrica siano causati da un’alimentazione sbagliata (anche della madre durante il periodo della gestazione) e dalle carenze nutritive che essa causa
Negli anni 1931 e 1932 il medico dentista statunitense Weston A. Price condusse un viaggio in Svizzera per studiare l’alimentazione delle popolazioni che vivevano in alta montagna, e per confrontare lo stato dei denti (e lo stato della salute più in generale) degli svizzeri che avevano adottato uno stile di vita e di alimentazione moderna (pane bianco fatto con farina raffinata, zucchero, marmellate, cibi in scatola) con quello delle popolazioni isolate che vivevano in alcune vallate isolate della svizzera e conservavano stili di vita e di alimentazione ancestrali.
Fu così che si decise a visitare la vallata di Loetschental, situata a circa mille metri di altezza, dove risiedevano circa duemila persone che vivevano quasi esclusivamente di quanto produceva la propria terra, fatta eccezione per il sale marino e pochissime altre cose.
Tale valle è limitata su tre lati da alte montagne ricoperti di neve e di ghiacci, mentre sul terzo lato l’unico altro accesso è attraverso la ripida fenditura di un fiume che scende verso la valle del Rodano. Non esistono quindi agevoli strade di accesso alla vallata la cui popolazione è rimasta in stato di quasi totale isolamento per un migliaio di anni, periodo di tempo in cui mai nessuno ha potuto conquistare quel territorio.
Quando il dottor Price visitò la vallata di Loetschental la popolazione era suddivisa in diversi villaggi disposti lungo il corso del fiume, e le abitazioni (alcune delle quali avevano un’età secolare) erano tutte fatte di legno.
Lo stato di salute della popolazione era davvero invidiabile: non si riscontravano casi di tubercolosi mentre i casi di carie o di altra forma di decadimento dentale erano davvero rari. In quella piccola comunità, così come non c’erano né dottore né dentista, non c’erano nemmeno poliziotti né c’era una prigione, cose di cui semplicemente non c’era bisogno dal momento che la gente di Loetschental erano dotati di un’etica salda tanto quanto la propria salute.
Come è stato già mostrato nel precedente articolo, ciò deve mettersi in relazione con le buone abitudini alimentari di questa gente, che continuava ancora all’inizio del 20° secolo, a nutrirsi del cibo prodotto da loro stessi, a base di pane di segale integrale, latte burro e carne delle proprie bestie (ovini e bovini), e verdure nella stagione estiva. Come dicevano i romani “mens sana in corpore sano”; in effetti quando l’alimentazione fornisce tutti gli elementi nutritivi necessari al nostro corpo ed è basata su cibi genuini, non trattati, non processati (a prescindere dal fatto che siano di origine vegetale o animale, questione che verrà analizzata in un prossimo articolo), non si sviluppa correttamente né la struttura fisica (ossea e muscolare), né quella cerebrale. Un cervello ben nutrito ed efficiente è la base indispensabile per avere una mente agile, capace di concentrarsi e di imparare, una mente che funziona correttamente e che non è soggetta a sbalzi di umore, depressioni, ossessioni, paranoie, accessi di violenza, comportamenti asociali.
Questa illustrazione del libro del dentista Weston A. Price mostra come l’effetto del consumo di cibi a base di farina raffinata e zucchero non sia solo la carie dentale, ma anche la deformazione delle arcate dentali e l’affollamento dei denti. “Questa deformazione non è dovuta all’eredità” afferma il dottor Price.
Ancora crisi, si torna in montagna e nei boschi?
Il mercato occupazionale fatica a riprendersi e la soluzione potrebbe essere quella di lasciare le città per tornare nelle campagne; la terra può tornare come grande attività imprenditoriale
17:34 – Nello scorso secolo, l’esodo dalle campagne alle città. E se nel futuro prossimo avvenisse il contrario? L’ipotesi non è da scartare, a causa della crisi che in questi anni ha colpito industria e terziario, locomotive dell’economia italiana dai tempi del boom economico. I giovani, laureati e non, faticano a trovare lavoro, chi ha già un’occupazione deve fare i conti con cassa integrazione e mobilità.
Professor Rossi, qual è la situazione della coltivazione e del ramo agricolo in Italia?
«Gli occupati in campo agricolo sono il 3% dell’occupazione totale e importiamo per il 60%. Si sono creati pregiudizi verso questi lavori, l’attività agricola à vista come faticosa, sporca, poco redditizia. Solitamente poi ci si concentra solo sulla pianura, ma lì manca la mano d’opera e senza le sovvenzioni della Comunità Europea molte aziende dovrebbero chiudere. Esiste però la possibilità di riportare queste basse percentuali rispettivamente al 10 e 40%, ci sono potenzialità per tanti che non sanno più cosa fare e per i giovani che sono alla ricerca di cosa fare».
Quali possibilità offre questo tipo di attività. C’è una tendenza in questo senso?
«E’ avvenuto un ritorno dei giovani nell’ambito boschivo. Nel settore c’è stata una certa emergenza, collegata alla crisi dell’edilizia che utilizzava il legname, ma la possibilità di usare certi strumenti e macchine forestali attira di più che lavorare in una stalla ecc; diciamo che queste tecniche fanno più colpo. Nonostante la crisi quindi c’è stato un riavvicinamento al boschivo, da parte soprattutto di giovani del posto, consigliati anche da genitori e conoscenti».
Quali sono gli obiettivi della vostra offerta in questo specifico comparto?
«Vogliamo creare qualcosa di strutturato per favorire la permanenza dei giovani in montagna. L’idea sarebbe di fare una campagna di sensibilizzazione verso l’opinione pubblica, partire dalla campagna per illustrare i pro di questo lavoro. Bisogna avere infatti conoscenze profonde per risolvere i problemi e le variabili della natura. Presentiamo tramite esperienze pratiche come lavora un imprenditore agricolo, cominciando a fare esperienze nel lavoro e nei boschi, in strutture messe a disposizione da enti e privati. Valorizziamo scuola pratiche per l’agricoltura montana, di zootecnica e di produzione di prodotti tipici rinomati, implementando le conoscenze del passato con le scoperte del presente».
Qual è l’assorbimento lavorativo delle persone che seguono questi tipi di corso?
«Prima il 90% trovava un lavoro nel settore, poi la crisi ha abbassato la quota, che comunque ora è circa dell’80%. Si parte come operaio specializzato, per arrivare a capo squadra o capo cantiere. Di fatto, in Italia solitamente manca la preparazione specifica, spesso ci s’improvvisa e poi dopo si approfondisce».
