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Quei 100.000 km quadrati, quelle 770 parrocchie insorte, quegli 800.000 abitanti “non hanno alcuna caratteristica distintiva comune”. Appartengono a province diverse, obbediscono ad abitudini diverse, non hanno avuto una storia comune; la Vandea è, pertanto, nata da un rifiuto.
La rottura si consuma il 12 luglio 1790, con la proclamazione della Costituzione civile del clero, clero tenuto in grande stima dal popolo per la sua onestà ed il suo eroismo. La caduta di fiducia e il conseguente rifiuto di qualsiasi dialogo induce le autorità a degenerare in misure vessatorie, moleste, arbitrarie e talvolta violente.
L’insurrezione scoppia nel marzo 1793, in occasione di una nuova massiccia coscrizione obbligatoria, urgente per la pressione esterna di austriaci e prussiani. In un brevissimo spazio di tempo e in modo spontaneo la Vandea insorta è in grado si schierare un’armata efficace non solo in azioni di guerriglia, ma anche di inquadrarsi in campo aperto; un esercito che per lungo tempo ha il sopravvento sull’armata rivoluzionaria dell’ovest, suscitando l’ammirazione non solo di Napoleone ma anche di Tureau. Ma alla fine la sproporzione delle forze in campo ne ha ragione e tra ottobre e dicembre si consuma la disfatta. Eppure la Vandea vinta non è ancora “convertita”.
Il nuovo regime è consapevole di correre un grave pericolo e ad esso è proporzionata la repressione. Il 17 gennaio 1794 il generale Tureau ordina la distruzione totale della regione con le parole “Libertà, fraternità, uguaglianza, o morte”. Percorsa dalle “colonne infernali” la Vandea conosce così un terribile genocidio, che durerà fino al 27 luglio 1794.
Ci si trova di fronte al primo genocidio ideologico della storia.
Quando si studia la Rivoluzione Francese si nota subito un certo stridore tra il tono entusiasta e gioioso dei libri nel raccontare i fatti, e i fatti stessi; ci si chiede come fosse possibile parlare di giudizi sommari, teste mozzate, cadaveri ammucchiati e soprusi di ogni genere, come si fosse trattato di una grande festa nazionale in cui tutti si volevano un gran bene.
“E la violenza, le stragi, gli orrori”?Mi si spiegò che si trattava di “cattivi”, gente che se lo meritava, traditori, mangiapane a tradimento nel migliore dei casi, persone da eliminare, insomma.Sconcertante.Ed è ancor più sconcertante, a mio parere, che questo sia, in fondo, il pensiero che a tutt’oggi molti continuano ad avere nei confronti di un evento storico sì di fondamentale importanza per quella che sarebbe divenuta l’Europa moderna, ma al tempo stesso totalmente antitetico nei fatti e nella pratica a quei medesimi principi di libertà, uguaglianza e fraternità che propugnava, ma che per primo tradì, e nel peggiore dei modi.
Eppure questo non si dice quasi mai, o al massimo si sussurra con un certo timore, come se si trattasse di qualcosa di marginale o poco rilevante o addirittura necessario ad imporre le nuove idee.
Ecco il punto, imporre.
Quasi tutti gli uomini, le donne e persino i bambini ghigliottinati durante il Terrore, erano innocenti sulla cui testa non pendeva alcun reato, tranne quello di avere delle idee e di volerle osservare e perseguire anche se contrarie a quelle che si volevano loro imporre dall’alto.
Nessuno dei capi rivoluzionari cercò mai il dialogo o una parvenza di discussione con coloro che, ed erano tanti, non condividevano quei principi che avrebbero finito per cambiare il volto alla Francia e non solo, preferirono torturare, massacrare, eliminare senza distinzioni e senza pietà ogni “ostacolo”, usando valori sacrosanti e pienamente condivisibili a pretesto delle nefandezze perpetrate contro cittadini inermi e avversari politici.
I capi rivoluzionari non erano affatto filantropi, ma astuti, ambiziosi e sanguinari despoti, abilissimi nello sfruttare il legittimo malcontento popolare per fini non solo puliti e non solo universali; gli oppositori, i nemici, i “cattivi” da togliere di mezzo erano, in fondo, tutti coloro che stavano dall’altra parte, quelli che osavano dissentire, uomini e donne di idee diverse, magari antitetiche, ma non per questo senza ragione di esistere.
Ho sempre pensato che l’orrore, l’arbitrio e il sopruso non abbiano colore politico, e purtroppo non esiste schieramento, bandiera, ideologia o istituzione che, nel corso della Storia, non si sia macchiata di gravi crimini. Compresi i rivoluzionari francesi.
La Vandea era una regione occidentale in cui vigeva una società prettamente contadina, cristiana e realista; la miccia che portò allo scoppio della guerra civile fu la ribellione dei vandeani nei confronti di uno Stato che aveva continuamente bisogno di reclutare dalle campagne giovani da mandare al fronte, che così venivano tolti alle famiglie e al lavoro dei campi, messo già a dura prova da tasse inique e continue carestie.
Combattendo sotto l’insegna del Sacro Cuore, i vandeani, coraggiosi e idealisti ma inferiori per numero ed equipaggiamento, furono letteralmente massacrati dalle “fraterne” truppe parigine, finché non ne rimasero stramazzati al suolo oltre 117.000.
A colpire non è solo il numero impressionante di vittime, ma anche i metodi di sofisticata e inaudita crudeltà usati per uccidere: gruppi di persone vennero legate e imbarcate su zattere fatte in seguito affondare, altri furono gettati dalla sommità delle mura cittadine.Roba da fare invidia ai peggiori nazisti.
Il Professor Pierre Chaunu, una delle autorità per la storia moderna, membro dell’Institut de France cosi’ riassume gli avvenimenti
Il popolo si ribellò per difendere la sua fede. Il Direttorio voleva imporre la coscrizione militare obbligatoria (è una loro invenzione perché fino ad allora solo i nobili andavano a far la guerra e per il tributo del sangue erano esonerati dalle tasse). Nello stesso giorno chiudono tutte le, loro chiese. I contadini vandeani si sono ribellati: allora tanto vale morire per difendere la nostra libertà. Hanno imposto ai nobili, assai refrattari, di mettersi al comando dell’esercito cattolico di Vandea e sono andati al massacro, perché sproporzionata era la loro preparazione al confronto di quella dell’esercito di Clébert. Così la Vandea è stata schiacciata senza pietà. Ma vorrei ricordare che sotto le insegne del Sacro Cuore combatterono anche dei battaglioni dei paesi protestanti della Vandea. Cattolici, protestanti ed ebrei affrontarono insieme la ghigliottina, per esempio a Montpellier, per difendere la libertà.
Questo è il capitolo più orrendo. Nel di cembre 1793 il governo rivoluzionario d ordine di sterminare la popolazione dell 778 parrocchie: “Bisogna massacrare le donne perché non riproducano e i bambini perché sarebbero i futuri briganti”. Questo scrissero. Firmato dal ministro della Guerra del tempo Lazare Carnot. Il generale Clébert si è rifiutato di eseguire quell’ordine: “Ma per chi mi prendete? Io sono un soldato non un macellaio”. Allora hanno mandato Turreau, un alcolizzato, con un’armata di vigliacchi.
Nove mesi dopo il generale Hoche, nominato comandante, arrivò in Vandea. Restò inorridito. Scrisse una lettera memorabile e ammirabile al governo della Convenzione: “Non ho mai visto nulla di così atroce. Avete disonorato la Repubblica! Avete disonorato la Rivoluzione! Io porto alla vostra conoscenza che a partire da oggi farò fucilare tutti quelli che obbediranno ai vostri ordini…”. Cosa aveva visto? 250.000 massacrati su una popolazione di 600.000 abitanti, paesi e città rase al suolo e bruciate, donne e bambini orrendamente straziati. A Evreux e a Les Mains si ghigliottinavano a decine colpevoli solo di essere nati a Fontaine au Campte.
Questo fu il genocidio vandeano.
Sandro Pasquino
www.famigliacattolica.blogspot.com
http://www.losai.eu/il-genocidio-della-vandea/
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Il governo che non pagava i creditori. In Francia, 1789
Segnalazione di Luciano Gallina
di Maurizio Blondet
da http://www.effedieffe.com – 10 Giugno 2013
Alexis De Tocqueville pubblicò nel 1856 il suo magistrale saggio «L’Antico Regime e la Rivoluzione», dove mostra come «la rivoluzione francese sia nata da ciò che precede», ossia dalla sgangherata inefficienza, corruzione ed inetto accentramento dell’amministrazione statale della monarchia, che portò al rovesciamento violento della monarchia stessa. In una occasionale rilettura, trovo stupefacenti punti di contatto fra l’Ancien Régime e i vizi del regime italiano attuale, il sistema di potere dei parassiti pubblici. Eccone alcuni passi:
Pagamenti ai privati
«Durante i regni che seguirono quello di Luigi XIV, l’amministrazione insegnò ogni giorno al popolo, in modo più pratico e alla sua portata, il disprezzo della proprietà privata. (…) La Direzione dei Ponti e delle Strade aveva già allora quell’amore per la bellezza geometrica della linea retta che ebbe a dimostrare in seguito [nella Rivoluzione illuminista, ndr]; evitava le strade già tracciate per poco che le sembrassero curve, e piuttosto che fare una curva, tagliava in mezzo mille proprietà. Queste, così devastate, erano sempre risarcite arbitrariamente e in ritardo: spesso non erano pagate affatto».
«L’assemblea provinciale della Normandia (…) constatò che il prezzo di tutte le terre espropriata d’autorità da vent’anni per le strade, era ancora da pagare. Il debito così contratto e non ancora saldato dallo Stato in quell’angolo di Francia ammontava a 250 mila livres. Grande era il numero dei piccoli proprietari danneggiati, perché la terra era già molto suddivisa. Ciascuno di loro aveva imparato per esperienza propria che il diritto dell’individuo merita pochi riguardi quando la volontà pubblica esige che sia violentato, e non dimenticò questa dottrina quando si trattò di applicarla agli altri» (allusione agli espropri della dittatura giacobina).
Italia 2013: «Il debito totale delle amministrazioni verso le imprese ammonta a 90 miliardi, per il governo. Ma questa cifra viene da una ad una indagine incompleta della Banca d’Italia effettuata solo sulle imprese aventi più di 20 impiegati. In realtà il debito dello Stato oscillerebbe tra i 120 e i 130 miliardi effettivi. L’amministrazione ammette di non conoscere esattamente l’importo, molte Regioni e Provincie non hanno contabilizzato bene i loro debiti verso i privati. Il governo Monti promette di sbloccare 40 miliardi; alla fine vengono sbloccati 3,5 miliardi per pagare i debiti; ma le imprese devono affrettarsi a presentare la documentazione… entro aprile. Da gennaio a marzo, 4218 imprese hanno dovuto chiudere i battenti».
