Ma poi, s.Francesco era davvero il cicciobello che dicono?(PARTE 1)

MA POI, S. FRANCESCO
ERA DAVVERO IL CICCIOBELLO CHE DICONO?
Francesco d’Assisi:
dalla legenda aurea alla leggenda metropolitana
Ma è davvero il santo della sedizione dissimulata contro il papa?…no, quello era Valdo. Davvero è il santo bucolico e sognatore che ci viene propinato oggi? Poi c’è quella storia strana della sortes apostolorum. Francesco, “romantico” come lama affilata! Il santo “decattolicizzato”. Francesco e il sultano: dialogo interreligioso una cippa! La povertà secondo Francesco, non è quella che s’immaginano le ideologie. Quindi, dove diavolo sta questo santo “marxista”?…per tacer di quello “pacifista”.
di Tea Lancellotti
In una Catechesi all’inizio del 2010, Benedetto XVI mette in guardia da un “san Francesco non di Chiesa”. E infatti, dice testualmente il Papa:
“In realtà, alcuni storici nell’Ottocento e anche nel secolo scorso hanno cercato di creare dietro il Francesco della tradizione, un cosiddetto Francesco storico, così come si cerca di creare dietro il Gesù dei Vangeli, un cosiddetto Gesù storico. Tale Francesco storico non sarebbe stato un uomo di Chiesa, ma un uomo collegato immediatamente solo a Cristo, un uomo che voleva creare un rinnovamento del popolo di Dio, senza forme canoniche e senza gerarchia.”
Dice ancora Benedetto XVI:
“E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i Vescovi”.
E’ DAVVERO IL SANTO DELLA SEDIZIONE DISSIMULATA CONTRO IL PAPA? NO, QUELLO ERA VALDO…
Uno dei tanti monumenti dell’800 dedicati nelle città italiane agli eresiarchi, quando la massoneria giunse al potere con i Savoia, invasori d’Italia. Qui Pietro Valdo
Il Papa ci ha confermato ciò che in fondo si sapeva, ma non se ne parlava volentieri: san Francesco non voleva fondare un Ordine religioso, meno ancora tre, e fu invece la Chiesa di quel tempo a ritenere necessario un Ordine.
Il vero ed autentico “Poverello d’Assisi” dimostrò chiaramente, fin da subito, la sua filiale obbedienza al Papa. Lo stesso gesto, alla radice, di quello “spogliarsi” in piazza ha un duplice significato, sia materiale che teologico: egli rinuncia al bene e si spoglia, togliendosi di dosso tutto, perfino le proprie opinioni, anche il grado di parentela umana, per assumere, accettando il mantello del Vescovo, l’adozione a Figlio della Chiesa dove il Papa è il Padre che rappresenta Cristo in terra.
Una spiegazione simile la da anche Caterina da Siena, portandolo come esempio di colui che “rinuncia tutto a se stesso, muore a se stesso”. In una lettera, la Santa scrive: “Affinchè il mondo non gli gonfiasse lo stomaco (nutrisse di superbia), il padre nostro santo Francesco elesse la santa e vera estrema povertà, maggiormente davanti al Dolce Cristo in terra, in obbedienza e carità…”. In queste parole, è chiaro l’insegnamento: san Francesco non fu mai contro il Papa.
Va detto che l’interesse a presentare un Francesco contro il papato, specialmente nell’Ottocento, proviene da ambienti massonici e protestanti, come da questi ambienti pervenne, di fatto, una ricca letteratura, falsa, sulla storia della Chiesa. San Francesco è stato sempre associato, dal mondo protestante e catto-sincretista, a Pietro Valdo (valdesi) il quale era, solo fino a qualche anno prima, all’origine del movimento i “Poveri di Lione”. La sintesi della predicazione è apparentemente (ripeto: apparentemente) identica a quella di Francesco: richiamo ad una fede vissuta nella povertà del Vangelo, la non violenza, il riferimento alla pace, uno stile di vita che porti a rinunciare alle carriere politiche ed ecclesiastiche viste come tali, ossia “carriere”, l’interessamento alla natura che ci circonda, etc.
Una prima differenza con Pietro Valdo fu proprio l’obbedienza al Papa di san Francesco e la sua fedeltà.
In sostanza, l’errore di un certo francescanesimo moderno sta nel fatto di ingnorare che un conto è il messaggio di san Francesco che ragionevolmente valica i confini della Chiesa e s’instaura anche fra gruppi non cattolici, secondo il detto “l’erba del vicino è sempre più verde”, ma ben altra cosa è aver fatto di san Francesco, e spesso proprio dai suoi, una sorta di “giullare” in senso negativo, sobillatore e riformatore contro il Papa e i vescovi del suo tempo.
Francesco, infatti, non sarebbe mai diventato un santo, nè sarebbe rimasto dentro la Chiesa se, in quel paragonarlo a Pietro Valdo, si facesse della povertà che rincorreva lo scopo della sua predicazione, il fine ultimo come invece intendeva Valdo… o peggio i catari-albigesi. Al contrario, Francesco usava la virtù della povertà evangelica quale mezzo, e non come scopo, nè fine, per rivitalizzare la Chiesa, ponendosi sotto la guida del Papa, aiutandolo a combattere la grave crisi di corruzione penetrata anche nel basso clero, e tutto questo, a differenza di Valdo, senza mai mettere in discussione il Magistero dottrinale del Pontefice, men che meno il magistero dottrinale del suo vescovo.
Valdo in un primo tempo accettò l’obbedienza al Papa, salvo ritirarla dopo. San Francesco, invece, rimase fedele prima e dopo, e principalmente a riguardo della Dottrina, lasciandosi consigliare e correggere dal Papa e dal vescovo.
Non a caso così ha ricordato, Benedetto XVI, ai Figli di san Francesco nell’aprile 2009 in occasione dell’udienza concessa per gli 800 anni dall’approvazione della regola dei Frati Minori:
“Viene spontanea qui una riflessione: Francesco avrebbe potuto anche non venire dal Papa.
Molti gruppi e movimenti religiosi si andavano formando in quell’epoca e alcuni di essi si contrapponevano alla Chiesa come istituzione o, per lo meno, non cercavano la sua approvazione.
Sicuramente un atteggiamento polemico verso la Gerarchia avrebbe procurato a Francesco non pochi seguaci”.
Invece egli pensò subito a mettere il cammino suo e dei suoi compagni nelle mani del Vescovo di Roma, il Successore di Pietro. Questo fatto rivela il suo autentico spirito ecclesiale. Il piccolo “noi” che aveva iniziato con i suoi primi frati lo concepì fin dall’inizio all’interno del grande “noi” della Chiesa una e universale. E il Papa lo riconobbe e l’apprezzò.
Anche il Papa, infatti, da parte sua, avrebbe potuto non approvare il progetto di vita di Francesco.
Anzi, possiamo ben immaginare che, tra i collaboratori di Innocenzo III, qualcuno lo abbia consigliato in tal senso, magari proprio temendo che quel gruppetto di frati assomigliasse ad altre aggregazioni ereticali e pauperiste del tempo.
Invece, il Romano Pontefice, ben informato dal vescovo di Assisi e dal cardinale Giovanni di San Paolo, seppe discernere l’iniziativa dello Spirito Santo e accolse, benedisse ed incoraggiò la nascente comunità dei frati minori.”
Nulla a che vedere pertanto con il Francesco modernista o protestante, o peggio, sobillatore contro il Papa! Resta famoso l’episodio di san Francesco che, dopo una predica in un villaggio, si vede portare davanti un sacerdote macchiato dai peccati, del quale il popolo furioso vuol fare giustizia (non dimentichiamo che siamo nel mezzo dell’eresia catara-albigese, dei cosiddetti “puri”). Il prete, inginocchiato davanti a Francesco, attende la dura condanna, sa di essersi macchiato di gravi colpe e attende il verdetto, ma Francesco prende quelle mani e le bacia. Davanti agli sguardi attoniti degli ignoranti contadini o dei saggi del villaggio, il “poverello d’Assisi” spiega come quelle mani, seppur insudiciate dal peccato, sono le stesse che compiono il Prodigio nella Messa, e di quante volte queste avessero tenuto fra le mani Gesù-Ostia-Santa. Nel dirlo, Francesco si commuove e il sacerdote e gli abitanti del villaggio si convertono.
E sappiamo bene che san Francesco non volle mai diventare prete non perchè ce l’avesse con il clero, come certa letteratura ottocentesca ha millantato, ma perchè non si stimava degno di un dono così immenso, di un potere così grande, e ritenendosi un indegno peccatore fino alla fine, bisognoso, mendicante del perdono di Dio, ritenne inopportuno che gli si affidasse la confessione delle anime.
MA DAVVERO E’ IL SANTO BUCOLICO E SOGNATORE CHE CI VIENE PROPINATO OGGI?
San Francesco fu tutt’altro che romantico, sognatore, bucolico: la sua virilità si era semplicemente spostata, da sotto la cintola, salendogli su, nel cuore e nella mente, quando si convertì e si consegnò al suo vescovo. Altro che romantico! Ragionava e meditava, vedeva il cielo ma restava coraggiosamente con i piedi per terra, ma ciò non toglie che il francescanesimo ha sempre tentato di presentare un Francesco al di fuori della normalità e spesso anche fuori della stessa ecclesialità, una sorta di Riformatore interno alla Chiesa, per cambiare la Chiesa; un Francesco che spesso camminava “per conto suo” (qualcosa di vero, in fondo, potrebbe anche esserci)….ma fu proprio grazie all’umiltà di Francesco ed alla sua ostinata obbedienza al Papa, che egli potè restare sui binari giusti, contrariamente al deragliamento di non pochi suoi fraticelli!
Non so quanto la pratica de le Sortes Apostolorum aiuti a comprendere la situazione, ma forse aiuta noi a comprendere perchè è giunto a noi un san Francesco spesse volte al di fuori di ciò che era veramente…
Nel 2000, l’università di Verona ha presentato un Convegno Internazionale, molto interessante, dal titolo “L’illusione religiosa, rive e derive”, convegno riconosciuto, ai fini dell’aggiornamento degli insegnanti di religione cattolica, dall’Ufficio Diocesano apposito della curia veronese.
Riporto il passo di pagina 23 che ritengo importante:
“San Francesco d’Assisi è ricorso per ben tre volte nella sua vita alla pratica della sortes apostolorum. Questa pratica dell’apertura casuale della parola di Dio ha segnato i momenti fondamentali della sua vita spirituale: l’inizio della sua vocazione, la vocazione del primo compagno san Bernardo, le stimmate.
Francesco dà di questo testimonianza nel suo Testamento scrivendo: “e dopo che il Signore mi donò dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del Santo Vangelo”.
POI C’È QUELLA STORIA STRANA DELLA SORTES APOSTOLORUM
La pratica della sortes apostolorum era nota in ambiente popolare, ma era solo tollerata dall’istituzione ecclesiale perché era considerata una sorta di pratica magica o pagana. Nonostante questi divieti, essa era una pratica diffusa che traeva le proprie origini dalle ordalie, con un profondo significato spirituale e psicologico.
La sortes apostolorum infatti può essere letta alla luce del concetto junghiano di sincronicità, vale a dire la corrispondenza tra avvenimenti che riguardano la sfera collettiva e i significati che essi assumono a livello individuale.
Nell’esperienza di s. Francesco il ricorso alla sincronicità pone in rapporto il mondo divino con il mondo umano senza intermediari. Potrebbe essere questo uno dei motivi per cui la sortes apostolorum è sempre stata osteggiata dalla Chiesa: proprio perché questa pratica non necessita dell’intermediazione dell’istituzione nel rapporto con il divino.
Ma ben sappiamo che s. Francesco d’Assisi non volle diventare sacerdote perché si riteneva troppo indegno di così eccelsa vocazione. E anche un po’, certamente, per un calcolo di “convenienza”, affrancandosi da quale eventuale vescovo non troppo ben disposto verso di lui… non c’è nulla di male in ciò.
Ma soprattutto venerava i sacerdoti con tale devozione da considerarli suoi “Signori”, poiché in essi vedeva solamente “il Figlio di Dio”; e il suo amore all’Eucaristia si fondeva con l’amore al sacerdote, il quale consacra e amministra il Corpo e Sangue di Gesù, e assolve dai peccati. In particolare, venerava le mani dei sacerdoti, che egli baciava sempre in ginocchio con grande devozione, quindi è palese che la pratica sortes apostolorum non influenzò san Francesco che riteneva il sacerdote l’unico intermediario fra l’uomo e Dio, fra il penitente e Dio, e riteneva il Papa l’intermediario fra tutti, sacerdoti e laici, vescovi e imperatori, villici o stranieri, un intermediario necessario per l’uomo, e per questo usava anche per lui il termine “Signor, Signor Papa!” e, a differenza di certa interpretazione spicciola, l’uso del termine “Signore” per Francesco era rivolto proprio non all’immagine, ma alla funzione del prete, alla funzione del Papa, in quanto “Alter Christi” e non per sminuirne il ruolo.
ROMANTICO? COME LAMA AFFILATA!
Si comprende così e meglio ciò che ha detto Benedetto XVI citato all’inizio:
“E’ anche vero che non aveva intenzione di creare un nuovo ordine, ma solamente rinnovare il popolo di Dio per il Signore che viene. Ma capì con sofferenza e con dolore che tutto deve avere il suo ordine, che anche il diritto della Chiesa è necessario per dar forma al rinnovamento e così realmente si inserì in modo totale, col cuore, nella comunione della Chiesa, con il Papa e con i vescovi.” E, ancora, ricorda il Papa, una raccomandazione rivolta da Francesco ai sacerdoti: “Quando vorranno celebrare la Messa, puri in modo puro, facciano con riverenza il vero sacrificio del santissimo Corpo e Sangue del Signore nostro Gesù Cristo” (Francesco di Assisi, Scritti, 399).”