Il Made in Italy contaminato dagli OGM
L’annuncio del decreto è stato accompagnato da una serie di dichiarazioni come questa
Questi discorsi, apparentemente saggi, in realtà sono solo fumosi e si sciolgono come neve al sole se esaminati con un po’ di razionalità. Perché mai la coltivazione di un mais OGM, perché solo di quello si parla, dovrebbe influenzare l’immagine dei prodotti italiani? Circa il 30% del mais coltivato in Spagna è geneticamente modificato, e non mi pare che l’immagine del celebre prosciutto “Pata Negra” o delle acciughe del cantabrico ne abbiano risentito. Perché dovrebbero? E cosa c’entra la biodiversità, parola di cui molti parlamentari si riempiono la bocca ma di cui spesso ignorano il significato? Mica stiamo parlando di specie selvatiche. Lo sanno vero che non c’è il mais selvatico (e dubito che conoscano il teosinte), e che il mais viene comunque acquistato ogni anno per seminarlo? E quindi la “biodiversità” del mais coltivato è quanto le multinazionali sementiere, le stesse che producono il mais OGM, decidono ogni anno di mettere in vendita?
Altre dichiarazioni sono altrettanto prive di senso: c’è chi teme una qualche “contaminazione” dei nostri prodotti, come se un mais OGM potesse rendere OGM anche dei pomodori coltivati lì a fianco, manco fosse un virus che inietta una qualche “essenza OGM” come nei film di fantascienza di serie B.
So bene che queste mie puntualizzazioni razionali non servono a nulla: le dichiarazioni riportate sopra paiono assolutamente sensate a chi le fa, non riuscendo a capire le obiezioni.
Su Facebook ho partecipato ad uno scambio di battute con la deputata del PD Susanna Cenni, prima firmataria della mozione anti OGM. Mi ha colpito molto questa frase:
Ho letto “utilizzare” e ho avuto una illuminazione. Non ha scritto “coltivare”, ha scritto proprio “utilizzare”. Possibile che chi ha votato la mozione voglia un’Italia OGM free, per sfruttare commercialmente questa immagine? Forse quei deputati pensano che adesso gli OGM in Italia non si “utilizzino” e quindi vogliono mantenere l’immagine “OGM free” dei prodotti italiani” (ammesso e non concesso che interessi a qualcuno, vedi la Spagna sopra).
Se è così mi spiace ma devo disilludere deputati e ministri: in Italia gli OGM non si coltivano ma si “utilizzano” eccome. Alla luce del sole. Legalmente. Senza alcuna opposizione.
L’industria mangimistica italiana utilizza circa 4 milioni di tonnellate di farina di soia ogni anno per produrre mangimi per animali. Di questi 4 milioni di tonnellate l’84% è OGM, importata da Brasile, USA, Argentina e Paraguay. Importiamo 3.350.000 tonnellate di soia OGM. Sono circa 55 kg di soia OGM per ogni italiano, deputati e ministri compresi.
Sono numeri enormi, e le navi che trasportano la soia sono impressionanti. Guardatene qui sotto una in fase di scarico, con la ruspa
650.000 tonnellate invece sono OGM free (e costa mediamente l’8% in più della soia normale o OGM) di cui 550.000 di soia italiana (fonte: elaborazione Pellati Informa)
Perché la importiamo? Perché non se ne produce abbastanza. E non solo in Italia. Anche Francia, Germania e altri paesi Europei “utilizzano” gli OGM. L’Italia importa anche il 20% del mais di cui abbiamo bisogno.
Non potremmo importarla tutta OGM free? No. Al mondo si producono ogni anno 250 milioni di tonnellate di soia, di cui almeno l’80% è ormai OGM; percentuale in continuo aumento. Ed è sempre più difficile trovare sul mercato soia certificata non OGM. Ci sono paesi che la producono, come la Cina, ma sono a loro volta importatori, perché il loro consumo di carne e di prodotti animali è in forte crescita.
Entrate in un supermercato. Passata la zona frutta e verdura osservate i vari prodotti di origine animale: latte, formaggi, burro, yogurt, carne, salumi, uova e così via. Se l’84% dei mangimi italiani per animali utilizzano soia e mais OGM sappiate che voi ogni giorno acquistate e mangiate prodotti da animali alimentati a OGM a meno che non vi nutriate esclusivamente di prodotti biologici.
Anche prodotti DOP e IGP, certo (il vanto bla bla bla)! Il Parmigiano reggiano, il Grana padano, il prosciutto di Parma, mozzarelle, culatelli e così via. Il vanto della produzione italiana che quei parlamentari vogliono scongiurare da una “contaminazione” di un campo di mais OGM di 6000 metri quadri in Friuli, destinato ad alimentazione animale, ma che invece viene prodotto acquistando regolarmente milioni di tonnellate di mais e soia OGM straniera, destinati ad alimentazione animale. A quanto pare il km zero per gli OGM vale al contrario.
Se non ci credete fate un giro in un consorzio agrario (magari uno gestito da quelle associazioni agricole che si oppongono agli OGM). Trovereste sacchi con questeetichette con la scritta “prodotto da semi geneticamente modificati“.
Vi chiederete perché in un supermercato italiano i nostri prodotti (sempre il vanto bla bla bla) non riportano in bella vista “Prodotto da animali alimentati a OGM”. Ne avete mai visto uno? Ma è ovvio no? Le leggi europee e italiane lo permettono! Quale produttore di formaggio o di prosciutto o di latte o di bistecche vorrebbe l’etichetta infamante?
Se vi fosse una etichettatura obbligatoria l’ipocrisia della politica italiana ed europea sarebbe palese: non voler produrre quello che però vogliamo e dobbiamo acquistare. Chi in questo paese è favorevole all’uso degli organismi transgenici è invece spesso favorevole all’etichettatura, me compreso, perché almeno si capirebbe che l’opposizione di facciata qui da noi serve solo per sperare di lucrare una rendita di posizione basata su una falsa immagine di una Italia OGM free.
Queste sono cose stranote agli addetti ai lavori, e io qui lo scrivo da anni, ma dovrebbero anche esserlo ai nostri parlamentari. Nel 2009 le commissioni riuniteAgricoltura e Istruzione hanno svolto una “indagine conoscitiva sugli organismi geneticamente modificati utilizzabili nel settore agricolo italiano per le produzioni vegetali, con particolare riguardo all’economia agroalimentare ed alla ricerca scientifica”. Nella settima seduta il Dott. Giordano Veronesi, presidente di Assalzoo, associazione nazionale di produttori di alimenti zootecnici, nonché maggior produttore italiano di mangimi spiega molto bene come l’industria mangimistica italiana sia obbligata ad acquistare dall’estero soia OGM.