Giustizia
Tocqueville: «Nessun insegnamento fu più pernicioso che certe forme adottate dalla giustizia penale quando si trattava del popolo. Il povero, se aveva a che fare con lo Stato, trovava soltanto giudici prevenuti, procedure illusorie e sentenze esecutive… Dai verbali della gendarmeria si vede (…) come si arrestassero i contadini indiziati. Spesso l’uomo così arrestato rimaneva a lungo in prigione prima di poter parlare al giudice, sebbene gli editti dicessero che l’arrestato doveva essere interrogato entro le 24 ore. Così un governo mite insegnava ogni giorno al popolo il codice di procedura penale più adatto alla rivoluzione e più comodo per la tirannia».
«È vero che in questa monarchia del 18° secolo, se le forme erano spaventose, la pena era quasi sempre temperata. Si preferiva far paura più che far del male; o piuttosto, si era arbitrari e violenti per abitudine e per indifferenza, e miti per indole. Ma per tal modo, l’amore di questa giustizia sommaria non faceva che affermarsi meglio: la mitezza della sentenza nascondeva l’orrore della procedura».
Italia 2013: «Il 4°%, ovvero 30 mila detenuti, sono in carcere per custodia cautelare, e secondo le statistiche del ministero la metà di loro verrà dopo anni estenuanti di processo, dichiarata innocente». Vi sono casi di carcerazione preventiva durati 13 anni.
«Riforme» devastanti
«Luigi XVI [finito sulla ghigliottina, ndr] durante tutto il suo regno parlò di riforme da fare. Poche sono le istituzioni di cui non abbia fatto prevedere prossima la rovina prima che la Rivoluzione le abbattesse in realtà. (…) Fra le riforme fatte da lui stesso alcune cambiarono, bruscamente e senza preparazione bastevole, le abitudini rispettate e violentarono i diritti acquisiti».
«…Un anno prima della Rivoluzione, un editto del re aveva completamente rovesciato in ogni sua parte l’ordine della giustizia: molte giurisdizioni nuove erano state create, moltissime abolite, tutte le regole della competenza cambiate (…) i querelanti, in mezzo a quella rivoluzione giudiziaria, stentavano a trovare la legge da applicare al loro caso e il tribunale che doveva giudicarli. Ma fu soprattutto la riforma radicale dell’amministrazione propriamente detta nel 1787 che, dopo aver portato il disordine negli affari pubblici, turbò i cittadini fin nella loro vita privata».
«Al momento in cui scoppiò la Rivoluzione, quella parte del governo che, sebbene subordinata, si fa sentire tutti i giorni ad ogni cittadino ed influisce più efficacemente e più continuamente sul suo benessere, era stata del tutto sconvolta: la pubblica amministrazione aveva di colpo cambiato tutti i suoi agenti e rinnovato tutte le sue massime. Ogni francese s’era trovato scosso nella sua condizione, turbato nelle sue abitudini, ostacolato nella sua industria».
Italia 2013: le continue «riforme», della scuola, delle pensioni, di tutto un po’ proclamate dai successivi governi, e quasi sempre mal cotte. Le riforme vanamente annunciate: della Costituzione, del parlamento, del sistema elettorale, della «giustizia». Le riforme della pubblica amministrazione, sempre silurate dai parassiti pubblici (i capi della PA). Le riforme Fornero sul lavoro; sulla previdenza sociale che ha violentato i diritti acquisiti di milioni di cittadini. Le «riforme» annunciate dal governo Letta. Eccetera.
Tassazione
«Nel quattordicesimo secolo, la massima “non tassare chi non accetta” [no taxation without representation, ossia non approvata da assemblee dei cittadini, ndr] era saldamente stabilita in Francia così come in Inghilterra. Oso affermare che il giorno in cui la nazione (…) permise al re d’imporre senza il suo concorso una imposta generale, e la nobiltà ebbe la viltà di lasciar tassare il Terzo Stato (borghesi) quel giorno fu posto il seme di quasi tutti i vizi e tutti gli abusi che hanno travagliato l’Ancien Régime per tutta la sua esistenza, e hanno finito per causarne la fine violenta».
«(…) Il gettito delle tasse mal ripartite aveva un limite, i bisogni de re non ne avevano. Tuttavia essi non volevano né convocare gli Stati [le assemblee delle classi di cittadini, ndr] per ottenere sussidi, né, tassandola, costringere la nobiltà a reclamare la convocazione di queste assemblee. Da ciò ebbe origine quella prodigiosa e malefica fecondità dello spirito finanziario [la creatività inventiva di sempre nuovi balzelli, ndr] che distingue così particolarmente l’amministrazione del denaro pubblico durante gli ultimi tre secoli della monarchia (…) Ad ogni passo, negli annali, si trovano beni regi venduti e poi risequestrati come invendibili; contratti violati, diritti acquisiti misconosciuti, il creditore dello Stato sacrificato ad ogni crisi; la fede pubblica ingannata. [Luigi XIV, il Re Sole, ndr] stornava i fondi destinati ad altri scopi. (…) In pieno Rinascimento, si immaginò di considerare il diritto al lavoro come un privilegio che il re poteva vendere. Lo Stato istituì le comunità industriali solo per trarne una rendita, sia dai brevetti [autorizzazioni, registrazioni cui ci si doveva sottomettere per produrre alcunché, ndr] che vende, sia dai nuovi impieghi che crea» (…) Si sconvolgeva tutta la costituzione delle città non già con mire politiche [di abbassarne l’autonomia, ndr], ma nella speranza di trarne qualche introito all’erario. Da questo bisogno di denaro, unito al desiderio di non domandarne agli Stati, nacque la venalità delle cariche (…)».
«Non temo di affermare che qualunque privato avesse amministrato il proprio patrimonio nel modo in cui il Gran Re amministrava quello pubblico, non sarebbe potuto sfuggire ai giudici».
«Bisogna studiare nei dettagli la storia amministrativa e finanziaria dell’antico regime per capire a quali pratiche violente e disoneste il bisogno di denaro possa ridurre un governo tutto sommato mite, ma non soggetto all’opinione pubblica e senza controlli [contrappesi, ndr] quando il tempo ha consacrato il suo potere e lo ha liberato dalla paura della rivoluzione, ultima salvaguardia dei popoli».
Italia 2013: A me sembra molto simile alla Francia del 1788, un anno prima della Rivoluzione. Non so a voi.
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Il massacro dei Lumi come quello del Regno delle Due Sicilie
Il Foglio 18 Marzo 2013
La Vandea è nomen omen del massacro di innocenti, al pari della notte di San Bartolomeo, di Guernica, di Srebrenica. Eppure in Francia, a distanza di oltre due secoli, la Vandea resta uno scandalo difficile da maneggiare. La parola «Vandea» fino a pochi anni fa era sinonimo di cattolico reazionario. Sono i «chouans», gufi maledetti. Baciapile, nemici della Rivoluzione, servi dei nobili, sanguinari.
Di Vandea si è tornati a parlare in Francia, in Parlamento, sui giornali e sugli schermi televisivi. L’Ump, il partito di opposizione, ha presentato in Assemblea nazionale un disegno di legge che ha lo scopo di riconoscere il «genocidio vandeano», che ebbe luogo, a più riprese, tra il 1793 e il 1796 per opera delle truppe rivoluzionarie di Robespierre nei confronti degli abitanti della regione contadina della Vandea. I sostenitori della tesi del genocidio parlano di una «congiura del silenzio», in cui la politica e la storiografia avrebbero cospirato perché cadesse nell’oblio il grande sacrificio dei vandeani, colpevoli di aver difeso le loro convinzioni religiose contro il nuovo potere ateo e giacobino. Le «colonne infami» repubblicane compirono spietati massacri contro i vandeani, lasciando sul terreno dai duecentocinquanta ai trecentomila morti.
«Se approvasse la proposta sul genocidio, la Repubblica accetterebbe per la prima volta di guardarsi allo specchio», ha scritto sulla rivista Causeur lo storico Frédéric Rouvillois. «Per la prima volta riconoscerebbe il terribile delitto che ha segnato l’inizio della propria storia». Di parere opposto lo storico della Rivoluzione francese, Jean-Clément Martin: «I crimini sono crimini, ma manca la logica». Significa che i vandeani non furono sterminati in quanto tali, ma sono stati vittime di una guerra civile. Lo spiega così Alain Gerard: «La Rivoluzione non poteva ammettere che il popolo si ribellasse contro di lei. Per questo la Vandea doveva scomparire».
La tesi del genocidio è stata portata avanti da Reynald Secher, uno dei maggiori storici delle guerre vandeane, secondo il quale «quelle rappresaglie non corrispondono agli atti orribili, ma inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce guerra, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un popolo, di preferenza donne e bambini» («Il genocidio vandeano», EFFEDIEFFE Edizioni, 1989).
La Vandea oggi è mito e tabù, tanto che il massacro alla chiesa di Petit Luc a Roche sur Yon viene accostato a quello nazista di Oradour nel 1944. Il leader della gauche militante Jean-Luc Mélenchon ha protestato vivacemente per un programma televisivo andato in onda su France 3, dove Robespierre viene chiamato «il boia della Vandea» (le bourreau de la Vendée). Anche il settimanale Nouvel Obs attacca il documentario di Frank Ferrand, in cui le armate giacobine vengono accostate alle Einsatzgruppen naziste.
I preti che insorgono in Vandea erano chiamati «corvi neri». Scortate da gendarmi mal vestiti, con la coccarda tricolore sui cappellacci, le carrette della Rivoluzione erano cariche di questi preti refrattari detti «insermentés», quelli che non hanno giurato, che hanno mantenuto fedeltà all’autorità del Pontefice, cancellata per decreto. Georges Jacques Danton avrebbe voluto fare un mazzetto di tutti i preti refrattari su cui si riusciva a mettere le mani, imbarcarli a Marsiglia e scaricarli da qualche parte sulle coste dello stato della chiesa, come una trentina di anni prima Sebastiào José de Carvalho y Melo, marchese di Pombal, illuminato primo ministro dell’illuminato re Giuseppe I, aveva tentato di fare con i gesuiti espulsi dal Portogallo.
Tutti i libri in latino, fossero pure i «Colloqui» di Erasmo da Rotterdam, finirono nel fuoco. I preti nella trappola di Rochefort furono più di quattrocento. Nelle loro ciotole di legno la Rivoluzione versò solo carne putrida, merluzzo andato a male, malsane fave di palude. L’acqua era infetta. A chi ne chiedeva di più, i fidati seguaci della Dea Ragione rispondevano di servirsi pure, mostrando a dito l’oceano. Vi furono presto casi di delirium tremens, di follia. In poche settimane fu un’ecatombe di sacerdoti. I guardiani abbandonarono la nave. I morti venivano scaraventati in mare o seppelliti nella palude. Per non sbagliare qualcuno venne sepolto mentre ancora respirava.