E non era bucolico, o sognatore o romantico…. ciò che doveva dire lo diceva usando la parola come lama affilata. Ecco un passo dalla Letteraai Fedeli di san Francesco nelle Fonti Francescane, dove già il titolo dice tutto:
Guai a quelli che non fanno penitenza. Cap II°
[178/4] Tutti quelli e quelle, invece, che non vivono nella penitenza, e non ricevono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e si abbandonano ai vizi e ai peccati e camminano dietro la cattiva concupiscenza e i cattivi desideri della loro carne, e non osservano quelle cose che hanno promesso al Signore, e servono con il proprio corpo al mondo, agli istinti carnali ed alle sollecitudini del mondo e alle preoccupazioni di questa vita: costoro sono prigionieri del diavolo del quale sono figli e fanno le opere; sono ciechi, poiché non vedono la vera luce, il Signore nostro Gesù Cristo. Non hanno la sapienza spirituale, poiché non posseggono il Figlio di Dio, che è la vera sapienza del Padre; di loro è detto: ” La loro sapienza è stata ingoiata” e: ” Maledetti coloro che si allontanano dai tuoi comandamenti”. Essi vedono e riconoscono, sanno e fanno ciò che è male, e consapevolmente perdono la loro anima.
[178/5] Vedete, o ciechi, ingannati dai vostri nemici, cioè dalla carne, dal mondo e dal diavolo, che al corpo è cosa dolce fare il peccato e cosa amara sottoporsi a servire Dio, poiché tutti i vizi e i peccati escono e procedono dal cuore degli uomini, come dice il Signore nel Vangelo. E non avete niente in questo mondo e neppure nell’altro. E credete di possedere a lungo le vanità di questo secolo, ma vi ingannate, perché verrà il giorno e l’ora alla quale non pensate, non sapete e ignorate. Il corpo si ammala, la morte si avvicina e così si muore di amara morte.”
Dovrebbe forse meravigliarci che, al giorno d’oggi, non si senta più predicare un francescano con le parole del santo Fondatore, ma bensì usando un linguaggio del mondo e giungendo perfino all’uso dei balli sfrenati, salti e danze senza dire più la verità ai giovani, senza dire loro che “se restano nella concupiscenza e non vivono di penitenza per frenare i desideri della carne, restano prigionieri del diavolo”?
No, nessuna meraviglia. I francescani di oggi usano il Waka Waka per sollecitare i giovani a trovare ugualmente l’amicizia di Dio senza fare una benchè minima penitenza, e lo fanno in nome di san Francesco, citando, non si sa bene da dove, un bucolico san Francesco, o interpretandolo secondo le mode del momento…
E meno male che san Francesco chiude la Lettera ai Fedeli con questa memorabile raccomandazione:
[178/7] Tutti coloro ai quali perverrà questa lettera, li preghiamo, nella carità che è Dio, che accolgano benignamente con divino amore queste fragranti parole del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo scritto. E coloro che non sanno leggere, se le facciano leggere spesso, e le imparino a memoria, mettendole in pratica santamente sino alla fine, poiché sono spirito e vita. Coloro che non faranno questo, dovranno renderne ragione nel giorno del giudizio, davanti al tribunale del Signore nostro Gesù Cristo.
Non mi pare ci sia molto da interpretare: c’è solo il fatto che queste raccomandazioni del Santo Patrono d’Italia, sono letteralmente disattese da gran parte dei Frati dei tre Ordini, ma anche da non poche suore. Non si tratta di giudicare, basti pensare al fatto che, se vuoi sapere cosa ha detto Francesco, te lo devi andare a cercare da solo, perchè nelle prediche troviamo solo il trito e ritrito Signore fa di me uno strumento della tua pace, preghiera attribuita a Francesco, ma che non è sua e lo spiegheremo al termine di questo modesto lavoro, e il Cantico delle Creature aggiornato con le frasi più consone allo spirito di questo mondo e di questo tempo, tagliato nelle sue frasi più severe:
“Laudato si’ mi’ signore per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli ke l’ sosterrano in pace,
ka da te altissimo sirano incoronati.
Laudato si’ mi’ signore per sora nostra morte corporale,
da la quale nullu homo vivente pò skappare.
Guai acquelli ke morrano ne le peccata mortali,
beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati,
ka la morte secunda nol farrà male”.
Ringraziamo il cielo che ci sono i Francescani dell’Immacolata che stanno riportando alla luce l’autentico carisma, integrale, del Fondatore!
IL SANTO “DECATTOLICIZZATO”
Ad aprile del 2009 il francescanesimo ha vissuto un anno di grazia: 800 anni dall’approvazione dei Frati Minori (il primo gruppo di Francesco) da parte di Papa Innocenzo III (era il 16 aprile 1209) ed è curioso come il 16.4.2009 l’OR riportò un interessante articolo sul “Vero san Francesco delle origini”, liberando un Francesco appesantito da leggende varie e successive, messe oggi, finalmente ed ufficialmente, in discussione. L’occasione è l’uscita di una nuova ed ultima traduzione della Vita di san Francesco, la cosiddetta Legenda Maior di san Bonaventura da Bagnoregio, di Fr. Pietro Messa, della Pontificia Università Antonianum.
Vi riporto i passi più salienti della presentazione che vale la pena meditare:
“Francesco ha subito una sorta di decattolicizzazione, ed è stato sottoposto alla critica rigorosa dell’analisi storica, la quale, tuttavia, non è giunta al superamento del mito, ma anzi la questione francescana ha rappresentato un esempio piuttosto raro in cui la ricerca storica ha contribuito alla formazione di un vero e proprio mito contemporaneo.
“Di fronte a queste osservazioni, che costringono a ripensare il rapporto tra storia e agiografia, diviene inevitabile porsi anche altri quesiti: chi decide dove finisce la historia salutis – intesa come lettura provvidenziale degli avvenimenti – e comincia la storia? E ancora, chi decide dove debba collocarsi il confine tra mito e realtà? Similmente, sempre circa l’approccio che abbiamo definito decattolicizzato con Francesco d’Assisi, si deve quanto meno ricordare che il contesto in cui si colloca la sua vicenda è quello cristiano cattolico, come mostra, ad esempio, l’importanza della liturgia nella vicenda della fraternità minoritica. Gli studi moderni hanno certamente contribuito a creare il mito di una determinata immagine di san Francesco, spesso raffigurato come un antesignano dell’idea di tolleranza.
“(…) A questo proposito sono interessanti alcune osservazioni inerenti al passaggio dalla storia alla teologia che l’arcivescovo Giuseppe Betori ha esposto nelle conclusioni a un convegno inerente al Liber di Angela da Foligno, una penitente francescana il cui pensiero è debitore anche della teologia di Bonaventura: Non è vero forse che proprio la separazione tra fatti e dottrina, tra storia e teologia, tra contesto e testo è ciò che conduce a due assurdi: quello di ridurre Angela – nel nostro caso san Francesco– a un trattato mistico e quello di annullarne l’originalità nella temperie spirituale del suo tempo? Qui proprio dall’esperienza dell’esegesi biblica può venire un decisivo aiuto: gli ultimi due secoli della sua storia non insegnano forse come sia impossibile separare il Gesù della storia dal Cristo della fede, se non si vuole rendere irrilevante il primo e inconsistente il secondo?.”
FRANCESCO E IL SULTANO: DIALOGO INTERRELIGIOSO UNA CIPPA!
Un altro esempio concreto è la famosa storia, trita e ritrita per certi versi, dell’incontro di san Francesco con il Sultano, in Terra Santa.
Storia spesso infarcita di buonismo e semplicismo. La realtà dell’incontro è, però, piuttosto complessa perchè riportata da più fonti con sfumature diverse, ma oseremo dire provvidenziale nel suo insieme, per come è avvenuta e per come si è conclusa: senza spargimento di sangue per Francesco, ma senza dubbio con una grande lezione per noi, oggi, sull’autentico dialogo che dovremo tenere in campo interreligioso.
Nel san Francesco autentico, delle autentiche Fonti francescane, si narra di quando andò dal Sultano in piena crociata e gli mostrò che cosa comportasse l’essere cristiani: “I cristiani giustamente attaccano voi e la terra che avete occupato, perché bestemmiate il nome di Cristo e allontanate dal suo culto quelli che potete”…
San Francesco non è andato lì per intraprendere un dialogo interreligioso! Non è andato ad accusare il Papa e le Crociate! È andato, invece, a giustificare l’offensiva dei cristiani anche se è vero che preferiva la predicazione di Cristo alle armi, ma era consapevole che ognuno doveva agire nel posto in cui Dio l’aveva messo, avendo come bene comune la causa ultima: la conversione a Cristo.
Era andato perchè voleva convertire il Sultano, non lo voleva fare con la forza o con le armi, però voleva parlare con lui di Gesù Cristo, e riportano le Fonti: “Quando il beato Francesco per la fede in Cristo volle entrare in un grande fuoco coi sacerdoti del Soldano di Babilonia; ma nessuno di loro volle entrare con lui, e subito tutti fuggirono dalla sua vista”. E rifiutò i ricchi doni del Sultano perchè non volle convertirsi…. un segnale, come a sottolineare che non c’era nulla fra loro che valesse uno scambio di doni: il dono che portava Francesco era Cristo!
Ma vale la pena riflettere sull’insieme del dialogo avvenuto fra i due:
FF. 2690-2691
IL SULTANO: II vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vuol togliervi la tonaca, dunque voi cristiani non dovreste imbracciare armi e combattere i vostri nemici.
FRANCESCO: Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Il perdono di cui Cristo parla non è un perdono folle, cieco, incondizionato, ma un perdono meritato.
Gesù infatti ha detto: “Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino”. Infatti il Signore ha voluto dirci che la misericordia va dispensata a tutti, anche a chi non la merita, ma che almeno sia capace di comprenderla e farne frutto, e non a chi è disposto ad errare con la stessa tenacia e convinzione di prima.
Altrove, oltretutto, è detto: “Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te”. E, con questo, Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell’occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete.
Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi.
Troviamo forse oggi predicatori francescani con lo stesso coraggio puramente cristiano del loro Fondatore? E poichè avere questo tipo di coraggio non è detto che a tutti sia dato, diciamo dunque: troviamo predicatori francescani onesti nell’ortodossia della fede come lo fu il loro Fondatore? Senza dubbio sì, e se qualcuno può additarceli quale esempio e perchè noi possiamo ascoltarli, ne saremo infinitamente grati!
Notare che san Francesco pone una condizione all’essere amati: se voi voleste conoscere, confessare, adorare… il Redentore, allora i cristiani vi amerebbero come se stessi: ossia, l’amore Cristiano è solo quello che si vive attraverso il Cristo, tutto il resto non è amore, non è amare, ma illusione, ipocrisia, mediocrità, non è la radicalità chiesta e vissuta da Francesco!
LA POVERTÀ SECONDO FRANCESCO, NON È QUELLA CHE S’IMMAGINANO LE IDEOLOGIE
Leonardo Boff. Che da francescano inventò la criminale Teologia della Liberazione. Tradendo Francesco.
Cominciamo con il sottolineare un punto fermo: la povertà a cui sorride Francesco è quella verso se stesso, ossia “morire a se stesso”, una netta conversione dal ciò che era al ciò che divenne: sempre più “conforme al Cristo”. La povertà di Francesco è la radicalità: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Francesco si spoglia di tutto letteralmente, per lasciarsi vestire da Cristo in tutto. La sua radicalità è talmente eccessiva che non può impedire ai suoi le collette, o l’elemosina, per mangiare almeno un tozzo di pane. La povertà evangelica di Francesco è una penitenza continua.
E attenzione, come dicevamo sopra, a differenza di altri movimenti che inseguivano la povertà come scopo, per Francesco la povertà non è lo scopo della sua missione, nè della sua vocazione, ma un mezzo, e questo mezzo è la sua penitenza che si esprime nella spoliazione totale. Francesco comprende che senza radicalità non può essere un degno testimone di ciò che va predicando all’interno di un mondo corrotto: il suo fine dunque, è Cristo Crocefisso e Risorto; il suo scopo è testimoniare la radicalità della povertà (intesa anche in quel “morire a se stessi”) per convertire a Cristo. Inoltre, come si accennava, c’era il problema dell’eresia catara-albigese, i cosiddetti “puri” per i quali c’era bisogno di essere autentici testimoni per dimostrare loro che avevano torto.
Lo scopo di Francesco è raggiungere Cristo passando per la cosa più semplice che sente di fare meglio: vivere quella povertà come stile di vita PER AMORE di Cristo e non come impeto di una moda del momento, non come ideologia. Il suo “piacere” non gli viene certo dalle privazioni in sè che sono per lui una vera sofferenza, una continua penitenza, ma da ciò che la privazione e tale sofferenza provoca nel suo cuore, facendolo sentire libero, totalmente, libero non di fare ciò che vuole, ma libero di andare verso Cristo, senza pesi, libero di aderire con questi sentimenti alla Chiesa e di sentirsi accolto, compreso dal “Signor Papa” al quale rimette a giudizio ciò che ritiene essere un “buon progetto”.
Tale povertà è così radicale per “contrastare lì piaceri dello mondo“, che san Francesco la invoca affettuosamente come “sposa”: rappresenta, quindi, una convivenza nuziale, una compagna per la vita, uno stile di vita che potesse convincere la gente che la povertà non è l’origine dei mali che affliggevano le popolazioni del suo tempo. Era semmai la schiavitù delle ricchezze, la schiavitù del possesso, la schiavitù del peccato a condurre verso una vita infelice ed inquieta, mentre la povertà evangelica, che non era altro che vivere da persone semplici e “povere di spirito”, arricchiva e donava il centuplo perchè, spiegava Francesco, “sollecita la Divina Provvidenza a farsi prodiga, in tutto”. Esisteva, pertanto, ed esiste la povertà dignitosa, una dignità nell’essere povero… che produce “valori salvifici”, produce frutti.
Attenzione a non confondere la povertà evangelica predicata e vissuta da Francesco con la miseria e la fame, causate dalla schiavitù del vizio e del peccato: non era questo che egli intendeva per povertà da “sposare”. Non a caso, nella regola definitiva, Francesco spiega ai suoi frati in modo chiaro e inequivocabile il suo concetto di povertà, quali ne siano i fondamenti e quali i valori salvifici: “I frati non si approprino di niente, né casa, né luogo, né cosa alcuna. E come pellegrini e forestieri, servendo in questo mondo al Signore in povertà e umiltà, vadano per elemosina con confidenza; e non sta bene che si vergognino, perché il Signore per amor nostro si fece povero in questo mondo. Questa è la vetta sublime di quell’altissima povertà, che ha fatto voi, fratelli carissimi, eredi e re del regno dei cieli, e, rendendovi poveri di sostanze, vi ha arricchito di virtù. Questa sia la vostra porzione che conduce nella terra dei viventi. E a essa, fratelli dilettissimi, totalmente stando uniti, nient’altro mai dovete, per il nome del Signor Nostro Gesù Cristo, cercare di possedere sotto il cielo”.