40.000 contro 9.000.
Ben 8 italiani su 10, come Coldiretti non manca mai di ricordare, sono contrari all’utilizzodegli OGM. Quindi Signori Ministri, è urgente vietare con effetto immediato le importazioni di OGM, al fine di non ingannare il cittadino. Non sono i 6000 metri quadri di mais OGM a Vivaro a gettare un’ombra sulla nostra produzione (il vanto bla bla bla). Sono le 3.350.000 tonnellate di soia OGM che importiamo. Per tacer del mais.
Giù la maschera: il “Made in Italy” è fatto con gli OGM. Vietate immediatamente le importazioni di OGM. O almeno imponete l’obbligo di etichettatura se nella filiera si usano OGM. Altrimenti siete solo chiacchiere e distintivo.
Dario Bressanini
P.S.: il brevetto sulla soia Monsanto sta per scadere, e nel 2014, come spiegaMonsanto stessa, gli agricoltori che lo desiderino potranno salvare i semi di alcune varietà e riseminarli nel 2015. Non solo: chiunque potrà copiarla e, come successo in India con il cotone Bt che non era protetto da brevetto, potrà produrre nel proverbiale garage biotech la propria versione della soia di Monsanto. Non è difficile prevedere che ne vedremo delle belle.
Scritto in Agricoltura, Allevam
Cocomeri esteri taroccati e spacciati per italiani, agricoltori italiani distrutti!!
Fonte: https://www.facebook.com/pages/CRA-Comitati-Riuniti-Agricoli/183370485094311
***Continua la mattanza degli agricoltori Italiani.***
Oggi parliamo di cocomeri, ma potremmo parlare di frutta o altri ortaggi il “risultato è lo stesso”!!
Questo è il momento top per chi produce cocomeri, questa è la stagione giusta, tanti agricoltori arrivati ormai all’ultima spiaggia speravano quest’estate di rifarsi, purtroppo, ai debiti pregressi stanno per aggiungersi altri debiti, altri inganni e altre ingiustizie.
Ora che doveva essere il momento del riscatto, e del giusto ritorno economico per i nostri agricoltori, invece è arrivata l’ennesima PORCATA;
Centinaia e centinaia di bilici provenienti da paesi esteri (corridoio verde) stanno scaricando nelle cooperative una marea di cocomeri, per essere taroccati e venduti come cocomeri Italiani.
Ora vi spieghiamo come fanno (ne ho un esempio proprio vicinissimo a me: si prendono tre o quattro soci (agricoltori italiani), gli si fa piantare qualche ettaro di cocomeri, per esempio, due ettari a testa, poi, contemporaneamente, si fanno accordi per far arrivare centinaia e centinaia di ettari di cocomeri da paesi esteri, in questo modo si può dimostrare che la merce è italiana.
Basterebbe un semplice controllo per STANARE QUESTA TRUFFA BEN PROTETTA ISTITUZIONALMENTE, infatti i conti non tornano mai.
I totale dei quintali venduti non corrisponde al totale dei quintali prodotti.
Questi sono i rapporti della mega truffa; uno a dieci, cioè di dieci cocomeri che vengono venduti come Italiani solo uno lo è!!Pensate, solo qualche anno fa (dieci anni fa) il rapporto era inverso !!
Ai nostri agricoltori I COCOMERI non vengono pagati più di 4 o 5 centesimi al chilo, praticamente è il fallimento, il disastro, la loro terra ereditata dai loro nonni, gli verrà portata via, tutto questo perché DEI CRIMINALI INFAMI E PARASSITI “”DEBBONO FARE CASSA”” !!
In questo modo gli agricoltori non possono onorare né i debiti pregressi né le recenti spese eseguite.
Quindi a rimetterci saranno: Operai, rivenditori di piantine, venditori di prodotti vari, meccanici e professionisti … in poche parole, tutto l’indotto del paese ne risentirà (ma non tutti ne risentiranno, I Criminali Parassiti vedranno le loro tasche ingrossarsi sempre di più).
I contributi personali e degli operai, non potranno essere mai pagati(a 4 o 5 centesimi nemmeno si mangia), il sistema previdenziale salterà, tutto lo stato sociale ne subirà serie e irreparabili conseguenze, ma nonostante tutto i PARASSITI CONTINUANO AD ARRICCHIRSI, BEN PROTETTI DALLA POLITICA CORROTTA …W IL CORRIDOIO VERDE E TUTTI QUEI FESSI CHE ANCORA NON SI RIBELLANO!!
Niente carcere per chi incendia un bosco
Fonte: http://www.greenreport.it/news/diritto-e-normativa/niente-carcere-per-chi-incendia-un-bosco-il-regalo-per-i-criminali-ambientali-e-servito/
Diritto e normativa
La conseguenza delle disposizioni del D.L. 1 luglio 2013 n. 78
Niente carcere per chi incendia un bosco: il regalo per i criminali ambientali è servito
La notizia arriva in piena stagione di allerta rischio per gli incendi boschivi
[11 luglio 2013]
La notizia appare a prima vista incredibile. Ma è (purtroppo) vera. In piena stagione di allerta rischio per gli incendi boschivi, dopo le ampie devastazioni del territorio dovute alle fiamme nelle aree boscate della scorsa estate, viene varato un provvedimento che di fatto in sede di espiazione di pena elimina il carcere per i criminali responsabili di aver provocato – anche dolosamente – appunto un incendio boschivo. E questo – nel contesto del c.d. “decreto svuota carceri” – per contribuire al programma di riduzione della popolazione carceraria.
Ma vediamo nei dettagli cosa è successo.
Preliminarmente va ricordato – a beneficio dei lettori non esperti di diritto – che l’art. 423/bis del Codice Penale prevede l’importante reato di incendio boschivo. Un delitto basilare per il contrasto ai criminali incendiari di ogni categoria. Infatti tale articolo riporta nel primo comma il caso dell’incendio boschivo doloso (dunque che riguarda i veri e propri criminali incendiari), con una previsione di pena della reclusione da quattro a dieci anni; nel secondo comma prevede invece il caso dell’incendio boschivo colposo (punito con la pena della reclusione da uno a cinque anni). Seguono poi nel terzo comma la previsione di un aumento di pena se dall’incendio deriva pericolo per edifici o danno su aree protette, nel quarto comma altro aumento di pena se dall’incendio deriva un danno grave, esteso e persistente all’ambiente.