In Vandea la guerra non ebbe un centro, ma era dappertutto, perché ovunque vi fosse un vandeano, fanciullo o adulto, uomo o donna che fosse, là per la Repubblica si trovava un «soldato nemico». Nessuna delle regole dell’antica arte militare fu rispettata in quella guerra, perché fu la «prima guerra moderna», in cui dei civili si fece carne da macello. In Vandea le armi principali furono le preghiere nelle chiese solitarie, le corone di rosario agli occhielli, i «sacri cuori» cuciti agli abiti, le processioni e le riunioni nei boschi, i giuramenti di rifiutarsi al reclutamento, i racconti dei miracoli, fu la rivolta di tutto un popolo, in cui le congiure erano nascoste dietro l’altare di ogni borgo contadino. I sacerdoti officiarono nelle brughiere e nelle paludi. Per primi s’armano i contadini. Mentre altrove in Francia sono state le classi superiori ad avere spinto il popolo, nella Vandea cristianissima è il popolo a incitare le classi superiori.
A dispetto di certa storiografia, i contadini della Vandea non erano monarchici più di altri, non furono supini sostenitori dell’Ancien Régime. Erano profondamente cattolici. L’origine di questa fedeltà vandeana alla chiesa ebbe radici antiche, affonda in un passato di simpatie calviniste e nell’opera di catechizzazione dei missionari della Compagnia di Maria e delle Figlie della Saggezza.
Il generale vandeano era un venditore ambulante. Si chiamava Jean Cathelineu, per tutti «il santo d’Anjou». È intento a impastare il pane, quando sente la voce che gli comanda di alzarsi e mettersi a capo di questa guerra santa. Guida una folla armata di falci, bastoni e pochi fucili, in cui le donne, nei campi e nei boschi, pregano in ginocchio per la vittoria dei loro mariti e figli. Da ogni angolo della regione si leva un augurio che è un grido di odio verso i giacobini e il loro ateismo. I vandeani conquistano le città e poi le abbandonano. La facoltà di dissolversi e ricomporsi è la loro forza e la loro debolezza. Guidati dal santo di Anjou attraversano a decine di migliaia la Loira per liberare Nantes, per coinvolgere nella loro guerra i fieri «chouans» realisti della Bretagna.
Papa Karol Wojtyla ha beatificato, durante il suo pontificato, 164 di questi «martiri» della Rivoluzione francese. Nel corso di una controversa visita in Vandea, pronunciò un discorso ben lontano dal revanchismo. Nel rendere onore ai vandeani caduti nell’impari lotta contro le armate illuministe, Giovanni Paolo II sottolineò la loro testimonianza di fede, ma trascurò, se non addirittura condannò, il senso politico della controrivoluzione. Forzando un po’ la storia, il Papa affermò che anche i vandeani «desideravano sinceramente il necessario rinnovamento della società», circoscrisse alla difesa della libertà religiosa la loro ribellione, non tacque i «peccati» di cui anch’essi si erano macchiati nell’asprezza della lotta (sanguinose furono le rappresaglie vandeane contro i rivoluzionari).
Anche nella chiesa cattolica ci sono opinioni differenti sulla Vandea. Padre Giuseppe De Rosa sulla Civiltà Cattolica ad esempio ha scritto che la guerra di Vandea di due secoli fa andrebbe guardata con maggiore «spirito critico», senza farne una «bandiera» e, tanto meno, il «simbolo dell’autentico cristianesimo». Di diverso avviso l’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, secondo il quale «in quanto è avvenuto in Vandea trovano le loro premesse le stragi che hanno insanguinato l’intero XX secolo in nome o di un assurdo ideale di giustizia, di un’aberrante esaltazione di una nazione o di una razza, o di un egoismo mascherato da civile comprensione».
La Vandea come preludio di Auschwitz, del Ruanda, del Gulag. Lo storico della Rivoluzione francese Jules Michelet parla così dei vandeani: «Ci imbattiamo in un popolo sì stranamente cieco e sì bizzarramente sviato che si arma contro la Rivoluzione, sua madre. Scoppia nell’ovest la guerra empia dei preti». Anche un figlio dei Lumi come Andrè Glucksmann ha definito la Vandea «la prima Glasnost dopo giorni del Terrore».
È la rivelazione del male compiuto da Robespierre. E anche Jean Tulard, docente all’Università Paris IV ed esperto di Vandea, paragona le azioni dei giacobini agli eccidi ordinati da Stalin. Gli storici non amano i paragoni con l’Olocausto. Ma della Vandea parlano come di un «popolicidio», mentre a lungo storici marxisti hanno letto la guerra di Vandea come una guerra della borghesia centralizzatrice delle città contro il popolo contadino.
Varrà la pena di ricordare che i vandeani sono stati sterminati con metodi non dissimili da quelli nazisti. Così si legge sul Bollettino ufficiale della nazione: «Bisogna che i briganti di Vandea siano sterminati prima della fine di ottobre. La salvezza della patria lo richiede». I vandeani sono considerati degli «ominidi», delle sottospecie di uomini, e in quanto tali non aventi diritto a un territorio.
Il nome stesso Vandea viene eliminato, deve scomparire. Si assegna un nuovo nome alla Vandea chiamandola «dipartimento Vendicato», per esprimere appunto questa volontà di ripopolare quella parte di Francia un tempo abitata da «cattivi francesi».
Quello della Vandea è il primo genocidio della storia ideologica del mondo contemporaneo. Le Colonne infernali, tagliagole al comando del generale Louis Marie Turreau, devastarono la regione con feroce acribia cartesiana. Fucilazioni, annegamenti, falò di parrocchie zeppe di civili, camere a gas. C’era l’onta di un pezzo di Francia che aveva osato levarsi contro la volonté générale, ma anche il diffondersi d’idee malthusiane in una Francia attanagliata dalla fame per colpa della stessa rivoluzione. Così i giacobini concepirono, votarono all’unanimità e realizzarono l’annientamento di un gruppo umano religiosamente identificabile. Con ben due leggi, scritte e conservate negli archivi militari: il 1° agosto si decise la distruzione del territorio, degli abitati, delle foreste e dell’economia locale; il 1° ottobre si ordinò lo sterminio degli abitanti, prima le donne («solchi riproduttori») poi i bambini. Leggi in vigore fino alla caduta di Robespierre, nel luglio 1794. Tutto come Hitler prima di Hitler.
Si usò in Vandea il termine «race»: un vocabolo che, di conio illuminista (Voltaire, Buffon, l’Encyclopé die), produsse lì subito l’idea di una «race maudite» da estirpare. Bertrand Barè- re, membro del «Comité de salut public», gridava dalla tribuna: «Quelle campagne ribelli sono il cancro che divora il cuore della Repubblica francese».
Quanti furono i morti? Un vandeano su tre? Centoventimila o seicentomila, come sostiene lo storico Pierre Chaunu? «Qualsiasi rivoluzione scatena negli uomini gli istinti della più elementare barbarie, le forze opache dell’invidia, della rapacità e dell’odio», disse il grande scrittore russo Aleksandr Solzenicyn quando inaugurò a Lucs-sur-Boulogne un memoriale dedicato ai martiri del massacro perpetrato in questa piccola località dalle truppe repubblicane del generale Cordelier. In poche ore, fra il 28 febbraio e il primo marzo del 1794, furono uccise 564 persone, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni.
«Il XX secolo ha notevolmente ottenebrato l’aureola romantica della rivoluzione del XVIII secolo», disse ancora l’autore di «Arcipelago Gulag».
Nonostante le esecuzioni sommarie di Angers, nonostante le «noyades», gli annegamenti notturni a Nantes, in cui senza processo in due mesi vennero gettati nell’estuario della Loira da due a tremila tra preti «refrattari», la resistenza della Vandea non venne domata. Per vincere i vandeani, caduto il Comitato di salute pubblica, la Rivoluzione pensò di ricorrere a «la douceur», alla dolcezza. Si consigliò ai soldati dalla casacca azzurra di partecipare alle funzioni nei villaggi, di rispettare i preti e la fede della povera gente. Alla fine era la Vandea che aveva vinto, seppure da un immenso cimitero.
Al termine della guerra, il generale francese Joseph Westermann spedì una breve lettera al Comitato di salute pubblica: «Non c’è più nessuna Vandea. Secondo gli ordini che mi avete dato, ho massacrato i bambini sotto i cavalli e le donne non daranno più alla luce briganti. Non ho prigionieri. Li ho sterminati tutti». Sembra un inveramento delle parole pronunciate negli anni del Terrore dal celebre moralista Chamfort: «La Rivoluzione è un cane randagio che nessuno osa fermare».
Giulio Meotti
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Nel 1793, durante la Rivoluzione francese, si scatenò, nella terra della Vandea, il primo genocidio di Stato della storia occidentale. Il regime rivoluzionario di Parigi venne imposto con la forza nelle province di Francia ed ebbe in Vandea, la più cattolica di esse, la reazione più coraggiosa e gloriosa. I Blanchs (i vandeani) si contrapposero ai Blues (i giacobini): uniti a Dio e al Re, i contadini della Vandea, con i loro amati sacerdoti e i loro generali, si distinsero per la strenua difesa contro la dea ragione ed il principio deista dell’essere supremo; perciò, a causa del loro fermissimo Credo e della loro fedeltà monarchica, vennero massacrati. Per odio ideologico perirono, in quell’ecatombe, più di 30 mila abitanti. Tuttavia di questo evento storico o si è parlato in termini negativi per esaltare i “benefici” della Rivoluzione e del Terrore sanguinario oppure lo si è del tutto omesso dai libri di storia…
Lascia scritto Aleksandr Isaevič Solženicyn:
«Già due terzi di secolo fa, da ragazzo, leggevo con ammirazione i libri che evocavano la sollevazione della Vandea, così coraggiosa e così disperata, ma non avrei mai potuto immaginare, neppure in sogno, che nei miei tardi giorni avrei avuto l’onore di partecipare all’inaugurazione di un monumento agli eroi e alle vittime di questa sollevazione. […] gli avvenimenti storici non vengono mai compresi appieno nell’incandescenza delle passioni che li accompagnano, ma a distanza, una volta che il tempo li abbia raffreddati.