La radicalità di Francesco è chiara: Gesù si fece povero in questo mondo, ma non andava chiedendo l’elemosina materiale, piuttosto “mendicava cuori da convertire, mendicava anime e non disdiceva l’offerta di un pasto o di un invito a Nozze…”. Ecco allora che Francesco sente la necessità di andare oltre e per amore del Signore, che si fece umile e povero, è necessario che ci spogliamo di ogni vanità (appropriarsi di case e cose), per testimoniare l’amore totale a Lui. Non dobbiamo vergognarci di chiedere perché, chiedendo, sollecitiamo gli altri alla carità in nome di Cristo, questo è lo scopo di Francesco. Per lui il povero è un dono e, di conseguenza, egli si fa dono al prossimo.
Nel sontuoso inno Veni Creator, la Chiesa canta: “Vieni, Padre dei poveri”. Francesco dà prova di conoscere le Scritture e conosce i due concetti di povertà biblica: quella effettiva e quella spirituale; sa che quei due concetti sono inseparabili e che può viverli entrambi arricchendoli vicendevolmente e ottenendo da Dio ogni favore.
Diceva santa Teresa del Bambin Gesù: “La santità non consiste in tale o tal’altra pratica, bensì consiste in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli nelle braccia di Dio, consci della nostra debolezza e fiduciosi fino all’impudenza nella sua bontà di Padre….Quello che piace (al Buon Dio) nella mia anima, è il vedermi amare la mia piccolezza e povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia e nella sua provvidenza…Non temere; rinuncia a tutto ciò che puoi, perchè più sarai povero e più sarai amato da Gesù.”
QUINDI, DOVE DIAVOLO STA QUESTO FRANCESCO “MARXISTA”? PER TACER DI QUELLO “PACIFISTA”
Nulla a che vedere con lo schema marxista!
Visto che a proposito ha parlato il papa, lasciamo dire a lui direttamente. Spiega, infatti, Benedetto XVI nella Deus Caritas Est, la sua prima enciclica:
“Il marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei mezzi di produzione — si asseriva in tale dottrina — doveva improvvisamente andare tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell’economia, la Dottrina Sociale della Chiesa è diventata un’indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa […]
L’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno […]
Il programma di Gesù è « un cuore che vede ». Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente […] La carità, inoltre, non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza […]
È venuto il momento di riaffermare l’importanza della preghiera di fronte all’attivismo e all’incombente secolarismo di molti cristiani impegnati nel lavoro caritativo. Ovviamente, il cristiano che prega non pretende di cambiare i piani di Dio o di correggere quanto Dio ha previsto. Egli cerca piuttosto l’incontro con il Padre di Gesù Cristo, chiedendo che Egli sia presente con il conforto del suo Spirito in lui e nella sua opera […]
Fede, speranza e carità vanno insieme. La speranza si articola praticamente nella virtù della pazienza, che non vien meno nel bene neanche di fronte all’apparente insuccesso, ed in quella dell’umiltà, che accetta il mistero di Dio e si fida di Lui anche nell’oscurità”.
Nulla a che vedere con il pacifismo, dunque: il suo stile di vita è sofferenza e penitenza, ma con “Laude e gaudio”. San Francesco, come Gesù, era pacifico, ma non lesinava parole severe, come abbiamo potuto leggere sopra, quando c’era da predicare la Salvezza al prossimo. Non imponeva a nessuno il suo stile di vita, ma la sua testimonianza personale conduceva gli altri a seguirlo, come, del resto, avveniva per tutti i grandi santi Fondatori e Fondatrici della Chiesa.
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Ma poi, s.Francesco,era davvero il cicciobello che dicono?(PARTE 2)

MA POI, SAN FRANCESCO,
ERA DAVVERO IL CICCIOBELLO CHE DICONO?
S. Francesco d’Assisi:
da santo stigmatizzato a santo “mutilato”
Avete capito male: l’Indulgenza riguardava la pena non l’assoluzione dei peccati. Benedetto XVI: quella preghiera che sapevo certamente esaudita. E dinanzi al Francesco trasformato in lacchè dei cattocomunisti (alla Bernabei), pure Sandro Magister perse la pazienza. I frati talvolta parlano senza capire, ok; ma Chiara Frugoni, invece, parla capendo benissimo (di mentire). Gli hanno tolto la preghiera, l’adorazione, la penitenza, la croce; l’hanno lasciato solo a parlare con gli animali: un matto! Cosa resta dell’antico carisma francescano nei suoi figli religiosi: in cosa lo hanno tradito? Il tradimento più grande (per tacer del pollo sgozzato sull’altare). E “alli boni frati” il papa tolse la bandiera della pace… secondo il mondo (quella di Lucifero). Il papa ricorda ai francescani di Assisi che la devono piantare col Francesco “mutilato” anzichè “stigmatizzato”. A proposito: vogliamo parlare del “Tau”?! no, non è la stessa cosa di una testa mozza di Che Guevara. Concludiamo con un canto francescano: falso (naturalmente)
di Tea Lancellotti
AVETE CAPITO MALE: L’INDULGENZA RIGUARDAVA LA PENA NON L’ASSOLUZIONE DEI PECCATI…
Curiosa espressione di papa Onorio III mentre ascolta interessato questo fraticello sui generis: Francesco l’assisiate
Chi è il vero san Francesco? in cosa è l’immagine per antonomasia dell’ortodossia portata allo zelo estremo?
Il vero san Francesco, oggi, a mio parere, lo ritroviamo nel “Perdono di Assisi” dove ritengo sia racchiuso tutto il suo essere e il suo pensiero.
Illuminante, in tal senso, è l’opuscolo che nel 2005 Benedetto XVI ha dedicato proprio a questo “Perdono d’ Assisi”, riproponendo, per altro, la sua stessa esperienza.
“Voglio mandarvi tutti in Paradiso”: in questa affermazione si trova il vero san Francesco, con tutto quello che, naturalmente, comporta perché in Paradiso non si va se non per la via stretta dell’ortodossia dei Comandamenti – tutti: nessuno è escluso – che è la via “ordinaria”. Non ci si va senza penitenza, non ci si va se non si è “poveri” bisognosi del Perdono, della misericordia di Dio…
Possiamo citare brevemente il passo dalle Fonti:
(FF 3391-3397): «Insieme ai vescovi dell’Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, Francesco disse tra le lacrime: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in paradiso!”». Poco prima, il santo si era recato dal papa Onorio III, che in quei giorni si trovava a Perugia, per chiedergli il privilegio dell’indulgenza plenaria per tutti coloro che in stato di grazia, nel giorno del 2 agosto, avrebbero visitato questa chiesetta, dove egli viveva in povertà, aveva accolto s. Chiara, fondato l’Ordine dei Minori per poi inviarli nel mondo come messaggeri di pace. Alla domanda del Papa: «Francesco, per quanti anni vuoi questa indulgenza?», il santo rispose: «Padre Santo, non domando anni, ma anime». E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: «Come, non vuoi nessun documento?». E Francesco: «Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento; questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni».
Per lucrare l’indulgenza occorre essere in “stato di grazia”: più chiaro di così non si può! Nessuno sconto al peccato. L’indulgenza riguarda infatti la pena, non l’assoluzione dei peccati senza essersi confessati e senza essersi convertiti.
BENEDETTO XVI: QUELLA PREGHIERA CHE SAPEVO CERTAMENTE ESAUDITA
Un successore di Onorio III, Benedetto XVI spiega ad Assisi di nuovo “alli boni frati” chi era il Fondatore che hanno sfigurato
Racconta il papa Benedetto XVI, in un passo molto significativo perchè parla anche di se stesso:
“Qui devo aggiungere che nel corso del tempo l’indulgenza, in un primo momento riservata solo al luogo della Porziuncola, fu poi estesa prima a tutte le chiese francescane e, infine, a tutte le chiese parrocchiali per il 2 agosto. Nei ricordi della mia giovinezza il giorno del perdono d’Assisi è rimasto come un giorno di grande interiorità, come un giorno in cui si ricevevano i sacramenti in un clima di raccoglimento personale, come un giorno di preghiera. Nella piazza antistante la nostra chiesa parrocchiale in quel giorno regnava un silenzio particolarmente solenne. Entravano e uscivano in continuazione persone dalla chiesa. Si sentiva che il cristianesimo è grazia e che questa si dischiude nella preghiera. Indipendentemente da ogni teoria sull’indulgenza (qui vi suggeriamo di leggere il testo integralmente perché spiega altre cose interessanti), era quello un giorno di fede e di silenziosa speranza, di una preghiera che si sapeva certamente esaudita e che valeva soprattutto per i defunti…”
Che cosa è stato portato alle estreme conseguenze?
Non è semplice racchiudere una risposta esauriente in poche righe e, in parte, quello che occorre dire è stato spiegato nella prima parte dell’articolo [vedi nella home la Parte 1]: la trasformazione di un “santo” in una una sorta di “mito, decattolicizzandolo” è già una risposta coraggiosa.
E DINANZI AL FRANCESCO TRASFORMATO IN LACCHÈ DEI CATTOCOMUNISTI (ALLA BERNABEI), PURE SANDRO MAGISTER PERSE LA PAZIENZA…
Il 10 ottobre 2007, Sandro Magister scrive un breve e durissimo attacco all’ennesimo tentativo di far passare san Francesco come “pacifista”. Rivediamone alcuni punti salienti.
San Francesco pacifista, ennesima bugia della tv.
– Ma che san Francesco è quello portato in tv dalla Lux Vide del “cattolicissimo” Ettore Bernabei? Quando il racconto ha toccato il tasto delle crociate, quel che sappiamo dai resoconti dell’epoca è stato capovolto come una frittata.
– Davanti al sultano Malik al-Kamil, san Francesco non chiese affatto perdono per l’offensiva dell’esercito cristiano. Dalla testimonianza di frate Illuminato, che l’accompagnò nella missione, sappiamo che il santo disse invece:
“I cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti più uomini potete. Se invece voi voleste conoscere, confessare e adorare il Creatore e Redentore del mondo, vi amerebbero come se stessi”.
– Quanto poi al dialogo interreligioso, sappiamo da san Bonaventura che san Francesco col sultano andò subito al sodo, mettendo nel conto che rischiava il martirio: “Predicò al Soldano il Dio uno e trino e il Salvatore di tutti, Gesù Cristo”.
E quando capì che nessuno gli dava retta? ‘Vedendo che non faceva progressi nella conversione di quella gente e che non poteva realizzare il suo sogno, preammonito da una rivelazione divina, ritornò nei paesi cristiani’.
– Contro le moderne “mutilazioni” di san Francesco è utile ripassare quanto ha detto Benedetto XVI ad Assisi, lo scorso 17 giugno:
‘Perché san Francesco ‘è un vero maestro’ per i cristiani d’oggi”.
Confesso che non conosco il Bernabei citato da Sandro Magister, ma conosco molti francescani che hanno predicato il medesimo Francesco pacifista, e spesso nelle omelie domenicali; così come ho conosciuto, è giusto dirlo, alcuni (purtroppo pochi) che si mantengono all’interno dell’ortodossia di un san Francesco ecclesiale e dottrinale.
I FRATI TALVOLTA PARLANO SENZA CAPIRE, OK. MA CHIARA FRUGONI, INVECE, PARLA CAPENDO BENISSIMO (DI MENTIRE)
E’ onesto sottolineare che le voci peggiori di un Francesco “distorto” non provengono dai suoi frati (molti dei quali hanno avuto “solo” la debolezza di sposarne un’immagine deformata perché, spesso, il vero san Francesco non è conosciuto neppure da loro), ma da una storica medievista italiana, Chiara Frugoni, che sul santo ne ha scritte di cotte e di crude, spingendosi perfino a parlare di “invenzione delle stimmate”. E’ lei oggi la principale “fonte” – specialmente in campo catto-progressista – del Francesco pacifista, del Francesco contro il papato, contro le Crociate, perfino contro le Indulgenze. Tanto per fare un esempio, spiega la Frugoni:
«Francesco non era un asceta. Ammirava il creato. Amava il cibo, purché consumato con parsimonia. Quando sta per morire chiede a una matrona romana, sua amica spirituale: “Portami quei mostacciòli, che mi piacciono tanto!”. E lei glieli offre. In un tempo in cui tutti sono molto osservanti quanto a regole ed astinenze, dice ai suoi: “Se vi offrono un pollo di venerdì, mangiatelo, perché è essenziale che percepiate la carità di chi lo offre”. Un novizio, dedito a digiunare per sacrificio, una certa notte si sente morire. Lui, Francesco, lo rimprovera: “Non fare più così”. Poi fa accendere le lucerne e indice una cena con tutti i frati». Un agguato in pieno stile progressista: ideologico e autodemolitorio. Vediamo come stanno veramente le cose.
C’è del vero nei racconti sul santo (a parte la storia di un Francesco morente che, in mezzo agli spasmi del dolore, chiede i mostaccioli: altre fonti, infatti, sostengono che il racconto non sia vero), ma questi vanno letti nel contesto. Come abbiamo spiegato in precedenza, Francesco “sposa” la povertà e di conseguenza sa benissimo che non può imporla a nessuno: la povertà non è il suo scopo, bensì un mezzo. Se c’è qualcuno che non resiste, la carità e l’umiltà di riconoscere il proprio limite conducono alla seconda povertà biblica, quella del cuore. In tal senso la prova del digiuno e la prova dell’estrema povertà hanno prodotto l’effetto che ci si prefiggeva: l’umiltà del riconoscersi limitati (Francesco non attribuisce mai a se stesso i meriti del suo successo nella penitenza), la semplicità, la povertà di spirito.