Come appare evidente, si tratta di un reato di importanza straordinaria ai fini preventivi e repressivi rispetto al gravissimo e dilagante fenomeno degli incendi boschivi; dunque, un delitto cardine nel contesto del diritto ambientale, delitto che certamente non può essere inquadrato nella categoria dei c.d. “reati minori” (salvo il voler considerare “reato minore” il crimine di devastare con il fuoco il nostro restante e superstite patrimonio boschivo).
Dunque, se il soggetto imputato di tale grave reato (nella forma dolosa in primo luogo, ma poi anche nella forma colposa) dopo la conclusione della fase processuale viene riconosciuto colpevole verrà condannato comunque ad una pena di reclusione (pena detentiva) e dopo il passaggio in giudicato della sentenza (quando cioè sono esaurite in pratica tutte le fasi dei possibili appelli e ricorsi) si procederà con l’esecuzione della pena stessa. In pratica, viene data esecuzione alla carcerazione vera e propria per l’espiazione della pena (salvo che nel caso specifico la pena stessa non sia stata soggetta alla sospensione condizionale se il soggetto e l’entità della pena consentivano la concessione di tale beneficio). Questa procedura è disciplina dall’art. 656 del Codice di Procedura Penale il quale nel primo comma recita che “quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il quale, se il condannato non è detenuto, ne dispone la carcerazione”.
Appare evidente che – come in tutta la tipologia dei reati di maggiore danno sociale – la certezza della pena e della sua effettiva espiazione è un deterrente importante nella politica generale di contrasto verso i crimini come quello in esame. Cancellare tale certezza e tale prospettiva di espiazione, significa di fatto svuotare la portata preventiva e repressiva del reato e ridurlo in modo profondo nella sua potenziale rilevanza operativa.
Tuttavia il citato art. 656 C.P.P. nel quinto comma prevede una forma – per così dire – “attenuata” di esecuzione della pena. Infatti dispone che in alcuni casi minori specificatamente previsti come livello di pene, il pubblico ministero, salvo quanto previsto dai commi 7 e 9 dello stesso articolo, ne sospende l’esecuzione.
Sostanzialmente, si apre una strada alternativa per sostituire l’espiazione della pena detentiva in carcere con altre forme di espiazione più “leggere”, tra le quali – ad esempio – l’affidamento in prova ai servizi sociali o gli arresti domiciliari.
Appare evidente che la ratio legis di tale previsione è collegata al presupposto che i soggetti condannati in via definitiva che beneficiano di tale forma “attenuata” e diversificata di espiazione della pena (in pratica, per essere chiari; evitano il carcere…) hanno commesso reati di minore rilevanza, danno e pericolosità sociale. Ed infatti lo stesso art. 656 (ed è questo poi il punto che ci interessa direttamente in questa sede) nel successivo comma 9 pone dei limiti alla possibilità di attivare questa procedura più favorevole, ed elenca una serie di reati che evidentemente sono stati ritenuti fino ad oggi di particolare disvalore sociale e di maggiore danno collettivo e – dunque – i soggetti dichiarati con sentenza di condanna definitiva responsabili di tali reati non possono beneficiare di tale procedura “attenuata”. Un modello di coerenza generale rispetto alla ratio legis sopra citata che fino ad oggi è stato ragionevole e realistico. Infatti tra i reati che il successivo comma 9 prevedeva come inibenti per tale procedura era indicato – tra l’altro – anche l’art. 433/bis del Codice Penale.
Il concetto era chiaro. Anche se la sentenza di condanna per un criminale incendiario rientrava come pena irrogata a livello di quantificazione nella previsione dello schema del quinto comma dello stesso art. 656 C.P.P., se il titolo del reato era quello di incendio boschivo tale procedura “attenuata” non poteva essere attivata. In pratica, sempre per essere più chiari, tale soggetto doveva comunque espiare la pena detentiva della reclusione in un carcere.
Appare evidente che fino ad oggi – evidentemente e giustamente – il crimine di incendio boschivo era stato ritenuto delitto di particolare allarme e danno sociale e – di conseguenza – doveva essere escluso dall’alveo dei reati (minori) per i quali era possibile la procedura per la espiazione della pena in modo diverso senza carcere.
Ed è su questo delicatissimo e rilevante punto procedurale che è intervenuto il D.L. 1 luglio 2013 n. 78 con le conseguenze che stiamo esaminando. La modifica normativa è apparentemente sottile e silente, e forse per questo non è stata forse fino ad oggi recepita a livello di informazione generale nella reale portata delle sue conseguenze pratiche.
Infatti nel contesto del citato D.L. 1 luglio 2013 n. 78 (“Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena”), pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 153 del 2 luglio 2013 (in attesa di conversione), che introduce – si sottolinea – dei meccanismi che riducono le ipotesi di carcerazione dei soggetti che non presentano una elevata pericolosità (ricorrendo determinati presupposti), tra le modifiche maggiormente rilevanti va segnalata – appunto – la revisione dell’art. 656 del Codice di Procedura Penale, che – come abbiamo visto – prevede l’immediata carcerazione dei soli condannati in via definitiva. Il punto di interesse in questa sede è che tale decreto nell’art. 1 stabilisce la cancellazione dell’art. 423/bis del Codice Penale dal contesto del comma 9 dell’art. 656 C.P.P. Cade così la pregressa – e logica – inibizione per attivare la procedura di espiazione pena “attenuata” a carico dei criminali incendiari responsabili anche di incendi boschivi dolosi.
In altre parole, da oggi chi brucia anche dolosamente un bosco può prevedere che se sarà individuato anche in caso di condanna (necessariamente alla pena della reclusione) poi comunque in sede di espiazione della pena non finirà in carcere per scontare la pena stessa ma potrà beneficiare della procedura “attenuata” che abbiamo sopra visto. Mi sembra che – di fatto – il reato di incendio boschivo (anche nella forma criminale/dolosa) viene sostanzialmente gettato nel calderone dei “reati minori”. E che il divieto di attivare le procedure esecutive “attenuate” riguardi comunque i reati di maggiore allarme e danno sociale è confermato dal fatto che il decreto attiva poi l’inibizione – ad esempio – per il reato 572, secondo comma, ed il reato di cui 612-bis, terzo comma, del codice penale (rispettivamente maltrattamento in famiglia a danno di minori di anni 14 e atti persecutori a danno di minori, donne in stato di gravidanza, disabili o commessi con armi). Giustissimo ampliare la sfera di previsione a tali reati. Ma perché togliere il reato di incendio boschivo?