Per molto tempo ci si è rifiutati di capire di accettare quel che gridavano coloro che morivano, che venivano bruciati vivi: i contadini di una contea laboriosa, per i quali la rivoluzione sembrava essere fatta apposta, ma che la stessa rivoluzione oppresse e umiliò fino alle estreme conseguenze: e proprio contro essa si rivoltarono. […]. È stato il ventesimo secolo ad appannare, agli occhi dell’umanità, quell’aureola romantica che circondava la rivoluzione del XVIII secolo […] le rivoluzioni distruggono il carattere organico della società; quanto rovinino il corso naturale della vita; quanto annichiliscano i miglioramenti della popolazione, lasciando campo libero ai peggiori; come nessuna rivoluzione possa arricchire un Paese, ma solo qualche imbroglione senza scrupoli; come nel proprio Paese, in generale, essa sia causa di morti innumerevoli, di un esteso depauperamento e, nei casi più gravi, di un decadimento duraturo della popolazione» («Famiglia Cristiana», n. 41/1993, pp.80-81).
In Vandea si verificarono una serie di conflitti civili scoppiati al tempo della Rivoluzione francese, che videro la popolazione della Vandea e di altri dipartimenti vicini insorgere contro il governo rivoluzionario. La prima e la seconda guerra di Vandea vengono solitamente accorpate in un unico periodo che va dal 1793 al 1796. L’insurrezione ebbe inizio nel marzo 1793, quando la Convenzione Nazionale ordinò la leva obbligatoria per 300.000 uomini da inviare al fronte e proseguì per i successivi tre anni, con brevi tregue durante le feste come il Natale e la Pasqua. Il periodo più acuto degli scontri, in cui spesso gli insorti ebbero ragione delle truppe repubblicane, terminò con la vittoria di queste ultime nella battaglia di Savenay. La repressione compiuta tra l’estate del 1793 e la primavera del 1794, ad opera delle truppe repubblicane regolari e da reparti di volontari, fu assai feroce.
Tuttavia gruppi armati vandeani continuarono a combattere e una tregua vera e propria si ebbe solo nella primavera del 1795, con la pace di La Jaunaye. Questa prima guerra fu la più importante per numero di operazioni militari ed è quella a cui comunemente ci si riferisce trattando dell’insurrezione vandeana. Nondimeno lo stato insurrezionale rimase endemico nella regione e la rivolta si riaccese più volte negli anni seguenti, soprattutto nei momenti di crisi dei governi repubblicani e napoleonici. Il 24 giugno 1795 iniziò la seconda guerra di Vandea, che terminò l’anno successivo.
La terza guerra di Vandea durò solo tre mesi, dal 26 ottobre al 17 dicembre 1799, terminando con l’armistizio di Pouancé: a causa dell’instabile situazione politica, la Francia non avrebbe potuto sostenere una nuova guerra civile e per questo motivo il nuovo Governo francese preferì acconsentire alle richieste degli insorti, in modo da evitare il ritorno della monarchia, che in quel momento sembrava imminente.
La quarta guerra di Vandea iniziò nel marzo 1813, dopo la ritirata di Napoleone dalla Russia (1812) ed ebbe una pausa quando, a seguito della sconfitta dell’Imperatore a Lipsia (ottobre 1813), Luigi XVIII salì al trono, nell’aprile 1814. Dopo il ritorno al potere di Napoleone con i Cento Giorni, la guerra riprese il 15 maggio 1815 e terminò il mese successivo quando, a seguito della battaglia di Waterloo, Luigi XVIII ritornò sul trono di Francia nel giugno 1815. Il Sovrano, in segno di riconoscenza, conferì il grado di generale dei granatieri reali (un corpo militare addetto alla protezione del re) al generalissimo dell’armata vandeana Louis de La Rochejaquelein e lo stesso fece con il suo successore Charles Sapinaud, che divenne generale e fu insignito del titolo di Duca.
I vandeani iniziarono la rivolta solo dopo che il regime terroristico attuò misure repressive per il clero e aumentò le tasse per poter sostenere le spese militari. Il ripristino della monarchia rappresentava per i controrivoluzionari vandeani una soluzione per porre fine alla tragica rivoluzione.
I primi testi che trattarono del genocidio vandeano furono le memorie di alcuni dei protagonisti di quei tragici eventi: la marchesa La Rochejaquelein, Poirier de Beauvais, Joseph de Puisaye, la signora Sapinaud de La Rairie e per i repubblicani: Grouchy, Kléber, René-Pierre Choudieu, Turreau, Dumas. Il più celebre documento, del primo raggruppamento di testimoni, sono le Mémoires (1811) de Madame la marquise de la Rochejaquelein, vedova di Louis Marie de Lescure e in seguito di Louis de La Rochejaquelein, che essendo vedova di due tra i più importanti generali dell’Esercito cattolico e reale visse in prima persona tutte le guerre di Vandea, che descrive come una rivolta spontanea dei contadini per difendere il loro re e la loro Chiesa.
L’ Esercito cattolico e reale era formato da quei francesi contrari alla rivoluzione e che invece sostenevano la monarchia, in particolare era composto da contadini della cosiddetta «Vandea Militare», composta dai dipartimenti di Vandea, Loira Atlantica, Maine-et-Loire e Deux-Sèvres. I capi furono scelti tra la nobiltà francese che non era emigrata in altri Stati, per paura della cattura e della ghigliottina, ma che rimase in Francia per cercare di ristabilire la monarchia.
L’ Esercito nacque il 4 aprile 1793, in seguito alla riunione dei principali capi vandeani avvenuta a Chemillé, in seguito alla quale venne scelto come comandante in capo (che verrà chiamato «Generalissimo») Jacques Cathelineau. Da Parigi, intanto, la Convenzione, ordinò la «pulizia etnica» dei «briganti» vandeani.
I principali capi militari dell’Esercito cattolico e reale furono: Jacques Cathelineau, François-Athanase Charette de La Contrie, Charles Melchior Artus de Bonchamps, Maurice-Louis-Joseph Gigot d’Elbée, Louis Marie de Lescure, Henri du Vergier de La Rochejaquelein, Jean Nicolas Stofflet, Jacques Nicolas Fleuriot de La Fleuriais, Charles Sapinaud, Louis e Auguste du Vergier de La Rochejaquelein (entrambi fratelli di Henri de La Rochejaquelein), Charles d’Autichamps. Alcuni di questi valorosi e cattolici generali sono ricordati nella bellissima canzone di Jean Pax Méfret, Guerre de Vendée.
Il simbolo della controrivoluzione vandeana era un cuore sormontato da una croce rossa su campo bianco a simboleggiare i Sacri Cuori di Gesù e di Maria, ai quali i vandeani erano particolarmente devoti grazie alla predicazione di San Luigi Maria Grignion de Montfort; inoltre tale simbolo richiamava anche lo stemma della Vandea, anch’esso formato da due cuori rossi (quelli di Gesù e Maria) sormontati da una corona che termina con una croce e che rappresentare la regalità di Cristo. Il motto era «Dieu Le Roi» («Dio [è] il Re»).
L’odio per la profonda Fede religiosa dei vandeani fu la ragione principale della spaventosa repressione e delle stragi indiscriminate. Il Terrore si scatenò contro la Fede e contro contadini che volevano continuare a vivere del loro lavoro e dei loro valori.
Ancora oggi nelle case di Lucs-sur-Boulogne (sul fiume Boulogne), il villaggio dove la memoria è molto forte, è rimasto il simbolo della rivolta vandeana: la bandiera con il cuore e la croce. Le chiese della Vandea sono piuttosto recenti, perché i Blues, i soldati inviati dalla Convenzione di Parigi, ne bruciarono circa 800.
La chiesa più piccola di Le Lucs, chiamata «la Chapelle», sorge su un colle un po’ fuori dal paese ed è divenuta monumento storico. Qui, il 28 febbraio 1794, i soldati entrarono nella Chapelle (che sorgeva nello stesso luogo e identica a quella odierna) e spianarono i loro fucili contro più di cento uomini e soprattutto donne e bambini. Le vittime, che pregavano in ginocchio per prepararsi alla morte, vennero trucidati dai rivoluzionari. In tutto il villaggio di Le Lucs i morti furono 563, fra cui 110 bambini al di sotto dei sette anni: oggi i loro nomi sono scolpiti sulle pareti a perenne memoria de «la haine de la foi» («l’odio verso la fede»). Vicino alla Chapelle sorge un museo-memoriale, che venne inaugurato da Solzenicyn il 25 settembre 1993.
In Vandea, su 800 parrocchie circa, i preti refractaires, che cioè rifiutarono di giurare all’Assemblea costituente di Parigi, furono 768 e tutti vennero sostituiti da parroci sermentées, cioè giurati (spesso neppure regolarmente ordinati), disprezzati dai contadini vandeani. La persecuzione quotidiana dei sacerdoti veri fu la prima e reale ragione dell’esasperazione vandeana. Esiste un documento del più feroce persecutore e sterminatore giacobino, il generale Louis Marie Tourreau, nel quale sottolinea la grande autorità, presso i vandeani, dei preti non giurati e ciò per tre ragioni: integrità dei costumi, serietà della formazione dottrinale, intima conoscenza del loro gregge.
La guerra civile in Francia su larga scala ebbe inizio proprio in Vandea con l’insurrezione di Bressuire. La repressione provocò 100 morti e molti rivoluzionari staccarono le orecchie delle loro vittime per farsene coccarde.
Molte furono le vittorie a vantaggio del popolo armato di forche e falci contro le equipaggiate truppe rivoluzionarie. Nantes, strappata «ai borghesi di Parigi», fu tenuta per mesi. Ma proprio Nantes fu spesso teatro degli annegamenti delle persone, essi ebbero inizio alla fine del 1793 e continuarono fino alla primavera del 1794. Responsabile fu soprattutto Jean-Bptiste Carrier, inviato dalla Convenzione di Parigi a praticare la «soluzione finale» del problema vandeano. Le prime tre cosiddette noyades furono rivolte esclusivamente ai preti refractaires (250 circa). Gli storici calcolano che gli annegati furono circa 8000. Quando Carrier tornò a Parigi, dopo gli eccidi, la Convenzione per togliersi la responsabilità dei massacri decise di tagliargli la testa sotto Madame Guillotine.