Come è stato già ricordato, il tempo in cui visse il santo è quello dei Catari-Albigesi, i “puri”, per i quali il digiuno era lo scopo, era uno strumento di tortura e di ricatto, era un obbligo anche di fronte alla malattia, essendo il fondo della loro dottrina eretica, nemico della vita stessa, sostanzialmente tendente alla distruzione fisica, al suicidio (è loro la teoria che non ci si debbe più riprodurre). San Francesco invece non fa altro che comportarsi come dice Cristo: “In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”» (Lc 10, 5-9). E’ ovvio che, per Francesco, la pratica dell’autentica povertà si applica principalmente all’interno della comunità, proprio perché ci si può anche aiutare nel perseguire tale virtù. E, quando si va in giro a predicare, occorre raccogliere anche la carità della gente, il cibo che le persone possono offrire…
GLI HANNO TOLTO LA PREGHIERA, L’ADORAZIONE, LA PENITENZA, LA CROCE. L’HANNO LASCIATO A PARLARE SOLO CON GLI ANIMALI: UN MATTO!
Tutto questo non può essere usato per dire che san Francesco non era un’asceta! Ed anche se “ammirare il creato” non fa di lui un asceta, egli lo era ogni volta che leggeva la Scrittura perché la “incarnava in sè”, gli dava vita, gli diventava via, gli indicava la Verità. Togliendo al Francesco ecclesiale la preghiera, che era il suo vero e principale nutrimento, togliendogli l’adorazione, che faceva sovente ai piedi del Crocefisso e davanti al Tabernacolo, è ovvio che lo si trasforma in un pacifista sornione, in un visionario che parlava agli animali… un matto inoffensivo, in pratica.
La Frugoni, da studiosa e ideologa, riporta dei fatti raccolti dalle fonti, ufficiali e non. Tuttavia il suo errore consiste nell’interpretazione che offre di questi, mettendo in bocca a Francesco il suo personale anticlericalismo, nemmeno troppo velato, trasformando il santo in un rivoluzionario assai particolare, insofferente verso la Chiesa…
Secondo la medievista, Francesco non attacca direttamente la Chiesa, ma “la contesta nei fatti”. Spiega, ad esempio, che la richiesta del Perdono di Assisi in realtà era contro le Indulgenze, interpretando, a modo suo, la frase a noi già nota (la riportiamo ancora, ripetersi serve talora): «Francesco, per quanti anni vuoi questa indulgenza?», il Santo rispose: «Padre Santo, non domando anni, ma anime». E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: «Come, non vuoi nessun documento?». E Francesco: «Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento; questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni». Questa ripetizione, vi è stata utile o no, a capire da voi stessi, la malafede dell’interpretazione dell’ideologa medievista Frugoni? Rileggete, in caso.
In verità, spiega papa Ratzinger, la richiesta di Francesco serviva proprio per facilitare i poveri, coloro che non potevano recarsi in Terra Santa o in nessun altro Pellegrinaggio per ottenere le indulgenze. Pertanto, le disposizioni sul come lucrare un’indulgenza non vengono affatto contestate dal santo, ma egli chiede al Papa un nuovo metodo che favorisca i poveri e il Papa viene incontro alla sua richiesta. Questa – e solo questa – è l’interpretazione!
L’immagine di un Francesco pio e devoto sarebbe, invece, per la Frugoni, una invenzione di san Bonaventura. Pur facendo molte ricerche, trovo assolutamente inspiegabile perché la studiosa non abbia trovato “prove” di un altro santo che smentisca la santità di vita che san Bonaventura ha attribuito a Francesco!
Resta palese che la cosiddetta “questione francescana” è purtroppo una realtà, causata dalla spaccatura interna ai tre Ordini, molto in competizione fra loro, tale da spingere ognuno di essi a dipingersi un Francesco a propria immagine, seguendo le mode del momento.
Ciò che è importante è, come diciamo sempre, la “parola della Chiesa e la sua interpretazione”. Pietro Valdo, ad esempio, sarà stato pure un santo per molti nei gesti e nelle intenzioni, ma resta scritto “in terra e in cielo” che era un eretico! Al contrario, Francesco – insieme a tutti i santi, di cui la Chiesa ha redatto le motivazioni per le canonizzazioni, che sono un atto dell’infallibilità stessa – è veramente santo. Probabilmente è vero che spesso rasentava il rischio di oltrepassare i limiti consentiti, come è stato già spiegato, ma è proprio quando i limiti non vengono superati (e la volontà umana resta fedele all’ortodossia della fede) che la persona diventa santa. Per tutti i santi valgono le parole dell’Apostolo Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede…”: naturalmente, la fede della Chiesa Cattolica e nessun’altra.
COSA RESTA DELL’ANTICO CARISMA FRANCESCANO NEI SUOI FIGLI RELIGIOSI. IN COSA LO HANNO TRADITO?
Non sono una francescana (semmai, sono una terziaria domenicana): pertanto non avrei diritto di rispondere a queste domande, ma siamo “ecclesiali” e, in questa “Comunione dei Santi”, abbiamo il dovere della correzione fraterna e di segnalare ciò che ci appare anomalo.
Torniamo a quello che diceva Francesco e che è stato già riportato in precedenza.
Cap II delle Fonti Francescane: Guai a quelli che non fanno penitenza.
[178/4] Tutti quelli e quelle, invece, che non vivono nella penitenza, e non ricevono il corpo e il sangue del Signore nostro Gesù Cristo, e si abbandonano ai vizi e ai peccati e camminano dietro la cattiva concupiscenza e i cattivi desideri della loro carne, e non osservano quelle cose che hanno promesso al Signore, e servono con il proprio corpo al mondo, agli istinti carnali ed alle sollecitudini del mondo e alle preoccupazioni di questa vita: costoro sono prigionieri del diavolo del quale sono figli e fanno le opere; sono ciechi, poiché non vedono la vera luce, il Signore nostro Gesù Cristo. Non hanno la sapienza spirituale, poiché non posseggono il Figlio di Dio, che è la vera sapienza del Padre; di loro è detto: ” La loro sapienza è stata ingoiata” e: ” Maledetti coloro che si allontanano dai tuoi comandamenti”. Essi vedono e riconoscono, sanno e fanno ciò che è male, e consapevolmente perdono la loro anima.
[178/5] Vedete, o ciechi, ingannati dai vostri nemici, cioè dalla carne, dal mondo e dal diavolo, che al corpo è cosa dolce fare il peccato e cosa amara sottoporsi a servire Dio, poiché tutti i vizi e i peccati escono e procedono dal cuore degli uomini, come dice il Signore nel Vangelo. E non avete niente in questo mondo e neppure nell’altro. E credete di possedere a lungo le vanità di questo secolo, ma vi ingannate, perché verrà il giorno e l’ora alla quale non pensate, non sapete e ignorate. Il corpo si ammala, la morte si avvicina e così si muore di amara morte.”
[178/7] ” Tutti coloro ai quali perverrà questa lettera, li preghiamo, nella carità che è Dio, che accolgano benignamente con divino amore queste fragranti parole del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo scritto. E coloro che non sanno leggere, se le facciano leggere spesso, e le imparino a memoria, mettendole in pratica santamente sino alla fine, poiché sono spirito e vita. Coloro che non faranno questo, dovranno renderne, ragione nel giorno del giudizio, davanti al tribunale del Signore nostro Gesù Cristo.”
Io credo che queste raccomandazioni di Francesco siano state abbondantemente e “tradite” oggi dai suoi per le seguenti ragioni:
-la penitenza è stata congedata dalle prediche e dalle catechesi;
– il demonio, la sua azione, l’inferno, sono stati messi al bando;
– parlare dei vizi è diventato un tabù o, peggio, antifrancescano.
IL TRADIMENTO PIÙ GRANDE (PER TACER DEL POLLO SGOZZATO SULL’ALTARE)
ASSISI 1986. Uno dei giorni più neri del cattolicesimo del XX secolo: l’idolo buddista è posto sull’altare della basilica di Assisi, dopo che per “rispetto” (verso l’idolo) li “boni frati”, avevano scacciato il Santissimo dal Tabernacolo. Li “boni frati” si inginocchiarono all’idolo. Oggi non si inginocchiano più neppure alla consacrazione.
Resiste il “Perdono di Assisi”, forse perché è un fatto ecclesiale e non prettamente di “proprietà” francescana: le concessioni le ha fatte il Papa. Inoltre, si può lucrare non solamente recandosi alla Porziuncola, ma in ogni Chiesa parrocchiale. Quindi, il francescanesimo non ne ha il monopolio perché il “Perdono di Assisi” è diventato una “pratica ecclesiale”.
Il tradimento più grande credo, però, sia in quel sincretismo religioso che ha fatto di Assisi la sua capitale. Mi si obbietterà: “guarda che l’ha voluto il Papa”. Certo. Il Papa ha voluto l’incontro interreligioso-ecumenico, ma in quali termini lo ha pensato il Santo Padre e in quali modi, invece, lo hanno realizzato i francescani?
Vittorio Messori riportò il triste episodio accaduto ad Assisi nel 1986: durante il Meeting interreligioso che lì si celebrava, “li boni frati” pensarono di far cosa buona e giusta di ospitare i non cattolici. Fin qui nulla di male: questa era la richiesta del Papa e l’ospitalità non si nega a nessuno. Il problema sopraggiunse, però, quando “li boni frati”, di loro iniziativa, prestarono ai non cattolici l’altare dedicato a santa Chiara, sul quale “sacerdoti” animisti non meglio identificati sgozzarono un pollo per fare il loro sacrificio propiziatorio…
C’è anche un altro episodio poco piacevole. Quello della statua di Budda, messa sull’altare davanti alla tomba di san Francesco, con tanto di ceri accesi, mentre “li boni frati” osservavano attenti la cerimonia sincretista. Dalle foto, rarissime e fatte sparire presto, si vedeva bene perfino qualche frate in ginocchio! Gli stessi che sarebbero capaci pure di prenderti a calci se ti inginocchi a ricevere l’eucarestia, e che peggio, in moltissimi casi, oggi neppure si inginocchiano quando è previsto dal canone alla consacrazie eucaristica. Solo un benedettino lì presente si ribellò a questo sacrilegio osceno, lo additarono come pazzo, “li boni frati”, e lo fecero trascinare via dai carabinieri.
E “ALLI BONI FRATI” IL PAPA TOLSE LA BANDIERA DELLA PACE… SECONDO IL MONDO (QUELLA DI LUCIFERO: CHE PREPARA LA GUERRA)
Faccio notare che appena eletto Papa, Benedetto XVI il primo Motu Proprio che scrive e firma (19.11.2005), con l’urgenza di essere immediatamente applicato, è proprio su Assisi, su “li boni frati” e sull’obbedienza che devono al vescovo, naturalmente dopo aver sostituito anche il vescovo….
Da quel momento ci saranno altri cambiamenti. Per esempio, la bandiera della pace: una truffa sincretista, bambinescamente adottata da “li boni frati”, portata in giro come in trionfo e usata perfino come “tovaglia per l’altare” o per accogliere i giovani nelle Messe del Pontefice. Ebbene: Benedetto XVI la farà eliminare dalle manifestazioni cattoliche ecclesiali.
Possiamo dire, senza ombra di dubbio, che il Papa è arrivato a toccare i punti nevralgici di un’esasperazione francescana spinta “ai limiti del sopportabile”, per nulla fedele allo “spirito del Fondatore”. Tuttavia, ciò che ancora il Papa non ha toccato è la modalità evangelizzatrice interna al francescanesimo modernista. Non credo che ci arriverà con ulteriori atti magisteriali: al Papa sta a cuore l’elemento ortodosso di livello ecclesiale dal quale, spera, si diparta l’autentica Riforma atta a ripulire ogni comunità, non solo Francescana, della Chiesa, dagli abusi seminati in questi ultimi 40 anni…
Come è stato ampiamente mostrato, l’identità di Francesco è stata compromessa. Ne è prova sia l’attenzione che il Papa ha dedicato al santo in diverse Catechesi, centrate proprio sul Francesco storico ed ecclesiale, e sia la visita dello stesso Benedetto XVI ha fatto ad Assisi in occasione (una coincidenza?) dell’Ottavo centenario della conversione di Francesco, nel 2007.
IL PAPA RICORDA AI FRANCESCANI DI ASSISI CHE LA DEVONO PIANTARE COL FRANCESCO “MUTILATO” ANZICHÈ “STIGMATIZZATO”
Nel Discorso tenuto al Capitolo Generale (altra coincidenza?), il Papa ha esordito con queste parole:
Con la mia odierna visita, infatti, ho voluto sottolineare il significato di questo evento, al quale occorre sempre ritornare, per comprendere Francesco e il suo messaggio. Egli stesso, quasi a sintetizzare con una sola parola la sua vicenda interiore, non trovò concetto più pregnante di quello di penitenza: “Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così” (Testamento,1: FF 110). Egli dunque si percepì essenzialmente come un “penitente”, in stato, per così dire, di conversione permanente.[…] Sia dunque per ogni figlio di San Francesco saldo principio quello che il Poverello esprimeva con le semplici parole: “La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo (Rb I,1: FF 75).
Al Clero di Assisi, nel suo Discorso, il Papa, con la sua ferma mitezza, ha espresso chiaramente il nucleo di un tradimento allo spirito autentico di Assisi, dicendo:
I milioni di pellegrini che passano per queste strade attirati dal carisma di Francesco, devono essere aiutati a cogliere il nucleo essenziale della vita cristiana ed a tendere alla sua “misura alta”, che è appunto la santità. Non basta che ammirino Francesco: attraverso di lui devono poter incontrare Cristo, per confessarlo e amarlo con “fede dritta, speranza certa e caritade perfetta” (Preghiera di Francesco davanti al Crocifisso, 1: FF 276). I cristiani del nostro tempo si ritrovano sempre più spesso a fronteggiare la tendenza ad accettare un Cristo diminuito, ammirato nella sua umanità straordinaria, ma respinto nel mistero profondo della sua divinità. Lo stesso Francesco subisce una sorta di mutilazione, quando lo si tira in gioco come testimone di valori pur importanti, apprezzati dall’odierna cultura, ma dimenticando che la scelta profonda, potremmo dire il cuore della sua vita, è la scelta di Cristo. Ad Assisi, c’è bisogno più che mai di una linea pastorale di alto profilo.
[…] è chiaro che la vocazione dialogica di Assisi è legata al messaggio di Francesco, e deve rimanere ben incardinata sui pilastri portanti della sua spiritualità. In Francesco tutto parte da Dio e torna a Dio. Le sue Lodi di Dio altissimo rivelano un animo costantemente rapito nel dialogo con la Trinità. Il suo rapporto con Cristo trova nell’Eucaristia il luogo più significativo. Lo stesso amore del prossimo si sviluppa a partire dall’esperienza e dall’amore di Dio.