Ora, le riflessioni sono diverse.
In primo luogo, sulle conseguenze. I criminali incendiari dolosi e – soprattutto e spesso – i loro mandanti sanno che da oggi nonostante le devastazioni al territorio che andranno a provocare, realisticamente non finiranno in galera. Questo, tenendo conto che abbiamo a che fare con veri e propri criminali, spesso azionati da interessi milionari ed a volte connessi a forme di connessione con criminalità organizzata, non può che essere la demolizione radicale di ogni effettivo deterrente e repressivo del reato di incendio boschivo. Non credo che siano necessari grandi teoremi giuridici per percepire come a fronte di tali forme criminali il fatto di aver sostanzialmente eliminato il carcere come forma di espiazione di pena ed il fatto di aver sempre di fatto derubricato e delegittimato il reato ex art. 423/bis nel novero dei “reati minori”, oggi peraltro in piena stagione di allerta per incendi boschivi, non può che sortire un effetto nefasto sulla prevenzione di tali incendi devastanti.
E’ veramente sconcertante che mentre da anni si parla (e si parla solo…) della necessità di introdurre nel nostro ordinamento giuridico i famosi delitti ambientali, uno dei pochi (veri) delitti ambientali che sono vigenti venga di fatto svuotato nella sua portata deterrente e repressiva in questo modo.
In secondo luogo, va rilevato che – come è noto a tutti coloro che operano nel settore – da sempre individuare un criminale incendiario doloso, raccogliere prove sufficienti a suo carico ed arrivare ad una sentenza di condanna è molto difficile. Questo perché logicamente l’incendiario nel momento in cui le fiamme si attivano si è già dileguato e la flagranza è un caso rarissimo. Servono dunque indagini difficili, complesse, spesso con sofisticati mezzi scientifici, impiego di personale specializzato, tempi rilevanti per giungere a tali identificazioni. Questo ha portato fino ad oggi ad una oggettiva statistica di soggetti condannati realmente bassa, a fronte di sforzi investigativi immensi che peraltro generano rilevanti costi per l’erario.
Si tratta di un numero esiguo di soggetti che certamente erano (e sono e saranno) irrilevanti ai fini del problema del sovraffollamento delle carceri… Verosimilmente la scarcerazione di tali soggetti incide in modo irrilevante sul problema della eccessiva popolazione carceraria.
Dunque perché, a fronte di tale modesto ed irrilevante effetto ai fini della finalità del decreto-legge, in dosimetria di confronto con il danno sociale ed ambientale che tale provvedimento può indirettamente contribuire a causare, si è deciso di adottare il provvedimento stesso?
Inoltre: appare altrettanto sorprendente che il decreto legge in questione – parallelamente al reato di incendio boschivo – ha eliminato il divieto della sopra citata procedura di espiazione pena “attenuata” anche per il reato di cui all’art. 624/bis de Codice Penale: furto in abitazione e “scippo”. Anche in tali casi, non credo che si debba essere fini giuristi per dedurre che eliminando dalla previsione di cui opera furti nelle abitazioni o “scippi” ai danni delle persone su strada la prospettiva di andare poi in galera per scontare la pena, non potrà che aversi come effetto indiretto un abbassamento del livello di prevenzione generale verso questi altri reati.
Resta infine da chiedersi come è possibile oggi utilizzare un decreto-legge per modifiche così radicali, importanti e – francamente – dai caratteri di urgenza veramente invisibili.
Peraltro si tratta di una modifica varata nel periodo estivo quando – realisticamente – i livelli di percezione (e reazione politica e sociale e culturale) sono tradizionalmente attenuanti dal clima balneare.
Auspichiamo – dunque – un movimento di opinione generale che percepisce ed affronti questo tema, prima della definitiva conversione in legge di questo decreto. I tempi sonio stretti, ed è stagione di vacanze. Fino ad oggi vi sono spazi per intervenire a livello legislativo per cancellare questa incomprensibile modifica. Una volta convertito in legge la modifica sarà definitiva. Il tema interessa qualcuno?
a cura di Maurizio Santoloci, Diritto all’ambiente
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Noi, famiglia italiana con sedici figli
«Siamo una famiglia straordinariamente normale… Ma il merito non è nostro. Semplicemente perché è un’opera di Dio». Mezza Catanzaro è in attesa di un parto insieme straordinario e normale, per dirla con le parole appena usate dal capofamiglia Aurelio Anania, 46 anni, impiegato come coadiutore (quello che un tempo si chiamava bidello) all’Accademia di belle arti di Catanzaro: sua moglie Rita Procopio, 42 anni, partorirà nei prossimi giorni per la sedicesima volta. Stavolta è una figlia, si chiamerà Paola e si aggiungerà alle altre otto sorelle e ai sette fratelli. Aurelio e Rita (lei è ovviamente casalinga, anche se in passato lavorava negli uffici amministrativi del Policlinico Mater Domini) si sono sposati l’8 dicembre ’93 dopo otto anni di fidanzamento e tenendo fede, ci tengono a raccontarlo, al voto di castità prematrimoniale. E da allora è cominciata la serie ininterrotta di figli: per prima Marta, oggi 18 anni, e poi Priscilla, Luca, Maria, Giacomo, Lucia, Felicita, Giuditta, Elia, Beatrice, Benedetto, Giovanni, Salvatore, Bruno fino alla piccola Domitilla, appena un anno e mezzo.
Nessuna storia di marginalità sociale. Al contrario, una scelta consapevole e granitica, come spiega Aurelio Anania: «Non c’è né incoscienza né ignoranza, ma il frutto di un cammino di fede […]. Se rispondiamo alle domande di qualche giornalista è per testimoniare, nell’anno della Fede proclamato da Benedetto XVI, cosa può produrre la certezza quotidiana del Cristo risorto. Mia moglie ed io non siamo altro che gli umili amministratori di un disegno divino». Naturalmente tutta questa fede si declina, come hanno raccontato sia Catanzaroinforma che il Quotidiano della Calabria, in una vita quotidiana materiale. Lo spiega sempre papà Aurelio: «Volete sapere quanto guadagno? 2.200 euro al mese, inclusi gli assegni familiari». Ma come fate ad arrivare alla fine del mese? «C’è sempre l’aiuto della Provvidenza, sicuro, puntuale e ben tangibile. Si può scoprire, per esempio, in un arretrato imprevisto. In un sostegno che arriva da qualche parte. Sono autentici piccoli miracoli, basta saperli capire. L’uomo può anche offendere, se regala qualcosa a qualcuno. Dio non lo fa mai. E non ti costringe nemmeno a chiedere, perché si muove in anticipo sapendo delle tue necessità».