Il generale Tourreau, invece, mise a ferro e fuoco la regione vandeana da nord a sud e da est ad ovest: i villaggi venivano circondati, la gente radunata e trucidata, infine i soldati incendiavano case ed edifici. Chiaro l’obiettivo: l’olocausto del popolo vandeano era accompagnato alla distruzione di tutto. Scriveva la «Gazette Nationale» riportando la seduta del 17 febbraio 1794: (trascitta il 19, p. 503): «si tratta di spazzare con il cannone il suolo della Vandea e di purificarlo con il fuoco». Ha spiegato il grande storico del genocidio vandeano Reynald Secher: «Queste rappresaglie non corrispondono dunque agli atti orribili, ma inevitabili, che si verificano nell’accanimento dei combattimenti di una lunga e atroce, ma proprio a massacri premeditati, organizzati, pianificati, commessi a sangue freddo, massicci e sistematici, con la volontà cosciente e proclamata di distruggere una regione ben definita e di sterminare tutto un popolo, di preferenza donne e bambini» (R. Secher, Il genocidio vandeano, Effedieffe Edizioni, Milano 1989, p. 306) per sterminare una «razza maledetta», termine ripreso da tutti i rivoluzionari, una razza ed una terra considerate irrecuperabili, perciò: «La guerra finirà solo quando non vi sarà più un abitante su questa terra disgraziata» (Archivio storico dell’esercito, B. 58. Lettera del 25 piovoso dell’anno II). I Giacobini gioivano, come risulta dai documenti dell’epoca, nel lasciare sul loro cammino soltanto cadaveri e rovine… perché occorreva «sacrificare tutto alla vendetta nazionale» (R. Secher, Il genocidio vandeano, p. 306). Insomma, la volontà di far sparire dalla faccia della terra ogni traccia di un popolo, qualsiasi popolo, contiene in sé la definizione di genocidio.
Per approfondire: Reynald Secher, Il genocidio vandeano, Effedieffe Edizioni, Milano 1989.
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Cristeros messicani: per Cristo Re contro la massoneria
Messico martire, di don Ugo Carandino
La casa editrice Amicizia Cristiana ha curato la ristampa del libro Messico martire, scritto dal padre Luigi Ziliani, della Compagnia di Gesù, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1929 e, da quanto scrive Marco Respinti (Basta Bugie.it, n. 238 del 30/3/2012), ebbe ben 15 riedizioni nell’arco di 10 anni.
L’iniziativa editoriale è stata suggerita dal film Cristiada, relativo all’insurrezione armata che dal 1926 al 1929 mobilitò i cattolici messicani (i “Cristeros”) contro il regime massonico e anticlericale del presidente Plutarco Elias Calles. In Italia, come ogni pellicola che non rientra nel filone propagandistico hollywoodiano, il film non ho trovato un distributore (all’indirizzo Internet: http://federiciblog.altervista.org /2012/11/28/film-cristiada-viva-cristo-rey/ i lettori troveranno i link per vedere e scaricare il film).
Il lettore, fin dai primi capitoli del libro, capirà di aver speso bene i suoi soldi. In effetti, nella parte introduttiva, l’Autore (che si recò più volte in Messico, in particolare nel 1928, in piena persecuzione), situa la vicenda dei Cristeros nella guerra più ampia scatenata dalla setta massonica contro la Chiesa per la conquista del potere mondiale (e in particolare dei Paesi cattolici dell’America Latina), indicando negli Usa il braccio armato della setta. Alcune considerazioni, scritte 80 anni fa, sono di estrema attualità: “Per questi adoratori del dollaro noi tutti siamo dei paria, che devono servire, contenti delle briciole buttate a terra dalle tavole dei ricchi epuloni. …Oggi la dottrina di Monroe: ‘L’America agli americani’ ha avuto ora una nuova interpretazione elastica con la formula: ‘Tutta l’America e tutto il mondo per la massoneria’. Nella loro insaziabile voracità i framassoni, forti della loro prosperità, sono convinti che mangeranno tutto; perché è la loro ora. Poi verrà sicuramente l’ora della indigestione (speriamo, ndr)” (pag. 34). E ancora: “Aveva già detto il Presidente Roosevelt: ‘L’assorbimento dell’America Latina è molto difficile finché sarà cattolica’. Il Messico è la prima muraglia che i massoni vogliono abbattere per inondare l’America Latina con la civiltà del relativismo e del dio dollaro” (pag. 33; l’indebolimento arrecato dal Concilio alla Chiesa ha certamente favorito il dilagare delle sette protestanti nei Paesi latino-americani). Ma Ziliani ricorda anche che “la potente massoneria Nord Americana va sempre distinta dal nobile popolo di quel grande Continente, in grande parte maggioranza di indole buona e conservatrice, quando non cattolico” (pag. 29).
Nelle stesse pagine introduttive, padre Ziliani tratteggia un breve ma esauriente panorama storico del Messico (che si può applicare alle altre terre precolombiane del Nuovo Mondo), dall’arrivo degli Spagnoli alle rivoluzioni liberali del XIX secolo. Il lettore vi troverà numerosi spunti di riflessione per controbattere la corrente vulgata anticattolica, presente in ogni settore della cultura ufficiale (anche nelle apparentemente “neutrali” guide turistiche: acquistandone una per un viaggio in Argentina, vi ho riscontrato l’esaltazione del periodo precolombiano, la demonizzazione dell’evangelizzazione cristiana e infine l’elogio dei movimenti rivoluzionari dell’ottocento).
Scrive l’Autore: “La Cattedrale (della Città del Messico) sorge significativamente sui ruderi dell’antico tempio del sole, alla quale divinità si offrivano sacrifici umani di innocenti e d’infanti, strappando il cuore delle vittime. E mettendolo ancora palpitante e a caldo nella fauci del mostruoso Quetzalcoatl, uccello-serpente, decapitando quindi l’innocente e facendo rotolare la sua testa mozza giù fino al popolo festante” (pag. 19). “In piazza della Capitale c’è un monumento storico dedicato agli Imperatori aztechi. E’ un omaggio iniquo … ai tiranni di quell’impero” (pag. 17). L’opera della Chiesa nelle Americhe fu fondamentale per la religione e per la società: “Convertito al cattolicesimo il loro sovrano, tutti gli Indi passarono in massa nel grembo della Chiesa, che valorizzò le loro energie per il bene comune” (pag. 17). La Santa Vergine, apparsa nel 1581 a Guadalupe all’azteco Cuauhtlatoatzin (battezzato poi col nome di Juan Diego), diede “prova della sua benevolenza verso i nuovi figli, confermando il suo Patrocinio sulla nuova cristianità … Maria di Guadalupe guadagnò presto il cuore di tutti gli Indi, e fu chiamata giustamente la Buona Madrina nel loro battesimo” (pag. 20). Contro l’avidità di una parte degli Spagnoli, la Chiesa difese strenuamente gli Indios: “nel Terzo Concilio Messicano del 1585 vengono stabilite pene canoniche contro i vessatori degli indigeni, intimando riparazione dei danni. E proprio da qual tempo s’iniziano le opere di beneficenza, istituti di carità e di protezione, asili, ospedali, ricoveri, ospizi. Non toccate dunque la storia, perché questa strappa la maschera ai mentitori” (pag. 26-27).
Ziliani non nasconde il suo disappunto per le rivolte che portarono alla separazione del Messico dalla Spagna (aggredita nello stesso periodo e dalla stessa setta in Europa): “L’indipendenza del Messico ebbe origine da un movimento rivoluzionario incomposto, quasi anarchico, non dal bisogno del popolo” (pag. 25). La rivoluzione fu manovrata dall’esterno:“Già nei primi anni della dichiarata indipendenza la massoneria fece incorporare agli Stati Uniti le conservatrici Louisiana e la Florida … la setta del triangolo e del compasso creò l’incidente col Messico, e nella conclusione della pace si appropriò di tre Stati a forte presenza cattolica: il Nuovo Messico, la Nuova California e il Texas … Più tardi nel 1853 fu annessa anche l’Arizona. Chi fomentò la rivolta contro Massimiliano Imperatore, finanziando la rivolta armata del ferocissimo Gen. Juares? Fu la massoneria, che in tutto il mondo cercava di abbattere una monarchia come quella asburgica … E fu la massoneria internazionale a sostenere Obregon e attualmente Calles, elettosi senza voto popolare, imposto alla Nazione da Obregon” (pagg. 29-30).
Dopo la panoramica storica, l’Autore passa a esaminare il periodo della Cristiada, con la descrizione di meccanismi di geopolitica ben collaudati: “Ed è in questa persecuzione che i figli della Vedova giocano una buona carta. La mossa americana del non intervento nei cosiddetti affari interni del vicino Messico, può essere una buona politica per ottenere in cambio una legislazione più accomodante agli interessi petroliferi dei cresi in grembiulino di New Jork … Calles, non potendo colpire i grandi magnati del petrolio, che vivono all’ombra della Loggia di Wall Street, e hanno il coltello per il manico, ha ottenuto in cambio il non intervento nella sua politica vessatoria contro i cattolici … Fu detto da un magnate del petrolio che vale più un gallone di nafta che un litro di sangue … I finanzieri della squadra e compasso di Wall Street pensano al petrolio, e alla Casa Bianca hanno imposto la formula: affari interni del Messico… Questo è cinismo ed istrionismo! Non intervento ed intervento in casa altrui quando fa comodo!” (pagg. 30-32).
Gli avvenimenti messicani ricordano “l’empietà rivoluzionaria della rivoluzione francese. Qui come là. È la solita storia massonica: una minoranza audace che opprime la maggioranza onesta” (pag. 35). Ma a volte la maggioranza reagisce, si organizza e si arma, come i cattolici della Vandea, del Tirolo e degli Stati italiani preunitari che insorsero contro le vessazioni giacobine e napoleoniche. Così pure i cattolici messicani, in nome della S. Vergine di Guadalupe e di Cristo Re (devozione che ebbe un forte impulso dopo che, nell’Epifania del 1914, l’Episcopato messicano volle ornare le immagine del Redentore con i simboli della regalità), si sollevarono a migliaia contro la tirannide governativa. La Chiesa rappresentava per i settari un ostacolo da superare per la conquista del Messico: allora gli aggressori (i presidenti-generali) indossarono i panni degli aggrediti, proprio come nella “favola esopiana del lupo e dell’agnello” (pag. 34). Sotto la presidenza del gen. Venustiano Carranza, nel 1917 a Querètaro fu varata la nuova Costituzione “degli Stati Uniti del Messico”, con il famigerato art. 130 che determinava per il clero la perdita di “ogni personalità giuridica nell’essere, nel possedere, nell’ereditare, nel succedere, nel ricevere” (pag. 38). Si mettevano le basi per passare dalla persecuzione giuridica a quella fisica, sull’esempio della Russia e della Spagna: “Prima la spogliazione, poi le manette, infine la mannaia” (pag. 38). Infatti, in poco tempo si passò dall’espulsione di vescovi e sacerdoti alla devastazione di chiese sino alle prime fucilazioni di ecclesiastici (pag. 39).