[…] Francesco è un uomo per gli altri, perché è fino in fondo un uomo di Dio. Voler separare, nel suo messaggio, la dimensione “orizzontale” da quella “verticale” significa rendere Francesco irriconoscibile…
Non sembrano, queste, parole di circostanza o dette “per caso”: esse ci spiegano bene il nucleo del problema.
A PROPOSITO: VOGLIAMO PARLARE DEL “TAU”?! NO, NON È LA STESSA COSA DI UNA TESTA MOZZA DI CHE GUEVARA
Un’ultima riflessione mi sia concessa per il Tau, l’ormai famosa “croce” francescana, che, senza voler giudicare il cuore delle persone, è portata più per superstizione o come talismano, anziché essere usata con lo spirito sensibile di Francesco. Ma cosa significava il tau per il santo di Assisi?
Il tau è l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico. Esso venne adoperato con valore simbolico sin dall’Antico Testamento. Se ne parla già nel libro di Ezechiele: “Il Signore disse: Passa in mezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme e segna un Tau sulla fronte degli uomini che sospirano e piangono…” (Ez.9,4). Esso è il segno che, posto sulla fronte dei poveri di Israele, li salva dallo sterminio: san Francesco lo collega subito anche al passo dell’Apocalisse 7,2-3 dove si parla di un sigillo posto sulla fronte e lo identifica quale segno di redenzione, segno esteriore di quella novità di vita cristiana, più interiormente segnata dal Sigillo dello Spirito Santo, dato a noi in dono il giorno del Battesimo (Ef.1,13).
Esso fu adottato prestissimo dai cristiani e, per la verità, prima del Crocefisso. Tale segno si trova già nelle catacombe a Roma. I primi cristiani adottarono il Tau perché, come ultima lettera dell’alfabeto ebraico, era una profezia dell’ultimo giorno ed aveva la stessa funzione della lettera greca Omega, come appare dall’Apocalisse: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine. A chi ha sete io darò gratuitamente dal fonte dell’acqua della vita… Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine” (Ap.21,6; 22,13).
San Francesco d’Assisi, per lo stesso motivo, faceva riferimento al Cristo, l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine, anzi il fine: per la somiglianza che il Tau ha con la croce, ebbe carissimo questo segno, tanto che esso occupò un posto rilevante nella sua vita come pure nei gesti.
Vi è da dire, però, che se il Tau era per Francesco “il segno, il simbolo” – tanto da usarlo anche come firma nelle lettere – il Crocefisso era l’oggetto della sua adorazione: davanti a Lui si inginocchiava, trascorrendo molte ore e aspettando spesso anche risposte alle sue domande. Il tau, dunque, non sostituisce il Crocefisso, come taluni erroneamente credono trasformandolo in una sorta di feticcio. Portare il Tau significa avere risposto sì alla volontà di Dio di salvarci, accettare la sua proposta di salvezza: significa, quindi, convertirci a Gesù Cristo – incarnato, morto e risorto – e non ad una sua immagine generica, privandolo, come spesso avviene, della Sua Sposa, la Chiesa…
CONCLUDIAMO CON UN CANTO FRANCESCANO. FALSO (NATURALMENTE)
Per concludere, come ciliegina sulla torta, non possiamo dimenticare il famoso canto attribuito a san Francesco: Signore fa’ di me uno strumento della tua pace. E’ uno di quei fiori all’occhiello, fino a qui descritti, di un Francesco “mitico” e pacifista, che nulla ha a che vedere con quello autentico.
Roberto Beretta, in un articolo intitolato Gli apocrifi del Poverello (Avvenire 9 gennaio 2002, p.23), ha scritto:
Tutti conoscono la cosiddetta “Preghiera semplice” – quella che suona: “Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace. Dove è odio, fa’ che io porti l’amore…”- e quasi tutti ne allegano la paternità all’autore del “Cantico delle creature”. Gli storici, peraltro, e gli addetti ai lavori hanno sempre saputo invece che tale suggestiva orazione è tutt’altro che francescana: infatti ha un secolo d’anzianità al massimo e non è stata neppure composta da un frate minore; l’attribuzione al Poverello si deve al fatto accidentale che essa fu stampata una volta sul retro di un santino di Francesco d’Assisi…
Certo: la “Preghiera semplice” è un inno alla pace, all’amore, insomma alle virtù cristiane che ben corrispondono all’immagine di san Francesco divulgata popolarmente. Ma si tratta comunque di uno stereotipo: è corretto alimentarlo senza ricorrere alle fonti originali? Padre Willibrord-Christian van Dijk, un cappuccino che ha studiato la vicenda della “Preghiera semplice” per 40 anni, ha notato, per esempio, la stranezza di attribuire a un “santo che passa per essere un grande mistico cristiano un testo che non s’indirizza a Gesù Cristo e nemmeno lo nomina, né vi si trova alcuna citazione evangelica o biblica”. Osservazione pertinente, visto che tutte le preghiere autentiche di Francesco sono nient’altro che centoni di frasi desunte dalle Scritture e/o dalla liturgia…
San Francesco non è un “archetipo” astratto, bensì un personaggio storico; e come tale merita di essere trattato anche nell’esame dei suoi scritti. Con metodo rigoroso, infatti, lo studioso francese arriva a risultati pressoché definitivi sull’origine della “Preghiera semplice”: la sua più antica stampa conosciuta risale al dicembre 1912, quando l’orazione comparve sulla pia rivista parigina La Clochette (“La campanella”), bollettino mensile della Lega della Santa Messa: era anonima, ma forse attribuibile al direttore del periodico stesso, il prete poligrafo normanno Esther Auguste Bouquerel.
Di lì a poco la strofetta fu ripresa da un’altra rivista francese e quindi, nel 1916, sulla prima pagina dell’Osservatore romano, che la lanciò internazionalmente come invocazione per la pace.
L’abbinamento col saio del grande Assisate avviene dopo il 1918, quando il cappuccino padre Etienne Benoit stampa il testo dell’orazione sul retro di un’immaginetta destinata al suo terz’ordine e recante in facciata la figura del Fondatore: “Questa preghiera riassume meravigliosamente la fisionomia esterna del vero figlio di san Francesco”, scrive il religioso. E’ un santino, dunque, l’origine della falsa attribuzione francescana, che però diventa esplicita per la prima volta nel 1927 in una pubblicazione protestante: i cattolici infatti rifiuteranno tale abusiva paternità almeno fino agli anni Cinquanta…”
Chiudiamo così, con un falso, uno dei tanti, questa ricapitolazione del Francesco autentico.
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Nonostante i buoni proclami, perchè non mi fido? Perchè togliendo il denaro di mezzo entrerebbe dalla finestra il microchip
Papa Francesco: “Basta con feticismo del denaro, corruzione e evasione”
Il pontefice attacca “la dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano”. Per Bergoglio “si instaura una nuova tirannia invisibile che impone leggi e regole” invece “il denaro deve servire e non governare”. Altrimenti l’uomo rischia di essere considerato “come un bene di consumo che si può usare e poi gettare”
di Francesco Antonio Grana | 16 maggio 2013
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“L’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del denaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente umano”. È la dura analisi che Papa Francesco ha fatto ricevendo, stamane in Vaticano, i nuovi ambasciatori accreditati presso la Santa Sede. Bergoglio ha condannato duramente la “corruzione tentacolare” e “l’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali”, sottolineando che dietro questi atteggiamenti “si nasconde il rifiuto dell’etica“. “Si deve lottare per vivere – ha sottolineato Francesco – e spesso per vivere in modo non dignitoso”.
Per il Papa una delle cause principali di questa situazione è il rapporto che l’uomo ha con il denaro, “nell’accettare il suo dominio su di noi e sulle nostre società”. L’attuale crisi finanziaria, ha spiegato Francesco, ha origine in una profonda crisi antropologica che riduce “l’uomo a una sola delle sue esigenze: il consumo. E peggio ancora, oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare”. Così, ha sottolineato Bergoglio, “la solidarietà, che è il tesoro dei poveri, è spesso considerata controproducente, contraria alla razionalità finanziaria ed economica. Mentre il reddito di una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio – ha spiegato ancora il Papa – deriva da ideologie che promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento e il credito allontanano i Paesi dalla loro economia reale e i cittadini dal loro potere d’acquisto reale”.
L’auspicio del Papa è quello di “realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma economica salutare per tutti. Questa tuttavia richiederebbe un coraggioso cambiamento di atteggiamento dei dirigenti politici”. “Il denaro – ha sottolineato con forza Francesco – deve servire e non governare!”.
Nell’omelia dell’ormai consueta Messa mattutina celebrata nella Casa Santa Marta in Vaticano, stamane Francesco ha sottolineato che “anche nella Chiesa ci sono cristiani tiepidi”. “Ci sono – ha affermato il Papa – i cristiani da salotto, no? Quelli educati, tutto bene, ma non sanno fare figli alla Chiesa con l’annunzio e il fervore apostolico”. Francesco ha invitato i fedeli presenti a chiedere “la grazia di dare fastidio alle cose che sono troppo tranquille nella Chiesa; la grazia di andare avanti verso le periferie esistenziali. E se diamo fastidio – ha concluso il Papa – benedetto sia il Signore”.
@FrancescoGrana
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Papa: non si può servire Dio e il danaro
Denaro corrompe, indebolisce fede e testa, crea invidie
20 settembre, 18:49
CITTA’ DEL VATICANO – Il denaro corrompe, e l’idolatria del danaro allontana da Dio e indebolisce la fede e il pensiero. Non si può servire Dio e il denaro, e ”questo non è comunismo”. Il danaro poi suscita invidie, gelosie e tormenti. Lo ha detto il Papa nella messa a Santa Marta. Stralci della omelia sono pubblicati dalla Radiovaticana. “Non si può servire Dio e il denaro”, ha detto papa Francesco commentando le parole di san Paolo. C’è qualcosa “nell’ atteggiamento di amore verso il denaro – ha osservato – che ci allontana da Dio”. Ci sono “tante malattie, tanti peccati, ma Gesù – ha detto – su questo sottolinea tanto”: “l’avidità del denaro, infatti, è la radice di tutti i mali”. Presi da “questo desiderio”, ha constatato il Papa, “alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti”. E con amarezza ha aggiunto: “E’ tanto il potere del denaro, che ti fa deviare dalla fede, pure”, addirittura “ti toglie la fede: la indebolisce e tu la perdi!”.”Il denaro anche ammala il pensiero, anche ammala la fede e la fa andare per un’altra strada. Queste parole oziose, discussioni inutili… E va più avanti… Da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi, i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la religione come fonte di guadagno. ‘Io sono cattolico, io vado a Messa, perché quello mi dà un certo status. Sono guardato bene… Ma sotto faccio i miei affari, no? Sono un cultore del denaro’. E qui dice una parola, che la troviamo tanto, tanto frequentemente sui giornali: ‘Uomini corrotti nella mente’. Il denaro corrompe! Non c’è via di uscita”. Se scegli “la via del denaro”, ha aggiunto, “alla fine sarai un corrotto”.
Il denaro, ha detto ancora, “ha questa seduzione di farti scivolare lentamente nella tua perdizione”. “‘Non puoi servire Dio e il denaro’. Non si può: o l’uno o l’altro! Questo non è comunismo, eh! Questo è Vangelo puro! Queste sono le parole di Gesù! Cosa succede col denaro? Il denaro ti offre un certo benessere all’inizio. Va bene, poi ti senti un po’ importante e viene la vanità. Lo abbiamo letto nel Salmo che viene questa vanità. Questa vanità che non serve, ma tu ti senti una persona importante: quella è la vanità. E dalla vanità alla superbia, all’orgoglio. Sono tre scalini: la ricchezza, la vanità e l’orgoglio”. “Nessuno – ha detto ancora – può salvarsi col denaro!”. Tuttavia, ha osservato, “il diavolo prende sempre questa strada di tentazioni: la ricchezza, per sentirti sufficiente; la vanità, per sentirti importante; e, alla fine, l’orgoglio, la superbia: è proprio il suo linguaggio la superbia”.
Divorziati,gay e aborto apertura di Francesco – La Chiesa del buon Samaritano, capace di ”chinarsi sulle ferite”. Più ”ospedale da campo” che ”laboratorio”. Sempre in frontiera, fatta di pastori e non di ”chierici di Stato”, pronta ad ascoltare i ”dubbi” dei veri profeti. E a guidarla un papa che dai suoi errori ha imparato a non essere ”autoritario”, che mette il ”Vangelo puro” prima delle riforme, che non giudica i gay, e per loro predica misericordia, come anche per i divorziati risposati e le donne che hanno abortito. E che intende il dialogo ecumenico anche come possibilità di imparare dagli altri cristiani, che pensa a cambiare il metodo di lavoro del sinodo e vuole che i dicasteri romani siano ”al servizio del Papa e dei vescovi”. Un papa gesuita, quindi capace di ”discernimento” e di ”creatività” Questa la Chiesa di Francesco, a sei mesi dall’elezione, come emerge da una amplissima intervista del papa latinoamericano al direttore di ”Civiltà cattolica”, Antonio Spadaro, frutto di tre colloqui distinti, e che sarà pubblicata in diverse riviste gesuite. L’intervista è davvero a tutto campo, e fornisce un quadro prezioso delle idee e della storia del Pontefice, dei suoi rapporti con la spiritualità gesuita, spiega molto di ciò che è stato Bergoglio e di ciò che potrebbe essere la sua riforma della Chiesa. ”Il mio modo autoritario e rapido di prendere decisioni – racconta – mi ha portato ad avere seri problemi e a essere accusato di essere ultraconservatore”.