Al netto di tanta certezza interiore, c’è un’organizzazione familiare perfettamente sperimentata. Ogni giorno servono circa tre chili e mezzo di pane e quattro litri di latte. E il resto? Papà Anania ride: «Per il resto viviamo di offerte speciali. Non abbiamo un supermercato di riferimento ma ci muoviamo in base ai prezzi più bassi». Bastano i soldi per mangiare, per vestirvi? «Potrei dire che solo chi non ha fede si preoccupa di certi aspetti. Ma alla fine sì, bastano. Ha perfettamente ragione papa Francesco quando sostiene che il denaro domina il mondo. I soldi non mi danno la vita ma mi servono per vivere». Casa Anania dispone di 110 metri quadrati, in una stanza i sette maschi, in altre due le femmine. Per mamma e papà la sveglia suona alle 6.15, dopo la colazione i grandi vanno a scuola in autobus, i piccoli accompagnati da papà con il pulmino da nove posti parcheggiato in cortile (nelle uscite di famiglia qualcuno si deve sempre infilare nell’auto di amici). Quando la casa si svuota a mamma Rita restano un lettone e sedici lettini da rifare, le lavatrici, la spesa, il pranzo da preparare nella grande cucina dove il pomeriggio si fanno i compiti. Ma nessuno soffre per la mancanza di spazio in quei 110 metri quadrati di casa. L’ultima battuta di Aurelio Anania, in attesa della piccola Paola, riguarda l’eternità: «Mi basterebbe la certezza che per noi ci fosse la stessa superficie in Paradiso…».
Nota di BastaBugie: Aurelio e Rita ci tengono a raccontare che durante il fidanzamento hanno mantenuto la castità prematrimoniale. Sull’argomento si può leggere l’articolo da noi già pubblicato “Le coppie piu’ soddisfatte? Sono quelle che si sono astenute dall’avere rapporti prima del matrimonio” in cui si spiega che non siamo fatti per il nomadismo affettivo, ma per la stabilità, clicca qui
http://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=2604
Consigliamo inoltre il dvd “Amore senza rimorso” sulla castità della durata 60 minuti (doppiato in italiano) più 45 minuti di contenuti extra con 9 filmati: l’aiuto giusto, apologia del pudore, la storia di Crystalina, ai genitori, corteggiare, abbigliamento, sii padrona del tuo mistero, teologia del corpo, guardare una donna, invitare una donna, come educare da padre i figli. Puoi vederlo cliccando qui sotto
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Consigliamo infine il video di Jason Evert “Sii padrona del tuo mistero” sull’importanza della castità prematrimoniale:
Azione teoria classe e partito
Cosa mai hanno avuto da obiettarci i nostri nemici opportunisti quando ci hanno accusato con parola difficile agli orecchi dei comuni proletari, di essere “deterministi”? Risaputamente, di essere fermi, rassegnatamente bloccati su posizioni dottrinarie incapaci di seguire il movimento, la trasformazione continua delle circostanze storiche. Che cosa hanno da dire ora, proprio quelli che, rincorrendo le cambiate circostanze, hanno decretato non solo la fine del comunismo, ma la credibilità stessa dell’idea di comunismo?
Il nostro “nullismo” rivoluzionario ha permesso di assistere al salto mortale dei traditori, confermando le nostre previsioni, con un certo ritardo, questo sì, ma in modo inequivocabile e definitivo. Ora noi siamo certi, documenti e fatti alla mano, che nessuno, tranne degli irriducibili come noi, sostiene non solo la possibilità, ma la necessità storica del comunismo.
A proposito di determinismo, naturalmente dialettico, noi opponiamo ai sofisticati e imbelli teorici della causalità statistica ed aleatoria, la verità “dell’azione a distanza”. Ciò significa che rimaniamo in pochi a sostenere la validità dei classici concetti di causalità, non soltanto nell’ambito dei fenomeni “fisici”, ma anche in quello certo più complesso, dei fenomeni sociali. A molti, diciamo alla grande maggioranza degli “infedeli”, l’esistenza dell’azione a distanza sembra problematica: ma non capiremo completamente la struttura causale fino a quando non comprenderemo questo meccanismo.
Nel paradigma scientifico sperimentale che rivendica il requisito della “verifica”, si può accettare l’azione a distanza, non dimostrabile? Lo statuto scientifico richiede la controllabilità e la ripetibilità come criteri di prova della sua validità, perché non si cada nella magia, nell’esoterismo o nella “visione”. Oppure è necessario spostare il discorso sulle cosiddette “cause seconde”, fino al punto di rischiare di cadere nel modello meccanicistico.
Nella scienza che meriti questo nome è necessario conoscere le leggi dei processi e delle interazioni, oltre che le più generiche regolarità statistiche. Ripiegando invece nella causalità statistica come riferimento generico per ogni tipo di causalità indeterministica, si mettono in evidenza le “congiunzioni costanti” e le relazioni di regolarità statistica.
Nella causalità statistica non si fa menzione dei meccanismi di causalità.
Nell’azione a distanza diventa sempre più difficile individuare “conjunctive forks” e così la necessità del cosiddetto “screening off” aumenta indefinitamente. In parole più semplici molti nessi “causali” vengono “schermati” da altri processi.
Il mondo nel suo insieme finisce così per assumere l’immagine opaca dietro a cui si nasconde il «deus absconditus» della Verità “vera”. Questo accade quando per scienza si intende non il processo reale delle nude cose, ma una realtà intima che solo la teologia dei “sacerdoti impostori” sarebbe in grado di intuire e di amministrare.
È quello che il materialismo storico ha appunto smentito con la critica alla ideologia borghese, da sempre…
Nel determinismo si crede che ogni evento è legato al tutto. La libertà coincide con la necessità (determinatio est negatio), si pensa cioè che la catena delle connessioni è coerente e razionale.
Nell’indeterminismo si sostiene che l’evento non è sempre il prodotto d’un nesso causale, ma un’espressione non spiegabile in rapporto ad una causa. Per esempio: una persona po’ subire un attacco cardiaco senza una causa esterna. Un neutrone può disintegrarsi spontaneamente liberando un elettrone o un protone. Insomma nel modello indeterministico l’evento è gratuito.