Sotto la presidenza del gen. Alvaro Obregon, una bomba fu fatta scoppiare dall’anarchico Luciano Perez sotto il tronetto che reggeva l’effige miracolosa della S. Vergine nella basilica di Guadalupe. La deflagrazione causò gravi danni all’altare, ma il quadro fu illeso: questo fatto, che ha del miracoloso, non fu però sufficiente a placare l’indignazione dei cattolici, in particolare dalle popolazioni indiane. L’indignazione sfociò in resistenza armata quando nel giugno 1926 fu varata la “Legge Calles”, che prendeva il nome dall’ennesimo generale-tiranno del Messico. Le nuove disposizioni, in nome della “libertà” rivoluzionaria, negavano ogni libertà concreta alla Chiesa: espulsione dei preti stranieri; limitazione di un sacerdote per ogni 15.000 abitanti, ma col divieto di indossare la talare e dell’insegnamento religioso; soppressione delle comunità religiose; limitazione alla stampa cattolica; persino delle sanzioni ai genitori che favorivano la vocazione dei figli… (pag. 40). Col capitolo intitolato “Non possumus” (pag. 41) si arriva alla parte centrale del libro: lascio al lettore il compito di scoprire, in più di cento pagine, i nomi, i luoghi, gli avvenimenti legati all’insurrezione e al martirio di tanti cattolici messicani, con numerosi episodi che richiamano alla mente l‘ardimento dei primi martiri romani. E’ da precisare, nella nostra epoca offuscata dagli errori conciliari, che Cristeros non morirono per la “libertà religiosa”, ma per la libertà della Chiesa di esercitare i suoi inalienabili diritti nella sfera spirituale e temporale.
Nell’ultima parte del libro Ziliani (pag. 175) traccia un parallelo tra la Passione di Gesù e la passione del Messico, indicando Calles nei panni di Caifa, i moderati (“i cattolici timorosi e comodi”) nei panni di Erode e infine “la venerabile in tutti i sensi Società delle Nazioni” in quelli di Pilato. Tra i cattolici “timorosi e comodi” possiamo annoverare quella parte dell’episcopato messicano che, malgrado i coraggiosi interventi di Pio XI e l’eroismo della maggioranza dei Vescovi, con un atteggiamento rinunciatario determinò il triste epilogo alla guerra dei Cristeros, con delle drammatiche conseguenze per chi aveva combattuto. A questo proposito “Messico martire” è un libro da leggere anche perché illustra e precisa il ruolo che ebbe Pio XI. Non dimentichiamo che sulla vicenda messicana (come sulla condanna dell’agnostico Charles Maurras) il pontefice di Desio è stato oggetto di aspre e ingenerose critiche, anche da parte degli avversari (coscienti o incoscienti) del Papato che si annidano nel mondo “tradizionalista”. Padre Ziliani traccia l’azione di Papa Pio XI a favore della Chiesa messicana nel capitolo “Roma ha parlato” (pag. 179); cita in particolare l’enciclica Acerba Animi del 29/9/1932, nella quale Papa Ratti denuncia come il regime messicano abbia “l’intenzione di distruggere la stessa Chiesa Cattolica” ed esorta il clero insieme ai fedeli a continuare a difendere i sacrosanti diritti della Chiesa. In un volumetto a parte, “Encicliche sulle persecuzioni in Messico, 1926-1937”, già segnalato dalla nostra rivista, “Amicizia Cristiana” ha pubblicato i diversi atti del magistero di Pio XI sul calvario messicano: l’epistola apostolica Paterna sane (2/2/1926), l’enciclica Iniquis afflictisque (18/11/1926), la citata enciclica Acerba animi magnitudo e l’enciclica Firmissimam constantiam (28/3/1937).
Il libro termina proprio con l’elogio fatto da Pio XI ai cattolici messicani:“Popolo di Confessori e di Martiri” (pag. 214). Il già citato Respinti ci informa che padre Ziliani nel decennio 1928-1938 tenne in Italia e in altri Paesi d’Europa un incredibile numero di conferenze (quasi trecento!) per denunciare la persecuzione della Chiesa messicana da parte del regime anticlericale di Calles. La ristampa di “Messico martire” rappresenta anche un doveroso omaggio al sacerdote che con coraggio e bravura ci ha tramandato le gesta di quei Confessori e Martiri. ¡Viva Cristo Rey!
Luigi Ziliani, Cristiada. Messico martire. Storia della persecuzione, Amicizia Cristiana,
Chieti 2011, pag. 218, euro 15,00.
http://www.edizioniamiciziacristiana.it/cristeros.htm
Recensione pubblicata sul n. 66 della rivista Sodalitium
http://www.sodalitium.biz/index.php?ind=news&op=news_show_single&ide=214
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CRISI FATALE PER UN’EUROPA ALIENA AL SACRO CUORE
di Arai Daniele
L’Evento profetico suscitato per impedire l’esito della «trama» storica diretta alla rovina della Cristianità, dopo essere stato disprezzato, è oggi interamente obliato. Riguarda specialmente la Francia cattolica, orfana della Dinastia Borbonica. Vediamo allora un po’ della sua storia, per situare e ricordare quest’Evento straordinario.
In seguito alla trama ribelle del Protestantesimo, avvenne una «crisi della coscienza europea» – situata dallo storico Paul Hazard, alla fine del regno di Luigi XIV, tra il 1680 e il 1715. C´era allora la scalata dell’Enciclopedismo massone contro il Cristianesimo, tramata da «maître à penser», detti «maître d’hotel de la nouvelle philosophie», come poi Giovanni 23, degno del titolo di «concierge» del modernista Vaticano 2 delle logge.
Proliferarono allora i pensatori dello scientismo, della «Bibbia del materialismo ateo», che suscitava risate perfino di Voltaire. Tutto seguiva il piano dei «maestri congiurati» per oscurare la Cristianità: «écraser l’infâme!» con la neo «cultura» del buio illuminista.
A questo scopo si erano impegnati a sovvertire intellettualmente ministri, principi e anche le teste regali. Quale terribile ironia affiora da certi documenti, come dalla lettera di Maria Antonietta a sua sorella, la regina Maria Cristina (26.2.1781): “Penso che vi preoccupate troppo della Massoneria. Tutti qui ci appartengono. Di recente, è stata nominata gran-maestra di una Loggia la principessa Lamballe, che mi ha raccontato di tante belle cose che vi sono state dette”! La Rivoluzione partiva dall’allegria di belle cose dette in corte. Difatti, a cominciare dal cugino del re, il futuro regicida Filippo “Egalité” – a suo turno ghigliottinato! – dall’alto delle loro posizioni aderirono alla trama illuminista per «massonizzare» quel piccolo mondo antico, dai nobili all’esercito.
Seguì la rivoluzione: gran complotto demo-liberticida per liquidarli tutti.
Non sarebbe un «complotto» solo se l’«ordine illuminista» fosse bene inestimabile da trasmettere, come lascia credere Benedetto 16, perfino ai mussulmani (vedi discorso del 22.12. 2006 e altri). Era un nuovo bene? Solo se l’Ordine cristiano fosse privo di quel bene unico per le anime e le società, che consolida diritti, giustizia e pace.
E infatti la Rivoluzione ha portato tanto disordine e conflitti che c’è stato bisogno di una mano di ferro imperialista per ristabilire il nuovo duro «ordine rivoluzionario». E Napoleone I, diffuse, a ferro e fuoco, nel mondo, gli “ideali rivoluzionari”, ripetendo, di essere il difensore delle idee del 1789, il «Messia» che «consacra» la Rivoluzione iniettandola nelle leggi. Certo, per annientare il Regno sociale di Gesù Cristo poiché la Rivoluzione è la società scristianizzata; il complotto contro Cristo, «ripudiato fino al fondo della coscienza individuale, cacciato da tutto quanto sia pubblico, da tutto quanto sia sociale; cacciato dallo Stato, che non cerca più nella Sua autorità la consacrazione della propria; cacciato dalle leggi, di cui la Sua legge non è più sovrana; cacciato dalla famiglia, costituitasi all’infuori della Sua benedizione; cacciato dalla scuola, dove il Suo insegnamento non è più l’anima dell’educazione; cacciato dalla scienza, dove non ottiene omaggio migliore che quello di una sorta di neutralità non meno ingiuriosa che la negazione; cacciato da ogni parte, tranne che da un recesso dell’anima, dove si consente di lasciargli un rimasuglio di dimora».
L’intervento del Sacro Cuore per evitare la gran ribellione
Torniamo ora all’Evento che avrebbe potuto impedire l’esito di tale gran congiura.
Un evento portatore dell’antidoto per tale scempio della ribellione razionalista e atea, sarebbe naturalmente portatore di quell’amore ineffabile per il bene degli uomini nelle loro miserie, che solo il Cuore divino può esprimere.
Nel 1689 Luigi XIV della famiglia Borbone, raggiunti i 50 anni d’età e un enorme potere, ricevette, probabilmente attraverso il suo confessore Père La Chaise, la misteriosa richiesta di consacrare il suo regno al Sacro Cuore; richiesta fatta pervenire attraverso una visione nel convento di Paray-le-Monial, il 17 giugno di quel 1689 alla suora visitandina S. Margherita Maria Alacoque. Eccone i termini: “Fa sapere al figlio primogenito del Mio Sacro Cuore che, così come la sua nascita temporale é stata ottenuta per la devozione ai meriti della Mia santa Infanzia, nello stesso modo, egli otterrà la sua nascita nella grazia e nella gloria eterna per la consacrazione che farà di se stesso al Mio adorabile Cuore, che vuole trionfare sul suo e, per mezzo suo, su quelli dei grandi della Terra. Egli vuol regnare nel suo palazzo, essere dipinto nei suoi stendardi e stampato sulle sue armi per farlo vittorioso sui suoi nemici, piegando ai suoi piedi le teste orgogliose e superbe e per farlo trionfare su tutti i nemici della Santa Chiesa”. Maanche nel fare questa richiesta, il Signore, in seguito, rivelò alla Veggente: “Non saranno le potenze umane a far progredire la Devozione al Sacro Cuore, ma questa e il Regno del Sacro Cuore saranno stabiliti per mezzo di persone povere e disprezzate e in mezzo alle contraddizioni, in tal modo che non possa attribuire alcun merito al potere umano”.
Luigi XIV, educato in una devozione cattolica centenaria, non considerò la domanda, evitando di far sapere che l’aveva ricevuta. Perché mai, se per il cattolico Re di Francia tale domanda non doveva sembrare tanto strana quanto lo è oggi per la mentalità moderna? È bene, dunque, rivedere questo pensiero cattolico della Francia antica, perché è a esso che si riferisce la misteriosa comunicazione del Signore alla Veggente di Fatima. Ci doveva essere, quindi, un punto basilare della fede cattolica che si andava perdendo allora e che oggi, senza il concorso di quanto è successo a Fatima, non sarebbe nemmeno ricordato. Qualcosa divenuto assai estraneo alla mentalità moderna, anche in ambienti religiosi, e che provoca l’attuale passione del Cristianesimo, abbandonato ovunque.
In quei tempi la fedeltà all’Idea cristiana era scontata. Ci aiuta a capirlo il Discorso del Vescovo Bossuet, riguardante proprio per la formazione del Delfino di Francia, che doveva assumere le responsabilità regali, secondo il voto tradizionale dei Borboni.