Un’esperienza difficile che oggi mette a frutto: ha capito quanto sia importante ”la consultazione”: ”i Concistori, i Sinodi sono, ad esempio, luoghi importanti per rendere vera e attiva questa consultazione. Bisogna renderli però meno rigidi nella forma. Voglio consultazioni reali, non formali”. Quanto ai dicasteri romani, ”sono mediatori, non gestori”. ”Molti, ad esempio, – osserva il Papa chiarendo l’importanza dell’esercizio del discernimento, richiesto da sant’Ignazio, fondatore dei gesuiti – pensano che i cambiamenti e le riforme possano avvenire in breve tempo. Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di far dopo. Ed è ciò che è accaduto anche a me in questi mesi”. Tutta da leggere la parte sul tempo come luogo dove incontrare Dio, anziché cercare ”spazi da occupare”. Molto ampia la parte dell’intervista dedicata alla Chiesa, che non è ”una piccola cappella che può contenere solo un gruppetto di persone selezionate. Non dobbiamo ridurre – afferma con forza papa Bergoglio – il seno della Chiesa universale a un nido protettore della nostra mediocrità”. E qui la richiesta della Chiesa del Samaritano, che si chini sulle ferite, di pastori misericordiosi. ”Le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo. La prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento. I ministri del Vangelo devono essere persone capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi. Il popolo di Dio vuole pastori e non funzionari o chierici di Stato”. Papa Francesco spiega anche perché non insiste sui temi morali, come invece gli è stato rimproverato: una pastorale missionaria, ”non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza”. E ripropone una serie di considerazioni sulla Chiesa misericordiosa, feconda e madre, con espressioni efficaci e felici, quale ”il confessionale non è un luogo di tortura”. Molto spiega del papa latinoamericano il suo ”gesuita preferito”, quel Pietro Favre compagno di stanza di Ignazio negli anni di studio alla Sorbona. Il gesuita oggi vestito di bianco ne descrive così i tratti più impressivi: ”Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari; la pietà semplice, una certa ingenuità forse, la disponibilità immediata, il suo attento discernimento interiore, il fatto di essere un uomo di grandi e forti decisioni e insieme capace di essere così dolce”. (giovanna.chirri@ansa.it)
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Papa Francesco in Brasile condanna “la dittatura del denaro e del successo”
Nella meditazione di Bergoglio a Rio si possono leggere anche le riforme avviate in questi primi mesi per una “Chiesa povera e per i poveri”. E la parola “cambiamento” è quella ripetuta con più frequenza dai fedeli presenti per la Giornata mondiale della gioventù
“No agli idoli del denaro, del successo, del potere e del piacere”. È la dura condanna che Papa Francesco ha pronunciato nell’omelia della Messa celebrata nel Santuario della Madonna di Aparecida con la croce astile di Giovanni Paolo II, l’inventore delle Giornate Mondiali della Gioventù, nella mano sinistra. Città blindata per la visita del Pontefice argentino: cinquemila agenti e transenne nelle strade lungo il percorso del corteo papale. Ma Francesco ha rotto nuovamente il protocollo rifiutando l’auto coperta e scegliendo la jeep scoperta per non frapporre nessuna barriera tra lui e i fedeli. È lo stile Bergoglio che non muta nemmeno in trasferta e nonostante il pericolo sicurezza sperimentato già al suo arrivo a Rio de Janeiro lunedì scorso.
“Il male – ha affermato il Papa consacrando il suo pontificato alla Madonna – c’è nella nostra storia, ma non è lui il più forte. Il più forte è Dio, e Dio è la nostra speranza!”. “Spesso – ha sottolineato Bergoglio – un senso di solitudine e di vuoto si fa strada nel cuore di molti e conduce alla ricerca di compensazioni, di questi idoli passeggeri”. Ma l’invito di Francesco è ad avere “uno sguardo positivo sulla realtà. Incoraggiamo – ha proseguito il Papa – la generosità che caratterizza i giovani, accompagniamoli nel diventare protagonisti della costruzione di un mondo migliore: sono un motore potente per la Chiesa e per la società. Non hanno bisogno solo di cose, hanno bisogno soprattutto che siano loro proposti quei valori immateriali che sono il cuore spirituale di un popolo, la memoria di un popolo. In questo Santuario, che fa parte della memoria del Brasile, li possiamo quasi leggere: spiritualità, generosità, solidarietà, perseveranza, fraternità, gioia; sono valori che trovano la loro radice più profonda nella fede cristiana”.
Nella meditazione del Pontefice argentino si possono leggere in controluce anche le riforme avviate in questi primi mesi di pontificato per una “Chiesa povera e per i poveri”: dallo Ior alla trasparenza finanziaria contrastando in Vaticano quella che Bergoglio ha ribattezzato la “dittatura del denaro”. E non a caso è “cambiamento” la parola maggiormente ripetuta dai fedeli di tutto il mondo presenti in questi giorni in Brasile per incontrare il Papa. “Quante difficoltà – ha sottolineato Francesco – ci sono nella vita di ognuno, nella nostra gente, nelle nostre comunità”, ma “davanti allo scoraggiamento che potrebbe esserci nella vita, in chi lavora all’evangelizzazione oppure in chi si sforza di vivere la fede come padre e madre di famiglia, vorrei dire con forza: abbiate sempre nel cuore questa certezza: Dio cammina accanto a voi, in nessun momento vi abbandona! Non perdiamo mai la speranza! Non spegniamola mai nel nostro cuore!”. “Il cristiano – ha concluso Bergoglio – non può essere pessimista! Non ha la faccia di chi sembra trovarsi in un lutto perpetuo”.
Quando in Italia sarà mezzanotte, rientrato a Rio, il Papa visiterà l’ospedale San Francesco d’Assisi dove incontrerà i cinquecento tossicodipendenti che stanno uscendo dai tunnel della droga e dell’alcol. E sempre oggi Bergoglio ha nominato il successore del “cardinale molestatore” Keith Patrick O’Brien, che non partecipò al conclave del marzo scorso e che Francesco aveva già punito obbligandolo a lasciare la Scozia per alcuni mesi di rinnovamento spirituale, preghiera e penitenza. Come suo successore alla guida dell’arcidiocesi di Saint Andrews and Edinburgh il Papa ha scelto monsignor Leo W. Cushley, fino a oggi consigliere di nunziatura presso la sezione per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, ovvero il ministero degli interni vaticano.
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“Grazie perché difendete la vostra dignità, ma anche la nostra dignità umana – ha detto il Pontefice agli immigrati presenti nel centro Astalli di Roma -. Non basta dare un panino, ma bisogna accompagnare queste persone”
17:55 – “A cosa servono alla Chiesa i conventi chiusi? I conventi dovrebbero servire alla carne di Cristo e i rifugiati sono la carne di Cristo”. Lo ha detto Papa Francesco, durante il suo discorso nel centro Astalli a Roma, ipotizzando l’utilizzo dei conventi chiusi per l’accoglienza dei rifugiati. “Grazie perché difendete la vostra dignità, ma anche la nostra dignità umana”, ha aggiunto. “Non basta dare un panino, ma bisogna accompagnare queste persone”.
“Non dobbiamo aver paura delle differenze” – “Molti di voi siete musulmani, di altre religioni, venite da vari Paesi, da situazioni diverse. Non dobbiamo avere paura delle differenze. La fraternità ci fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti. Viviamo la fraternità”, ha quindi detto il Pontefice.
“Rifugiati portano ricchezze umane e religiose” – Ogni rifugiato, ha quindi sottolineato Papa Francesco, “porta soprattutto una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza da accogliere, non da temere”. “Grazie per le vostre testimonianze forti, sofferte. Ognuno di voi, cari amici, porta una storia di vita che ci parla di drammi di guerre, di conflitti, spesso legati alle politiche internazionali”.
La visita al centro senza scorta – Il Papa è arrivato nel primo pomeriggio al centro Astalli per i rifugiati, nel cuore di Roma, senza scorta. Bergoglio ha utilizzato la consueta “utilitaria” di colore blu che usa nei suoi spostamenti, a bordo della quale c’era come sua personale “scorta” il capo della Gendarmeria vaticana, Domenico Giani.
Entrando nel Centro, il primo gesto di Papa Francesco è stato di avvicinarsi a una donna incinta dando la benedizione a lei e al bimbo che portava in grembo. Il Papa è subito stato circondato dalla folla dei rifugiati con cui si è intrattenuto salutandoli e dando loro la benedizione.
Dopo la visita, durata circa un’ora e mezzo, nell’istituto guidato dai Gesuiti, il Papa è ripartito. Alla sua uscita dall’edificio che ospita sia il centro Astalli, il Pontefice è stato lungamente applaudito dalla folla che a sua volta Bergoglio ha salutato facendo più volte con la mano il segno di “ciao”.
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Bergoglio riceve i “poveri” del mondo
Segnalazione di Omar Furgeri
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Bergoglio: “Si vendano le chiese per dare da mangiare ai più poveri”
di Redazione
Lo sbarco immigrazionista di Bergoglio a Lampedusa non è nulla se lo confrontiamo con le sue dichiarazioni del 27 Maggio 2013, sfuggite ai più degli osservatori, ma che ci sembrano di una gravità inaudita. E’ evidente che ci troviamo di fronte al peggio del più becero catto-comunismo. L’anteporre la natura alla sovranatura è nei testi, nelle volontà e nello spirito della Nuova Religione prodotta dal Conciliabolo Vaticano II. La cosiddetta “Chiesa dei poveri” è un prodotto della perfida teologia della liberazione, così come l’adeguamento da parte di molti chierici e laici aderenti alla Nuova Religione che affianca il NWO anche esaltando il peggior mondalismo immigrazionista, condannato persino dall’Ambasciatore del Congo in Italia, che si è perfino scusato con il Paese, parlando di arrivo di “sola spazzatura” dall’ Africa, di persone disperate e soprattutto vittime del racket della tratta della malavita.
Ecco le dichiarazioni più clamorose di Bergoglio, che un cattolico non può che considerare, oramai, il “Badoglio della Fede”:
Segnalazione di Luciano Gallina
Citta’ del Vaticano, 17 Maggio 2013 (Zenit.org) Salvatore Cernuzio:
“La Caritas è la carezza della Chiesa al suo popolo, la carezza della Madre Chiesa ai suoi figli; la tenerezza, la vicinanza. La ricerca della verità e lo studio della verità cattolica sono altre dimensioni importanti della Chiesa, se la facciano i teologi… Poi si trasforma in catechesi e in esegesi. La Caritas è l’amore nella Madre Chiesa, che si avvicina, accarezza, ama”. (…)
… “In caso di guerra o durante una crisi – ha affermato il Santo Padre – bisogna occuparsi dei feriti, aiutare gli ammalati. Ma c’è anche bisogno di sostenerli, di occuparsi del loro sviluppo”.
A qualsiasi costo: anche arrivando a “vendere le chiese per dare da mangiare ai più poveri”.
Quello del Pontefice non è un delirio pauperista (davvero? n.d.r.) , ma l’applicazione pratica dell’amore cristiano che Gesù ci ha insegnato attraverso il Vangelo. In particolare in quello dei pani e dei pesci, i quali “non si moltiplicarono” – ha spiegato – ma “semplicemente non finirono, come non finì la farina e l’olio della vedova. Quando uno dice ‘moltiplicare’ può confondersi e credere che faccia una magia… No, semplicemente è la grandezza di Dio e dell’amore che ha messo nel nostro cuore, che, se vogliamo, quello che possediamo non termina”.
Il Santo Padre si è poi soffermato sulla natura dell’attuale crisi. La vera crisi, ha detto, non è né economica, né culturale, né di fede, ma è quella che mette “in pericolo l’uomo, la persona umana” (…)
Per chiarire meglio il concetto, Francesco ha citato un midrash (un racconto ebraico) che, descrivendo la costruzione della Torre di Babele, mostrava come il valore dei mattoni, per la fatica con cui erano stati prodotti, contasse più degli stessi operai. Il racconto “esprime quello che sta succedendo adesso”, ha osservato il Papa: ovvero l’instaurarsi, nella nostra civiltà, di una “cultura dell’usa e getta”, dove “invece di far crescere la creazione perché l’uomo sia più felice”, “si getta nella spazzatura” tutto quello che non serve: “i bambini, gli anziani, con questa eutanasia nascosta che si sta praticando, i più emarginati”. È questa “la crisi che stiamo vivendo” ha affermato il Santo Padre, e “il lavoro della Caritas è soprattutto rendersi conto di questo”. (…)
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L’oro deve tornare a Dio. Quando adorna le chiese significa che gli uomini si sono pacificati
Vi prego, più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici di venerare sopra ogni cosa il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo. I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, devono essere PREZIOSI. E se in qualche luogo trovassero il santissimo corpo del Signore collocato in modo miserevole, venga da essi posto e custodito in un luogo PREZIOSO, secondo le disposizioni della Chiesa, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione”.
Francesco d’Assisi, Prima Lettera ai Custodi (Fonti Francescane, 240-244)
Messaggio ad un gesuita che si sente francescano
Marcello Pamio – 16 marzo 2013
Francesco Giovanni di Pietro Bernardone, meglio conosciuto come San Francesco d’Assisi visse per 44 anni e portò alla chiesa una primavera di Vita. Sicuramente uno dei grandi illuminati che ha aiutato ad illuminare uno dei periodi più tenebrosi.
Gandhi disse di lui che “ci vorrebbe un S. Francesco ogni cento anni e la salvezza del genere umano sarebbe garantita”. Come non essere d’accordo?
Cosa c’entra San Francesco d’Assisi con il neoeletto papa argentino Jorge Mario Bergoglio, il cui nome d’arte è Francesco? Assolutamente nulla!
Il papa ha voluto precisare – forse perché sono trapelate alcune indiscrezioni che vedremo più avanti – di essersi ispirato per il nome proprio a Francesco d’Assisi.
Il motivo è presto detto: vuole una “chiesa povera tra i poveri” (1).
Chiesa povera???
Non mi risulta che i poveri indossino abiti come per esempio la casula, mitra, dalmatica pontificale che costano la bellezza di 32.000 euro, portati con estrema disinvoltura dal “papa emerito” Ratzinger.
Le casule indossate al conclave sono state ben 200.
Il camauro, scelto personalmente dal precedente pontefice, era di velluto rosso foderato e bordato di ermellino bianco. Esattamente gli stessi abiti – anche se all’epoca Prada non esisteva – usati dal poverello di Assisi.
L’uomo a capo di una delle istituzioni più sfacciatamente ricche del pianeta, che tira in ballo uno dei più grandi Uomini che siano mai apparsi all’umanità, l’Uomo che ha abbandonato tutte le ricchezze materiali per abbracciare il vangelo del Cristo, è non solo una stortura ma una offesa a tutte le persone che vivono realmente nella povertà e a tutte quelle persone che cercano di migliorare la condizione di tante persone più sfortunate. Certamente tantissimi uomini di vera fede stanno vivendo esattamente questo ogni giorno nelle baraccopoli del sud del mondo, o meglio, ai confini del mondo, ma non certo quelli del vaticano.