Nella concezione deterministica ogni evento è prodotto da un’interazione col tutto, anche quando non siamo in grado di conoscerlo in forma analitica. La risposta a questa difficoltà è: “non sappiamo, ma sapremo”.
Due sono i tipi di assiomi causali: 1) la produzione dell’evento, 2) la sua propagazione. Le interazioni causali sono gli agenti della produzione che determinano cambiamenti nei processi che si intersecano.
I processi causali sono gli schemi della propagazione. Essi trasmettono le influenze causali attraverso l’universo.
Un nesso casuale forte e visibile rimane talvolta “schermato” in rapporto al mondo, ma si rende visibile attraverso una sua manifestazione. Classico il caso, nella teologia, la triade Dio Padre, Figlio, Spirito, oppure l’immanentizzazione di essa operata da Hegel nella triade Idea-Natura-Spirito che il materialismo dialettico ha riconosciuto valida dal punto di vista della logica dialettica, ma da depurare dai residui travestimenti teologici, da rovesciare, come noi diciamo. Il tenersi “schermato” in rapporto al mondo lascia al Dio o all’Idea quell’alone di mistero, di causa incausata trascendente che non può essere risolta in qualche “conjunctive forks”… I diversi modi d’intendere i nessi causali, o in forma dialettica o secondo altre congiunzioni, fa parte della logica formale, che il materialismo storico non sottovaluta, senza mai però cadere nell’idolatria delle forme e perdere di vista la potenza della esperienza sensorial-concreta. Se ce ne occupiamo con molto interesse è perché non abbiamo abbandonato la possibilità di trasformare la realtà in senso rivoluzionario, nell’impresa storica di emancipare le classi subalterne. In rapporto a questo impegno non ogni o qualsiasi modello logico è riducibile ad un altro: per questo non negammo a suo tempo la nostra preferenza per la logica dialettica. Né ci sembra il caso di pentirsene, tenuto conto del suo valore strumentale, e della sua utilità come guida per l’azione.
Mentre i presunti “potenti della terra” non hanno pudore ad ammettere di “navigare a vista” e di non escludere che la nave potrebbe infrangersi sugli scogli, noi comunisti siamo dell’opinione che senza una visione generale del futuro non sia possibile non solo vivere il presente, ma neppure capire la storia ed il passato.
La specie umana ha scritto nei suoi geni un programma non solo biologico, ma anche culturale, secondo un’interazione che nel nostro tempo postula senza mezzi termini la necessità della Rivoluzione proletaria.
È così che la domanda sul significato della vita sulla quale si interrogano ipocritamente i pensatori borghesi, non può avere una risposta particolaristica e miope, cioè propria e consona alle ragioni di classe della borghesia, ma generale e di specie, che solo la classe rivoluzionaria è capace di concepire tramite il suo organo politico, il Partito. Solo il Partito della classe operaia, che interpreta i suoi bisogni e le sue necessità, e di conseguenza gli interi interessi e ragioni di vita della specie umana, è in grado di progettare un disegno che non si fermi agli impulsi biologici ed economici, ma, partendo da essi, senza misconoscerli, anzi facendo realisticamente leva su di essi, sia capace di visione storica generale.
Il Partito della classe operaia è consapevole del sistema di relazioni che lega l’essere umano alla natura, secondo un legame che le religioni hanno chiamato Dio, fino al punto di personalizzarlo proprio perché l’uomo rifiuta di vivere senza proiettare intorno a sé e oltre sé la sua somiglianza e il suo desiderio di plasmare il mondo secondo le sue necessità.
La funzione del Partito è essenzialmente quella di mantenere intatto il Programma che nessuno ha inventato con la sua testa, né capo né profeta, ma è scritto in lettere di fuoco nella storia della liberazione della classe degli sfruttati di oggi e di tutti i tempi. Il Partito, nella sua funzione essenziale di oggi, è chiamato a restaurare l’organo rivoluzionario: non si tratta dunque semplicemente di prevedere e tener vivo il senso dell’avvenire, ma di operare, nell’ambito delle concrete possibilità storiche, perché nessuna lotta, nella direzione del comunismo, anche se limitata, venga dispersa.
Contro ogni facile esasperazione volontaristica, esso è consapevole che il transito verso il regime sociale della libertà umana non è segnato soltanto dalle grandi tappe e dai grandi momenti, ma anche dagli oscuri movimenti che li preparano. È questo un compito al quale non può sottrarsi, pena la compromissione del risultato. Tale impegno può essere assolto non tanto attraverso la ripetizione di stanchi rituali, ma con l’adesione pratica alle necessità che maturano, senza cedimenti, senza compromessi sui principi, senza scorciatoie di comodo. La morale del militante sta in questo, nella accettazione del compito storico che la realtà gli consegna, sia essa esaltante e costellata di vittorie, oppure oscura e disseminata di scarsi risultati, quale è il contingente momento.
Dopo i rovesci ed i tradimenti, è sufficiente che ci siano dei RIMANENTI FEDELI al programma perché l’avvenire abbia ancora un senso? Noi sosteniamo da sempre che questa è la condizione minima, senza la quale saranno senza esito le lotte che inevitabilmente riprenderanno, a causa dell’anarchia del modo di produzione capitalistico.
Se ci si illudesse che le forze della storia agiscano per moto proprio e siano in grado di perseguire automaticamente l’obiettivo, cadremmo nel più imbelle economicismo. Noi sosteniamo che la Storia non può svolgersi senza un piano cosciente, che esso rimane valido e continua ad agire in virtù di chi rimane fedele al programma, nonostante i bassi e gli alti dell’andamento storico. Il Partito, anche quando ridotto al minimo storico, è il solo lievito che continua ad agire nella massa, contro ogni incredulità ed idolatria che imperversa nella classe.
È noto che il Partito non trae origine dalle lotte statistiche della classe, e che è invece parallelo ed esterno ad esse. I militanti sono coloro che restano ancorati al programma, e misurano il compito storico non sulla breve vita d’ognuno, ma sulla impersonalità del progetto.
PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALE
http://www.international-communist-party.org/ItalianPublications.htm
LA NOSTRA SIMPATIA AI LUDDISTI
nytimes.com
Nel 1786, alcuni tessitori di Leeds, un centro industriale dove si lavorava la lana- nel nord dell’Inghilterra, cominciarono una protesta contro il crescente utilizzo delle macchine per “cardare la lana”, che si stavano usando sempre di più per svolgere un lavoro che fino allora aveva sempre fatto una manodopera qualificata. “Come faranno quegli uomini, che sbattono fuori dal lavoro a dar da mangiare alle loro famiglie?” – chiedevano quelli che protestavano:
“E che lavoro dovranno insegnare ai loro figli ?”