Si trattava dell’intervento divino nella storia degli uomini e dei regni.
Questo pensiero era alla radice della devozione storica del popolo francese, iniziata con la conversione del Re Clodoveo che si estese a tutto il popolo. Proseguì, poi, nella prima dinastia dei Merovingi e, con notevoli sviluppi del Cristianesimo, nella seconda dinastia. Re Pipino viaggiava per i suoi territori seguendo l’itinerario delle cappelle, erette nelle visite regali. Suo figlio, Carlo Magno, fu prodigo nell’erigere chiese e abbazie e a sostenere il potere del Pontefice Romano; e così continuarono i suoi figli.
Siamo così arrivati a Luigi XIII, figlio di Enrico IV e Maria de’ Medici.
Pur considerando che suo padre si era convertito per ragioni politiche, questo re e la regina, Anna d’Austria, erano devoti cattolici. Per 25 anni non ebbero figli, ma perseverarono nell’invocare l’aiuto della madre di Dio, e nacque loro un figlio che sarebbe divenuto Luigi XIV. Il Re riconobbe pubblicamente che quella nascita era stata ottenuta per intervento della Provvidenza, perciò consacrò solennemente la Francia alla Regina del Cielo e ordinò al suo esercito di recitare il Santo Rosario per la conversione dei protestanti. Nel Decreto della Consacrazione del Re e del suo Regno alla protettrice Vergine Santissima c’erano ardenti impegni, affinché i discendenti continuassero in quella devozione. Come si vede, la consacrazione richiesta dal Sacro Cuore a Luigi XIV non costituiva un fatto inusitato per quella famiglia, ma era in fedele continuità con la vita cattolica della Francia, figlia primogenita della Chiesa. Tuttavia Luigi XIV, sia perché mal consigliato dal suo direttore spirituale, sia perché in crisi di fede, trascurò la Consacrazione al Sacro Cuore che, più che una richiesta, era un’offerta preziosa, finale in vista di eventi rivoluzionari la cui origine nel campo delle idee già si rivelava allora.
1689 – 1789
Ecco il mistero svelato nella storia della Francia. Proprio allora cominciava il lavorio rivoluzionario per cambiare la storia di questa nazione cattolica. E esattamente cento anni dopo, jour pour jour, il 17 giugno 1789, festa del Sacro Cuore, il “Terzo Stato” spogliava la Monarchia borbonica dei suoi poteri. Il Re Luigi XVI, discendente di Luigi XIV e perciò custode della richiesta, cercò, ormai prigioniero, di compiere la consacrazione, ma era tardi! Nella prigione del Tempio furono trovate immagini del Sacro Cuore con la consacrazione della Francia, firmata dalla regina Maria Antonietta e da M.me Elisabetta, sorella di Luigi XVI, che compose allora un commovente atto di rassegnazione cristiana. Ma per il Regno era troppo tardi! Nel 1793 il Re di Francia fu ghigliottinato, e una simile sorte toccò a quasi tutta la famiglia reale e a gran parte della sua corte.
La Rivoluzione si scatenava contro la Cristianità, i suoi Re e l’Ordine in terra.
La Misericordia divina aveva tentato di preservare la Francia e il mondo da simile disgrazia, ma non fu ascoltata… la richiesta fu considerata intervento inverosimile.
Tornando a essa, risulta che anche a Père La Chaise, il gesuita confessore di Luigi XIV, furono promesse benedizioni alla sua Compagnia di Gesù se, portando la domanda al Re, si fosse impegnato affinché l’accogliesse. Ciò non avvenne. Da allora i Gesuiti hanno sofferto varie avversità e persecuzioni, fino ad essere espulsi dalla Francia, dalla Spagna, dal Portogallo, dal Regno di Napoli e, più tardi, nel 1773, soppressi da Papa Clemente XIV. Invece, sarebbero stati umili gesuiti, come il Beato La Colombière, confessore della Santa Margherita Maria, P. Croiset e i loro continuatori, a lottare contro le contraddizioni del tempo per diffondere la devozione al Sacro Cuore di Gesù, come era stato predetto.
Resta da segnalare come il culto al Sacro Cuore, nobilissima parte del Corpo Divino e simbolo dell’Amore infinito, fosse richiesto proprio per affrontare il disamore e indiferrenza generali, aizzato dall’odio della rivoluzione razionalista.
Secondo la visione cattolica, che è quella di Gesù attraverso la Madonna di Fatima, cosa può essere più letale per l’umanità che la soppressione del Capo che rappresenta il Signore per evitare l’apostasia universale e l’Anticristo? È la questione essenziale del Segreto che, come già noto, riguardava una persecuzione politica inaudita in seguito al “grande segno che Dio vi dà che sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre.
Il mondo scristianizzato andrebbe, dunque, verso un disastro politico e sociale peggiore delle grandi guerre, demolendo quanto rappresenta Dio in terra. Si faccia bene attenzione perché siamo di fronte a un trapasso EPOCALE; D’ORDINE STORICO!
Ciò si può capire solo considerando che quando il mondo colpisce, in nome della libertà, l’autorità della Parola divina, taglia da sé l’ossigeno della vita spirituale e fa svanire l’amore al bene e alla verità che regge ogni società umana. In altre parole, senza la voce di Cristo per richiamare i popoli alla retta via, il mondo è irretito da errori e da delitti; perde la capacità morale per tutelare il bene e bandire il male; tolta di mezzo l’Autorità di Cristo, il male infesta senza ostacoli ogni civiltà. Ecco la visione del Terzo Segreto, ossia lo sterminio del Papa e dei suoi testimoni cattolici, che palesa la rimozione del katéchon, l’ultimo ostacolo all’occupazione della “Sede di Dio” nel testo di San Paolo (II Ts).
La “decapitazione” papale fu predetta nella comunicazione del Signore a Suor Lucia nell’ agosto 1931: “Fa sapere ai miei ministri che siccome essi hanno seguito l’esempio del Re di Francia nel ritardare l’esecuzione della mia domanda, lo seguiranno nella disgrazia (Documenti su Fatima di P. Alonso); l’acefalia che significa lasciare l’umanità in preda alla politica deteriore di un occulto signore, il cui infido impero, edonista ma assassino, ecumenista ma ateo, va riconosciuto come il flagello più rovinoso di tutte le guerre e rivoluzioni mondiali messe insieme: l’impero del nuovo ordine mondiale, ordito per sostituire l’Ordine di Cristo, perfino a Roma.
Eppure, la visione dell’abbattimento del vero ostacolo, istituito per impedire la scalata di tale subdolo e devastante potere dell’Anticristo, non desta reazione proporzionata alla calamità terminale che rappresenta. Perché? Non sarà che il mistero del Terzo Segreto si rende chiaro solo alla luce della grande apostasia dall’autorità di Dio nella persona del Suo Vicario? Apostasia così vasta che coinvolge tutta l’intellighezia clericale della cosiddetta “cultura cristiana”, resa cieca alla “profezia politica di Fatima”?
È nell’ordine religioso che spunta e perciò va affrontato tale congiura civile.
Lo capisce solo chi sa che il «complotto metafisico» è inerente alla Fede rivelata, riguardante la «fine del tempo delle nazioni (cristiane) secondo Gesù in Luca 21, 24.
Ecco la chiesa conciliare che dichiara l’inutilità della conversione a Gesù Cristo.
A questa luce si vede che, oltre alla «teoria del complotto» inerente alla Religione rivelata e al Cristianesimo, la grande realtà dell’ora presente è il complotto clericale!
Infatti, il Vaticano di Benedetto 16, Bergoglio e la CEI, con la rivoluzione del Vaticano 2, è già allineato al nuovo disordine universale delle eresie irreversibili di cui Bagnasco si fa portavoce: “Non c’è, nel modo più assoluto, alcun cambiamento nell’atteggiamento che la Chiesa (conciliare) ha sviluppato verso gli Ebrei, soprattutto a partire dal Vaticano II. A tale riguardo la CEI ribadisce che non è intenzione della Chiesa (conciliare) di operare attivamente per la conversione degli ebrei (22.09.09)”.
È la Roma dei vescovi spenti, ormai scristianizzata e decaduta dalla missione di centro della Cristianità, ossia di Sede romana, da dove si sentiva la Voce dell’autorità di Dio.
Da tale antro, oggi si dichiara il diritto alla libertà religiosa dell’umana scelleratezza proprio quando gli uomini abusano della libertà, perfino contro la Legge naturale e divina. È la Roma degli anticristi; della libera dignità di cogliere dall’albero del bene e del male, non solo ammessa, ma lodata con immensa simpatia da Paolo 6º chiudendo il Vaticano 2, il cui scopo confessato era d’incorporare la dignità dei “valori di 200 anni d’Illuminismo” (vedi intervista di Ratzinger a Vittorio Messori). Scopo compiuto e Benedetto 16 si può vantare nei suoi discorsi, che tale incorporazione è realizzata! Loro sono, infatti, parte del complotto per mutare la Chiesa con «cappa e tiara». Jean Guitton, che non fu solo amico personale di Paolo VI, ma pure uno dei primi laici a partecipare al Vaticano 2, fornì notizie sul suo progetto, prima e dopo la sua realizzazione. Nel 1962 pubblicò un «Dialogo con i precursori – Giornale ecumenista 1922-1962, (Ed. Montaigne-Paris). Rievoca «i precursori del periodo 1922-1962», svelando così come già all’apertura del Vaticano 2 tutto era a posto per la trama del gran mutamento… che continua!
Ora, poiché si deve cercare «piuttosto il Regno di Dio e la Sua giustizia, e tutto il resto sarà dato in aggiunta» (Mt 6, 33; Lc 12, 31), si capisce che la giustizia richieda di affrontare prima di tutto questo grande inganno di una falsa chiesa che avversa i segni cattolici del Regno nella sua Sede terrena; nella Terra fecondata dal sangue di tanti Santi e Testimoni, da onorare fino alla fine dei tempi. Per superare la crisi universale si deve tornare al concetto di unico «Bene» rivelato; perciò alla Chiesa che lo insegnava, ma che è oggi occupata da anticristi sedotti dalla pluralità dei «beni» illuministici.
La presenza del vero Papa è cagione del vero «Bene» che oggi manca in un mondo alienato e festivo, nel cui vuoto fermenta ogni crisi mentale e morale per le anime.
Dobbiamo, quindi, supplicare e impegnarci per il ritorno del Papa cattolico che elimini le rese e aperture alla rivoluzione gay, una delle tante che, festosamente seguì a ruota l’inversione conciliare. Dal disprezzo per le «profezie di disgrazie» (G23) si è giunti al complotto universale che affonda le sue radici nella Genesi, nel “sarete come dèi”, con seguito fatale per non aver ascoltato la dolce Voce, venuta dal Cuore divino, trafitto da tutte le nostre miserie umane. Eppure, Gesù lo ribadì a Fatima: siete sempre in tempo di ricorrere al Mio Sacro Cuore, per mezzo dell’Immacolato Cuore di Maria!