Ora il nuovo papa vuole una “chiesa povera tra i poveri”, quindi sicuramente metterà all’asta tutte le ricchezze fantasmagoriche che lo stato del vaticano in migliaia di anni ha accumulato, compreso i soldi depositati nei diversi paradisi fiscali, il tutto per aiutare a risolvere la fame e la povertà del mondo intero. Bellissimo quando irrealizzabile.
E’ molto più probabile che Jorge Mario Bergoglio ha scelto il nome Francesco, non per ricordare il santo d’Assisi, ma per onorare Francesco de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier, detto Francesco Saverio.
Una conferma arriva dal gesuita Giovanni La Manna presidente del Centro Astalli di Roma che in una intervista, dice letteralmente: “ho pensato immediatamente a questo riferimento, al nostro Francesco Saverio, che è un santo fondamentale per i gesuiti. Ha speso una vita intera nella sua missione di evangelizzazione” (2)
Francesco Saverio è stato un gesuita e missionario spagnolo del 1500 e uno dei primi testimoni della Compagnia di Gesù oltreché uno dei fondatori.
Papa Gregorio XV, lo stesso giorno, e cioè il 12 marzo 1622 canonizzò Francesco Saverio assieme al fondatore storico e riconosciuto dei gesuiti: Ignazio di Loyola!
Paragonare il gesuita Francesco Saverio con San Francesco d’Assisi equivale a bestemmiare in chiesa.
Ma chi sono i gesuiti?
Dopo circa 2000 anni di storia, per la prima volta, un militare siede nel trono papale.
L’Ordine dei Gesuiti o semplicemente la Compagnia dei Gesuiti è una organizzazione potentissima, strutturata come una milizia o esercito. Si considerano l’esercito del Cristo.
L’obbedienza verso il diretto superiore è pressoché totale e il comandante è definito come Superiore Generale.
I gesuiti prestano totale obbedienza al padre generale, detto anche “papa nero” che attualmente è Adolfo Nicolàs. Il nero è perché il generale veste sempre di quel colore, ma anche per indicare che è nell’ombra del Papa bianco…
Ora il papa bianco è uno di loro.
La Compagnia fin dall’inizio venne usata dal Vaticano per contrastare i vari movimenti di Riforma e protesta e per “evangelizzare”, diciamo così, le masse.
Oggi l’Ordine conta circa 19.000 membri e controlla/lavora con un altro gruppo quello dell’Ordine Militare di Malta che ha circa 12.500. Se a questi aggiungiamo i 26.000 membri dell’Opus Dei si ha un vero e proprio esercito.
Per comprendere la potenza di queste istituzioni poco conosciute, il Sovrano Militare Ordine di Malta è un osservatore permanente alle Nazioni Unite, intrattiene rapporti diplomatici con oltre 100 paesi e la sua sovranità è riconosciuta da 105 stati del mondo.
L’iniziazione gesuitica
Nella Compagnia la disciplina è assolutamente ferrea.
Ogni singolo allievo deve fare degli esercizi spirituali che conducono alla vita occulta attraverso la volontà e il tutto tramite una severissima disciplina, che si potrebbe chiamare un vero e proprio addestramento.
Nessuno viene ammesso agli effettivi gradini superiori del gesuitismo se non ha sperimentato nella propria anima la trasformazione totale di questi esercizi spirituali.
Esercizi occulti che rendono l’adepto schiavo della Compagnia per tutta la vita.
Padre Giovanni La Manna dice candidamente nell’intervista detta prima, che “chi è stato gesuita per anni non può cancellare le sue origini”.
Dire che il gesuita non può cancellare le proprie origini è un modo edulcorato per dire che un gesuita non può uscire dalla Compagnia perché la propria anima è stata per così dire incatenata a seguito della potente iniziazione.
Nel libro “Da Gesù a Cristo”, il filosofo Rudolf Steiner spiega nel dettaglio l’iniziazione occulta che i gesuiti devono passare, spiegando le immagini che per diverse settimane devono forzatamente vivere nella loro anima, nel totale abbandono e isolamento. Queste immagini hanno esattamente la funzione di trasformare e modificare la loro anima.
Un’azione diretta e profondissima sulla volontà fa sì che l’allievo si astragga da tutto il resto votandosi solamente all’idea che “il re Gesù deve diventare il dominatore della terra”.
Loro sono una milizia, la milizia di Gesù. Con questa idea estrema, marchiata a caldo nell’anima, i gesuiti si avvalgono di qualsiasi mezzo, legale e illegale, per servire e realizzarla.
Quando però la volontà diventa tanto forte per mezzo degli esercizi spirituali occulti, la volontà acquista anche la capacità di agire a sua volta direttamente sugli altri…
Stiamo assistendo a questo da oltre 500 anni.
Papa Francesco I e la dittatura argentina
Il nuovo papa è da anni accusato di essere stato colluso con la dittatura militare argentina.
Dittatura iniziata da Jorge Rafael Videla che sterminò oltre 9000 persone senza tenere conto dei 30.000 desaparecidos, molti dei quali finirono gettati nell’Oceano dagli aerei. Nella foto a sinistra il futuro papa che da la comunione al criminale (a destra Videla assieme a Pio Laghi).
Videla è stato condannato a due ergastoli e 50 anni di galera per violazione dei diritti umani.
Un libro “L’isola del silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina” di Horacio Verbistky elenca quelle che sarebbero le prove di tale connivenza.
Nel 1976, all’età di 36 anni il gesuita Mario Bergoglio divenne il più giovane Superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina. Tutti i sacerdoti gesuiti erano sotto le sue dipendenze.
Durante la dittatura militare, Bergoglio avrebbe svolto attività politica nella Guardia di Ferro, un’organizzazione della destra peronista.
Non sappiamo se tali denunce sono fondate oppure no, ma a parte questo, cosa c’è di nuovo all’orizzonte? Nulla, perché da che mondo e mondo, una parte dell’istituzione ecclesiastica, quella collusa con la massoneria e i potentati finanziari internazionali, ha sempre spalleggiato i vari regimi dittatoriali e militari sparsi nel mondo.
In questo preciso momento storico, alla chiesa – intesa come istituzione gerarchica umana, che nulla ha di spirituale – serviva dare una importante svolta mediatica. La crisi per il vaticano è su tutti i livelli, ad eccezione di quello economico ovviamente.
La realtà molto probabilmente è la seguente: le chiese si stanno svuotando giorno dopo giorno, gli scandali della pedofilia hanno lasciato un vergognoso marchio indelebile, come pure gli scandali economico-finanziari, per non parlare della crisi di vocazione degli stessi preti.
Per non perdere ulteriormente potere, soldi ma soprattutto controllo sulle masse, cosa fare, tenuto conto che il pontificato del pastore tedesco ha aiutato l’aggravamento e la sfiducia generali? Cambiare papa e far sedere nel trono di Pietro, uno che dia speranza di rinnovamento. L’illusione del cambiamento che non potrà mai avvenire, tanto meno da un gesuita!
L’idea è strepitosa e il nome Francesco è a dir poco geniale.
Una persona umile, modesta, che arriva dalla “fine del mondo”, un povero che gira in metropolitana, balla il tango, paga il conto di tasca propria e che ha avuto addirittura una fidanzatina. A quando il parlare agli uccelli e ammansire i lupi?
Ma cosa volete di più?
La fiaba è perfetta e come in tutte le fiabe che si rispettino, alla fine: “vivranno tutti (i ricchi in vaticano) felici e contenti”.
“Se volete seguirmi, vendete ciò che possedete e il ricavato datelo ai poveri”, così ha detto ma soprattutto fatto, il vero e unico San Francesco d’Assisi.
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In molti – credenti o meno – suscitano “scandalo” le c.d. “ricchezze della Chiesa”, che dimostrerebbero “la non rispondenza agli insegnamenti di Gesù” e con le quali “si potrebbero salvare tutti i bambini del Terzo Mondo”.
Per affrontare questo spinoso (apparentemente) tema, abbiamo deciso di cominciare dalla fine, ovvero dai paramenti d’oro (e magari tempestati di pietre preziose) di Benedetto XVI, messi ad impietoso confronto con un bambino povero dell’Africa che muore di fame.
Ma, prima ancora di iniziare, è bene ricordate come questi tempi (ultimi) siano tempi di grande confusione, non solo valoriale nella sfera soggettiva di ciascuno di noi, ma anche di confusione razionale, difficoltà di comprendere il “senso”, il “fine ultimo” delle cose, ovvero di rispondere alla domanda «a cosa serve la tal cosa? qual è il suo scopo? il suo fine?» e poi «come bisogna usare la tal cosa per raggiungere quel fine?».
Ovvero nel caso specifico, prima domanda: «A cosa serve la Chiesa?». Rispondiamo con estrema facilità: «la Chiesa (e tutti gli “atti” che compiamo in ambito religioso) servono alla salvezza della propria anima». Ovvero la Chiesa non ha il compito di essere un ente di assistenza dei poveri, non ha il compito di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati. «Ma come? – dirà qualcuno – non è proprio questo l’insegnamento di Cristo? Non è stato proprio Lui a dirci di dare da mangiare agli affamati ed agli assetati?».
L’obiezione è esatta, soltanto che, non è una obiezione!
Infatti pur essendo vero che Cristo ha detto di dare da mangiare agli affamati, bere agli assetati, assistere i malati, accogliere i forestieri etc, va assolutamente fatto notare che Egli non lo ha detto “alla Chiesa”, ma lo ha detto a noi! Lo ha detto a noi, a ciascuna singola persona, a ciascun “cristiano”! Non lo ha detto a Enti o Istituzioni e neppure all’unica Istituzione divina e soprannaturale da Lui stesso fondata.
Ed anche qui però, chiediamoci, qual è lo scopo? Perché dobbiamo dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati? La risposta è che dobbiamo farlo non soltanto e non principalmente per alleviare la fame dell’affamato e la sete dell’assetato (a ciò basterebbero gli Enti benefici e variamente “filantropici” su menzionati), quanto piuttosto per salvare la nostra anima! Dunque anche tale gesto, umanamente “altruista”, è in realtà un gesto “egoistico” (di quell’unico egoismo consentito ed approvato da Cristo stesso) in quanto con tale gesto si baratta qualcosa di scarso valore (un po’ del nostro tempo e del nostro danaro) con qualcosa di elevatissimo valore (la salvezza eterna della nostra anima)!
Dunque l’esistenza dei poveri (pur essendo sicuramente una conseguenza delle “ingiustizie sociali” del mondo in cui viviamo, che a loro volta sono una conseguenza della imperfezione e malvagità degli uomini, che a loro volta sono una conseguenza della natura “malata” dell’uomo, che a sua volta è una conseguenza del peccato originale[i]) è permessa da Dio (che sa sempre ricavare dal male un bene superiore) quale strumento attraverso il quale i più ricchi (o semplicemente i meno poveri), esercitando la Carità, ovvero l’amore verso il prossimo (in virtù dell’amore verso Dio) possano compiere le c.d. “buone opere” co-necessarie (insieme alla Fede) alla salvezza della propria anima.
Orbene, uno degli aspetti “satanici”[ii] delle moderne società è l’aver delegato ad Istituzioni di varia natura e genere il compito dell’assistenza ai poveri… Ciò che veniva denunciato da Attilio Mordini nei confronti degli stati comunisti, ovvero che gli stessi, volendo rendere gli uomini tutti ugualmente benestanti (almeno nelle intenzioni) avrebbero di fatto resa impossibile la Carità[iii], trova analoga, seppur leggermente diversa, applicazione nella modernità: l’assistenza ai poveri viene “delegata” dal singolo “cristiano” ad istituzioni astratte: lo Stato, la Caritas, la Chiesa, la Parrocchia, l’Unicef, la FAO, etc etc etc… Ma queste astratte istituzioni hanno forse un’anima da salvare? No di certo! Sono istituzioni anonime, anodine burocrazie! Se lo Stato italiano aiuta 10mila poveri, quale anima se ne giova? Nessuna! Se invece fossero stati 10mila italiani a prendersi cura, ciascuno, di un povero, essi avrebbero compiuto una “buona opera” che sarebbe stata “tenuta in buon conto” dal Divin Giudice per il Giudizio particolare che attende ciascuno di noi!
Ed invece accade che lo Stato, o la Caritas (che gode di contributi statali), con i miei soldi pagati per generiche tasse (e quindi senza neppure nessuna particolare intenzione meritoria da parte mia!) “aiuta i poveri”, togliendomi la possibilità di aiutarli io stesso. Quindi i miei stessi soldi, pagati in tasse, vengono usati per arrecare un ulteriore ed occulto[iv] danno alla mia anima.
Naturalmente, in realtà, ciascuno di noi può ancora incontrare un “povero” o un “barbone” per la strada ed invitarlo a mangiare a casa propria. Ma questa cosa, oltre a non farla per motivi egoistici (parlo di quell’egoismo stupido che in realtà ci trattiene dall’effettuare il “lucroso baratto” di cui ho parlato sopra), probabilmente a molti non viene neppure in mente… Quando incontriamo un povero o un mendicante ci viene piuttosto in mente una frase del tipo: «ma guarda, è tutta colpa dello Stato , del Comune, dell’assistenza sociale, della Chiesa etc etc etc se questo poveraccio sta qui per strada al freddo senza cibo! Tutta colpa dei politici, degli assessori, dei preti etc etc etc!!!»
Ecco: colpa degli altri (preferibilmente istituzioni senz’anima), mai colpa mia…! E mai che venga colta la grande occasione ed opportunità di “guadagno” per la nostra anima che ci si presenta innanzi… Eppure Gesù stesso ebbe a dire «Procuratevi amici potenti con la disonesta ricchezza…». Sembra una frase degna di qualche politicante corrotto(se non compresa) ma in realtà il Divin Maestro ci stava dicendo che con le nostre ingiuste ricchezze (ovvero con le ricchezze che possediamo in più rispetto a quello che ci serve per la nostra sussistenza[v]) dovremmo aiutare i poveri, che sono “amici potenti” perché la loro preghiera di ringraziamento sarà ben accetta a Dio e perché alcuni di loro ci precederanno in Paradiso.