Quelle non erano domande stupide.
E’ vero che alla fine la meccanizzazione – in un paio di generazioni – portò ad un notevole miglioramento del tenore di vita degli inglesi. Ma non è mai stato assolutamente chiaro quanti furono quei lavoratori specializzati che, improvvisamente si trovarono senza sapere come guadagnarsi la vita e che, nelle prime fasi della rivoluzione industriale, rimasero colpiti da questo processo. Spesso i lavoratori che ne soffrirono di più furono proprio quelli che, con fatica, avevano acquisito delle competenze preziose, che poi improvvisamente si rivelarono svalutate.
Fino a poco tempo fa, un buonsenso convenzionale sugli effetti che la tecnologia poteva aveva sui lavoratori era, in un certo senso, rassicurante. Certo, molti lavoratori non sono mai stati completamente convinti – e, in molti casi non ne erano convinti affatto – dei benefici che avrebbero ricevuto dall’aumento della produttività, anche perché stavano vedendo che la maggior parte dei guadagni andava solo verso una minoranza di quelli che lavoravano. Ma questo, per come è andata la storia, è successo perché la tecnologia moderna stava spostando la domanda su lavoratori altamente istruiti, riducendo la domanda di lavoratori meno istruiti. Quindi la soluzione era “più istruzione”.
Ma ci sono sempre stati problemi a capire bene questa storia. In particolare, mentre si potrebbe dare una spiegazione al divario salariale che aumentava tra i lavoratori che avevano un diploma di scuola superiore e quelli che non avevano un diploma, resta molto più difficile spiegare perché solo un piccolo gruppo – il famoso “uno per cento” – sta, generalmente, aumentando i propri guadagni in modo sproporzionato, anche rispetto ai lavoratori altamente istruiti.
Ma per questa storia forse avremmo potuto fare qualcosa una decina di anni fa.
Oggi, comunque, sta emergendo un quadro molto più oscuro sugli effetti che sta portando la tecnologia sul lavoro. In questo quadro, i lavoratori maggiormente istruiti, come anche quelli con minor istruzione rischiano di trovarsi espulsi e svalutati, e la volontà politica di insistere per creare una classe lavoratrice con una istruzione maggiore potrebbe creare tanti problemi quanti ne potrebbe risolvere.
Avevo accennato sopra che in America la natura di queste disuguaglianze è cambiata intorno al 2000, infatti fino ad allora, il sistema permetteva di scegliere un lavoratore piuttosto che un altro, come distribuire il reddito tra lavoro e capitale – tra salari e profitti – e tutto era rimasto stabile per decenni. Da allora, però, la fetta del lavoro nella divisione della torta del capitale è diventata molto più piccola e da quello che si può vedere, questo non è un fenomeno tipicamente americano.
Un nuovo rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro mette in evidenza che la stessa cosa sta accadendo in molti altri paesi, cosa, del resto. che tutti si aspettavano visto il verso che stavano prendendo le tendenze tecnologiche nei confronti dei lavoratori in tutto il mondo.
E qualcuno di questi cambiamenti radicali potrebbe arrivare all’improvviso. Il McKinsey Global Institute ha recentemente pubblicato un rapporto su una dozzina di nuove importanti tecnologie che probabilmente potranno avere un effetto “dirompente”, e capace di sconvolgere sia il mercato che gli attuali assetti sociali. Anche solo con una rapida occhiata alla lista del rapporto si può capire che alcune delle vittime del disfacimento del sistema saranno i lavoratori che sono attualmente considerati altamente qualificati e che hanno investito molto del loro tempo e del loro denaro per acquisire una professionalità. Ad esempio, il rapporto indica che ci si sta avviando verso una alta “automazione del lavoro della conoscenza”, per mezzo di software, capace di fare cose che prima richiedevano il lavoro di laureati. La robotica avanzata potrebbe far diminuire ulteriormente l’occupazione nel settore manifatturiero ma potrebbe anche sostituire il lavoro di alcuni medici specializzati.
E allora basterà che i lavoratori si preparino semplicemente ad acquisire altre e nuove competenze? I lavoratori della lana di Leeds del 18° secolo si erano già posti la stessa domanda nel 1786: “Chi manterrà le nostre famiglie, mentre noi affronteremo l’arduo compito di imparare un nuovo mestiere?”
Ma si chiesero anche “Che cosa accadrà se il lavoro nuovo che impareremo, sarà svalutato ancora per l’arrivo di altre macchine e altra tecnologia?”
E le controparti moderne di quei lavoratori della lana potrebbero anche chiedersi qualcosa di più “Che succederà se – come già fanno tanti studenti – continueremo tutti ad indebitarci per acquisire le nuove conoscenze che – ci è stato detto – serviranno a farci lavorare e poi ci diranno che quello che abbiamo imparato a fare non serve più per far funzionare l’economia?”
L’istruzione, quindi, non è più la risposta giusta alla crescente disuguaglianza, se mai lo sia stata (cosa di cui dubito).
Allora, qual è la risposta?
Se il quadro che ho disegnato è giusto, l’unico modo in cui potremmo vivere in qualcosa che assomigli a una società borghese – una società in cui i cittadini comuni abbiano una ragionevole certezza di mantenere un livello di vita dignitoso, lavorando molto e rispettando le regole – dovrebbe fondarsi su un sistema forte di sicurezza sociale, che non solo garantisca l’assistenza sanitaria a tutti, ma anche un reddito minimo.
E considerando che una quota sempre crescente del reddito andrà al capitale, piuttosto che al lavoro, quel sistema di sicurezza sociale dovrebbe essere pagato in misura importante dalle imposte sui profitti e/o sui redditi da capitale.
Sento già le urla dei conservatori che protestano contro quel diavolo della “redistribuzione”. Ma, esattamente, loro che avrebbero da proporre ?
Paul Krugman
Fonte: http://www.nytimes.com
Link: http://www.nytimes.com/2013/06/14/opinion/krugman-sympathy-for-the-luddites.html
12.06.2013
Traduzione per http://www.ComeDonChisciotte.org a cura di BOSQUE PRIMARIO
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Un video molto suggestivo, grazie, ma spero che il futuro dell’agricoltura sia ben altro: la regola numero 1 deve essere NON ARARE (oltre a non concimare, no antiparassitari chimici, no veleni, no diserbi chimici ecc ecc).
https://www.youtube.com/watch?v=duG4DcrhkAU
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