Alla Chiesa trionfante, insieme alla Sofferente, ricorriamo come Chiesa militante, aspirando alla vittoria data per giunta al «Piccolo resto», secondo la promessa di Gesù Signore. Solo Lui, Vittima divina dello smisurato «complotto» del mondo nemico, ci può far partecipe della Sua vittoria sul disordine degli anticristi a Roma e ovunque.
Dalla Lettera Enciclica Miserentissimus Redemptor di Papa Pio XI (8 maggio 1928):
«Nel manifestarsi a Margherita Maria, Cristo, mentre insisteva sull’immensità del proprio amore, al tempo stesso, in atteggiamento addolorato, si lamentò dei tanti e tanto gravi oltraggi a sé fatti dall’ingratitudine degli uomini, con queste parole, che dovrebbero sempre essere colpite nel cuore delle anime buone né mai cancellarsi dalla memoria: « Ecco – disse – quel Cuore che ha tanto amato gli uomini e li ha ricolmati di tutti i benefìci, ma in cambio del suo amore infinito, anziché trovare gratitudine, incontrò invece dimenticanza, indifferenza, oltraggi, e questi arrecatigli talora anche da anime a lui obbligate con il più stretto debito di speciale amore ».
ATTO DI RIPARAZIONE AL SACRATISSIMO CUORE DI GESÙ
Gesù dolcissimo, il cui immenso amore per gli uomini viene con tanta ingratitudine ripagato di oblìo, di trascuratezza, di disprezzo, ecco che noi prostrati dinanzi ai tuoi altari intendiamo riparare con particolari attestazioni di onore una così indegna freddezza e le ingiurie con le quali da ogni parte viene ferito dagli uomini l’amantissimo tuo Cuore.
Ricordando però che noi pure altre volte ci macchiammo di tanta indegnità e provandone vivissimo dolore, imploriamo anzitutto per noi la tua misericordia, pronti a riparare con volontaria espiazione, non solo i peccati commessi da noi, ma anche quelli di coloro che errando lontano dalla via della salute, o ricusano di seguire Te come pastore e guida ostinandosi nella loro infedeltà, o calpestando le promesse del Battesimo hanno scosso il soavissimo giogo della tua legge.
E mentre intendiamo espiare tutto il cumulo di sì deplorevoli delitti, ci proponiamo di ripararli ciascuno in particolare: l’immodestia e le brutture della vita e dell’abbigliamento, le tante insidie tese dalla corruttela alle anime innocenti, la profanazione dei giorni festivi, le ingiurie esecrande scagliate contro Te e i tuoi Santi, gli insulti lanciati contro il tuo Vicario e l’ordine sacerdotale, le negligenze e gli orribili sacrilegi ond’è profanato lo stesso Sacramento dell’amore divino, e infine le colpe pubbliche delle nazioni che osteggiano i diritti e il magistero della Chiesa da Te fondata.
Oh! potessimo noi lavare col nostro sangue questi affronti! Intanto, come riparazione dell’onore divino conculcato, noi Ti presentiamo — accompagnandola con le espiazioni della Vergine Tua Madre, di tutti i Santi e delle anime pie — quella soddisfazione che Tu stesso un giorno offristi sulla croce al Padre e che ogni giorno rinnovi sugli altari: promettendo con tutto il cuore di voler riparare, per quanto sarà in noi e con l’aiuto della tua grazia, i peccati commessi da noi e dagli altri e l’indifferenza verso sì grande amore con la fermezza della fede, l’innocenza della vita, l’osservanza perfetta della legge evangelica specialmente della carità, e d’impedire inoltre con tutte le nostre forze le ingiurie contro di Te, e di attrarre quanti più potremo al tuo sèguito. Accogli, Te ne preghiamo, o benignissimo Gesù, per intercessione della Beata Vergine Maria Riparatrice, questo volontario ossequio di riparazione, e conservaci fedelissimi nella tua ubbidienza e nel tuo servizio fino alla morte col gran dono della perseveranza, mercé il quale possiamo tutti un giorno pervenire a quella patria, dove Tu col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni, Dio, per tutti i secoli dei secoli. Così sia.
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Guernica: un massacro inventato
di Pietro Ferrari
Le Vandee italiane contro i giacobini e Napoleone dal 1796 al 1815
«Come possono gli storici ritenere che sia credibile che centinaia di migliaia di italiani abbiano combattuto per vent’anni col rosario in mano, sotto le insegne di Maria e delle legittime dinastie reali al solo scopo di nascondere odii di clan e faide locali, oppure per camuffare incipienti lotte di classe?». A chiederselo è Massimo Viglione, docente di Storia moderna all’Università Europea di Roma e docente Isem del Cnr. Il riferimento è a quelle che lui stesso definisce «le Vandee italiane». Cioè le molteplici rivolte di popolo contro i giacobini e Napoleone dal 1796 al 1815. Rivolte che vennero represse nel sangue «con l’uccisione di oltre 100 mila persone in massacri di massa, con stupri collettivi, anche nei monasteri, profanazioni di chiese, violenze blasfeme, distruzioni di interi paesi». Argomento che Viglione ha affrontato già nel 1999 con un libro edito da Città Nuova, e sul quale è tornato oggi con “Le insorgenze controrivoluzionarie nella storiografia italiana. Dibattito scientifico e scontro ideologico (1799-2012)”. Un testo edito da Olschki (pagine 130, euro 16) nel quale si tratta di come gli storici nostrani abbiano ripetutamente insabbiato questa vicenda fino a farla sparire completamente.
Come si fanno a tenere nascosti più di 100 mila morti?
«Per quel che riguarda la Vandea ne hanno tenuti nascosti molti di più. In ogni caso 100 mila è una cifra al ribasso. Pensi che nella primavera del 1799 il generale francese Tiebourth in una comunicazione ufficiale al Direttorio scrive che nel territorio del regno di Napoli in tre mesi sono stati passati per le armi 60 mila uomini, senza considerare le donne, i vecchi e i bambini. Nella sola Napoli, fra il 13 e il 22 gennaio vengono uccise oltre 10 mila persone. Le case dei Quartieri Spagnoli sono incendiate una a una con i soldati che si divertono a sparare sulle donne e i bambini in fuga».
Le stesse violenze che in Vandea?
«Non è stata la stessa cosa. Quello vandeano fu un genocidio con 300 mila morti su 500 mila abitanti. Lì i soldati francesi sono giunti a fare il sapone con la pelle dei bambini, a confezionarci indumenti. In Italia, anche se molti massacri sono stati ordinati da reduci vandeani (come nel caso di un ufficiale di nome Flavigni in Piemonte), non si è arrivati a tanta atrocità. Sebbene la similitudine con la Vandea emerga anche dagli scritti di ufficiali francesi che, per esempio, parlano della Romagna (dove le insorgenze furono numerose e continue) come della “Vandea italiana”».
Però si racconta di molti episodi truci.
«Ci furono tante profanazioni di chiese e conventi. Lo stesso Bacchelli nel Mulino del Po fa nascere le fortune-sfortune di Lazzaro Scacerni (il protagonista) dalla profanazione di una chiesa durante le campagne napoleoniche. L’abbazia di Casamari, nel frusinate fu occupata nel 1799. I monaci aprirono le porte offrendo quello che avevano. I soldati presero tutto, poi per sfregio profanarono in maniera ignobile le ostie nel tabernacolo. I monaci tentarono di difenderle buttandosi su di esse per mangiarle. I militi tagliarono loro le dita e poi li passarono a fil di spada risparmiando solo un francese che, paradossalmente, era stato a servizio nella reggia di Versailles».
Furono distrutti anche interi paesi.
«A Guardiagrele in provincia di Chieti vennero uccisi 1500 uomini. La prima strage avviene a Binasco, vicino Pavia, raso al suolo casa per casa. In parte analoga la sorte di Lugo di Romagna. Verona si salva, ma la repressione è durissima con la fucilazione di preti e di nobili. Ma rivolte e repressioni accadono in tutta Italia, dal Piemonte alla Puglia, alla Calabria, alla Liguria, alla Toscana».
Quale è stata la logica degli storici che hanno nascosto questi eventi?
«Certamente ideologica. Prima della seconda guerra mondiale non se ne parlava nelle scuole, ma il tema era oggetto di libri e dibattiti. Dopo la Resistenza la contemporanea affermazione nella storiografia di una visione crociana liberale e del gramscismo ha messo il tappo. Se ne è ricominciato a parlare col bicentenario della Rivoluzione francese. Anche in Francia è successa la stessa cosa. Il velo sulla Vandea è stato tolto dagli studi di Reinold Secher, che per questo è stato ostracizzato a livello accademico».
Perché tanto accanimento ideologico?
«Perché secondo quel tipo di storiografia in quei giorni gli italiani hanno preso le armi dalla parte sbagliata: per difendere la fede, la Chiesa e il potere costituito. Ma nel ’99 la rivolta coinvolse tutto il territorio. A gennaio i francesi occupavano tutta la Penisola tranne il Triveneto. Ad agosto non era rimasto un francese. Al cardinale Ruffo, sbarcato in Calabria con sette uomini, in poco tempo se ne aggregano 50 mila che riconquistano il Regno di Napoli. In Toscana il Granducato è riconquistato al grido di Viva Maria».
Una rivolta di popolo, mentre il Risorgimento, come disse Gramsci, venne imposto dall’alto.
«Questo è il motivo dell’ostracismo. Non si vuole riconoscere che l’Italia dell’epoca era cattolica e controriformista. Del resto, come si può esaltare Garibaldi e mille uomini senza seguito e poi raccontare che solo alcuni anni prima centinaia di migliaia di italiani si erano ribellati al giacobinismo?».
E ora?
«Oggi il fenomeno non si può più nascondere, allora si sostiene che gli slogan “Viva Maria”, “Viva il Papa”, “Viva il Re” dei ribelli erano solo coperture per nascondere interessi di parte. Ma è lampante che quegli italiani combatterono per la loro identità».
Viva il re di Francia sua maestà Luigi XVI° martire della nostra santa religione cattolica apostolica e romana, onore agli insorti della vandea che hanno innalzato il sacro cuore di Nostro Signore Gesù Cristo e della santa Vergine Maria come proprio stendardo, morte alla massoneria che ha organizzato e diretto la rivoluzione con lo scopo, già elencato nei protocolli dei savi di Sion, come obbiettivo chiave, di distruggere l’aristocrazia e di scristianizzare l’Europa.