Invito tutti a leggere un qualche romanzo di scrittori dell’ottocento o precedenti. Si troverà spesso la figura di qualche dama o di qualche nobiluomo, o ricco borghese, ma anche semplici contadini, che si dedicano – come attività del tutto usuale – ad accogliere nella propria casa poveri o pellegrini, nutrendoli ed assistendoli personalmente, proprio per compiere questa opera di Carità. Grande vantaggio per le loro anime!
Davvero un bell’hobbie!
Perché non lo pratichiamo anche noi?
In molti preferiscono dedicarsi piuttosto all’assistenza dei poveri cagnolini randagi[vi], ma anche questo non credo sarà computato a loro vantaggio in occasione dell’Eterno Giudizio.
Ma torniamo alla Chiesa. Compito della Chiesa non è dunque fare Lei assistenza ai poveri (come detto ne fa già fin troppa – contrariamente a quel che “mariadefilippicamente” si ritiene), ma esortare ed insegnare ai cristiani ad amare il prossimo, dare da bere agli assetati, da magiare agli affamati, assistere ed accogliere i poveri ed i barboni, etc etc…
«Ma – dirà sempre il qualcuno di prima – il buon esempio? Se la ricchezza è un peccato, perché il papa va vestito tutto d’oro? Perché nelle chiese ci sono i candelabri d’oro, i calici d’oro, gli altari d’oro, le statue d’oro, i tappeti d’oro, i rubinetti d’oro? Se Cristo e gli Apostoli erano poveri, perché anche la Chiesa non è povera?»
Buon argomento, al quale vale la pena di rispondere.
Innanzitutto, faccio notare che non è vero che essere ricchi sia un peccato. Rileggiamo i dieci comandamenti: non c’è “non essere ricco”. Rileggiamo i sette vizi (o peccati) capitali: non è “ricchezza”. Dunque sorprendentemente (per i moderni anticlericali tanto preoccupati che la Chiesa sia “coerente” e non “ipocrita”[vii]) essere ricchi non è un peccato.
Però la povertà è preferibile, anzi è un elemento di perfezione. Vale la pena di riportare e commentare il seguente famoso passo del Vangelo di Matteo:
«Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?”. Egli rispose: “Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. Ed egli chiese: “Quali?”. Gesù rispose: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso”. Il giovane gli disse: “Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?”. Gli disse Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi”. Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli”. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: “Chi si potrà dunque salvare?”. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo, disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”»[viii]
Dunque, da quanto Cristo dice, si deduce chiaramente che non è strettamente necessario essere poveri per ottenere la vita eterna. Infatti inizialmente Gesù dice al giovane di osservare i dieci comandamenti di Mosè, al quale aggiunge “ama il prossimo tuo come te stesso”. Solo successivamente, poiché il giovane insiste, Gesù gli dice: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri…”. La povertà è dunque un qualcosa in più, mentre il rispetto dei dieci comandamenti e l’amore verso Dio e verso il prossimo sono fondamentali.
Poi, però, Cristo ci ricorda che è (umanamente) molto difficile per un ricco entrare nel Regno dei Cieli.
Perché? (Fine prima parte)
Pierfrancesco Palmisano
[i] va dunque fatto notare che qualsiasi ricetta “politica” e/o “sociale” che cerchi di risolvere il problema della povertà senza tener conto di questo dato di partenza è destinata ad essere – nella migliore delle ipotesi –del tutto inefficacie;
[ii] chiaramente usiamo il termine “satanico” non in senso strettamente letterale e rotocalchistico, ovvero alludendo a “messe nere” e roba del genere, ma nel senso non meno reale di “inganno satanico”, ovvero di una di quelle “idee” o “pratiche” che si diffondono e sembrano a tutti (o quasi) eminentemente buone, filantropiche, innocue etc etc, ma che in realtà, facendo leva sul “sentimentalismo”, conducono a conseguenze spirituali davvero devastanti. Chi volesse approfondire legga ad esempio W. Soloviev, I tre dialoghi ed il racconto dell’anticristo, ed. Vita e pensiero, o più modestamente il nostro articoletto “Il dolce musetto di Satana” pubblicato in due parti su questo stesso blog;
[iii] cfr. A. Mordini, Il tempio del Cristianesimo, ed. Sette Colori;
[iv] “ulteriore ed occulto”, chiaramente rispetto a tutti gli altri che conosciamo e riconosciamo in maniera più palese;
[v] cfr,ad esempio, San R. Bellarmino, L’arte di ben morire e S. Agostino di Ippona, discorso 113 sul Vangelo di Luca;
[vi] cfr. il già citato “Il dolce musetto di Satana” su questo blog;
[vii] la parola “ipocrita” è la preferita da costoro;
[viii] Mt 19:16-26
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I Cattolici non sono pauperisti
Segnalazione di Pietro Ferrari
Perché la ricchezza non è, in sé, un peccato, ma è molto facile che la ricchezza induca a peccare… Proviamo a porre ad uno qualsiasi dei nostri amici o conoscenti la fatidica domanda “cosa faresti se vincessi 100 milioni di euro al superenalotto?”… Ben difficilmente otterremo risposte edificanti.
E tuttavia – lo ripetiamo – non è la ricchezza in sé ad essere peccaminosa. Supponiamo di spendere 50mila euro per una autovettura. Potremmo acquistare un’auto sportiva, con la quale “rimorchiare” ragazze, o un mini-pulmino, con il quale accompagnare le vecchiette alla Messa. In entrambi i casi avremmo la stessa “ricchezza” (un autoveicolo da 50mila euro), ma nel primo caso la ricchezza sarebbe stata utilizzata per finalità “edonistiche”, nel secondo caso per compiere un’opera di bene. Come si vede, dunque, la differenza non è nella ricchezza, ma nell’uso che se ne fa.
Da sempre la Chiesa ha insegnato che la ricchezza deve essere “ordinata al bene”, cioè “utilizzata a fin di bene”. E – senz’altro – rendere culto a Dio è un’opera di bene, anzi L’OPERA di bene per eccellenza (sebbene la mentalità moderna non concordi). Paramenti, calici, candelabri etc d’oro costituiscono una ricchezza utilizzata a fin di bene, in quanto sono diretti a rendere culto a Dio. Ed infatti possiamo fare la “prova del 9” chiedendoci: «queste “ricchezze” spingono ad un qualche peccato?» Ci accorgeremo che la risposta è negativa. Un Pontefice od un vescovo non portano una “collana d’oro” od un “anello d’oro” per soddisfare qualche desiderio peccaminoso. Non sono paragonabili agli ornamenti di una ragazza o di un giovanotto che servono per essere “più belli”, “più affascinanti” e poter in tal modo più facilmente soddisfare, ad esempio, i propri desideri lussuriosi. Tali ricchezze non inducono alla “pigrizia” come quelle di chi “vive di rendita”. Tali ricchezze non conducono a “peccati di gola” come quelle spese per organizzare banchetti.
Prendiamo l’esempio di un Pontefice Santo quale Pio XII. Egli indossava senz’altro tutti i paramenti d’oro necessari alle varie circostanze liturgiche, utilizzava candelabri e calici d’oro dei più preziosi. E tuttavia lo stesso dormiva, per fare penitenza, su dure tavole di legno e si cibava, per gran parte dell’anno in maniera molto modesta. Lo stesso si può dire per Sant’Ignazio di Loyola, fondatore dei Gesuiti (già molto “potenti” sin da quando il fondatore era in vita) che tuttavia per tutta l’ultima parte della sua vita si cibò solo di pane ed acqua.
E allora mi chiedo e vi chiedo: chi vive con maggiori “comodità”? Chi utilizza paramenti e calici d’oro per celebrare la Messa, ma poi dorme su tavole di legno e mangia solo pane ed acqua o chi, guadagnando mille o duemila euro al mese, torna a casa propria, mangia ciò che vuole e si corica con la propria moglie (anche questo dettaglio non di poco conto) su di un comodo materasso?
Non è dunque la ricchezza in sé ad essere peccaminosa, ma il peccato potrebbe nascere dall’animo umano che dalla ricchezza e dal più facile accesso che la stessa offre alle comodità mondane ed alle possibilità di peccare, si lascia tentare e corrompere.
Ma la storia ci ha offerto esempio di grandi personaggi, oggettivamente ricchi, che hanno vissuto santamente la propria condizione, avendo considerato con “distacco” e senza “cupidigia” la propria ricchezza ed avendola, anzi, utilizzata a fin di bene. Ci sono – ad esempio – numerosi casi di Re Santi, come San Luigi IX, Re di Francia, o Santo Stefano d’Ungheria, fino allo stesso Carlo Magno.
Per non parlare poi del grande salmista, il Re Davide, che veniva additato addirittura quale esempio di povertà ed umiltà[1], pur essendo egli stesso un Sovrano, poiché viveva con distacco la propria condizione, mettendo al primo posto Dio soltanto.
Dunque, visto che a Dio tutto è possibile, ci sono stati e ci saranno nella storia uomini ricchi che useranno santamente la propria ricchezza e che grazie ad essere potranno compiere opere benefiche divenendo pertanto santi. Ma, ordinariamente, la povertà è preferibile.
Ma la ricchezza, se utilizzata per rendere gloria a Dio, è ben utilizzata, come si è mostrato con alcuni esempi, e come Cristo stesso ci dice, nel brano seguente:
«Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”»[2].
Si noti, che è proprio Giuda Iscariota a fare l’obiezione dei laicisti ed anticlericali moderni: «ma quei soldi [che Maria, sorella di Lazzaro, utilizza per “rendere culto” a Gesù] non li potremmo utilizzare per darli ai poveri?». Leggendo il Vangelo di Marco, sembrerebbe addirittura che fu questo episodio a convincere Giuda a tradire Gesù[3]!
Si noti un’altra cosa fondamentale di questo passo: che Gesù e gli Apostoli erano personalmente poveri, ma avevano in comune una cassa!
Bisogna dunque distinguere fra povertà del singolo sacerdote o vescovo, che sarebbe cosa buona in quanto imitazione di ciò che fecero Gesù e gli Apostoli, e la “povertà della Chiesa” reclamata dai laicisti ed anticlericali!
La povertà della Chiesa (come istituzione) non è stata affatto e mai ordinata da Gesù! Non solo gli tutti gli ordini religiosi dal Medioevo (ed anche prima) in poi hanno sempre distinto fra povertà personale del singolo monaco o frate e possibilità (lecita) per l’ordine di detenere beni e ricchezze in proprietà od in uso, ma – come abbiamo visto – già gli apostoli, durante il tempo della predicazione di Gesù, avevano una “cassa in comune”, cosa che si potrà ulteriormente riscontrare leggendo anche gli Atti degli Apostoli.
Dunque, giunti in conclusione, vorrei riassumere in maniera schematica quanto detto, auspicando che queste considerazioni siano utili non tanto per i laicisti ed anticlericali (i quali troveranno sempre una “non buona” “sragione” per attaccare la Chiesa), quanto piuttosto per quei fedeli che rimangono “scandalizzati” da tali argomentazioni e non sanno in che modo rispondere né verbalmente né “in cuor loro”.
Abbiamo dunque dimostrato che:
1 – la ricchezza in sé non è un peccato;
2 – la ricchezza può essere utilizzata bene o male, ed usarla per rendere culto a Dio è un modo buono (anzi “IL modo OTTIMO”) di utilizzarla;
3 – il fatto utilizzare paramenti sacri, calici e candelabri d’oro non reca all’utilizzatore alcuna “comodità” né “agevolazione” nella sua vita personale, che anzi spesso è costellata di penitenze che l’uomo comune non pratica neppure lontanamente;
4 – ogni cristiano (quindi laici e sacerdoti allo stesso modo) personalmente è chiamato (“se vuole essere perfetto”) alla povertà, ma ciò non vuol dire che debba essere povera la Chiesa in quanto istituzione. Anzi fin dai tempi di Gesù gli apostoli avevano una “cassa”;
e soprattutto:
5 – ogni cristiano è chiamato, per amore del prossimo, a dare da mangiare agli affamati, da bere agli assetati etc, ed il “fine ultimo” di questi gesti non è tanto aiutare materialmente il povero, quanto aiutare spiritualmente chi compie il gesto. Pertanto delegare questo compito ad istituzioni astratte (Stato, Caritas, Chiesa, Servizi Sociali, ONU, etc) è un gravissimo errore che abbiamo additato come “inganno satanico”;
6 – pertanto, visto che il fine ultimo della Chiesa è quello di salvare le anime dei cristiani, Essa non deve fornire in prima “non-persona” (visto che è una “istituzione”, per quanto divina, e non una “persona”) assistenza ai poveri, ma deve insegnare ai cristiani la Fede e spingerli ad evitare i peccati e compiere le “buone opere” necessarie alla salvezza, fra le quali senz’altro c’è anche l’assistenza ai bisognosi che ciascuno di noi deve compiere.
[1] un esempio fra i tanti possibili, ad attestare tale considerazione:
«Un tale disse al padre Giovanni il Persiano: “Abbiamo tanto penato per il regno dei cieli; lo erediteremo infine?”. E l’anziano disse: “Confido di ereditare la Gerusalemme dell’alto iscritta nei cieli: Colui che ha promesso è fedele, perché dovrei dubitare? Sono stato ospitale come Abramo, mite come Mosè, santo come Aronne, paziente come Giobbe, UMILE COME DAVIDE, eremita come Giovanni, contrito come Geremia, dottore come Paolo, fedele come Pietro, saggio come Salomone. E credo come il ladrone che colui che per la sua bontà mi ha donato tutto ciò, mi darà anche il regno dei cieli”». (Apoftegmata Patrum: 237d-240a).
[2] Gv. 12:3-8
[3] Mc 14:10
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Termine coniato dalla storiografia contemporanea per indicare un fenomeno caratteristico della società europea tra basso Medioevo (XII-XIII secolo) e rivoluzione industriale (XVIII-XIX secolo), quando parte della popolazione urbana e rurale viveva in condizioni più o meno gravi di indigenza. Nei secoli VII-XI lo scarso sviluppo demografico e il basso tenore di vita generalmente diffuso non diede luogo alla formazione di uno stato di vera indigenza: al pauper (povero) in questo periodo non si contrapponeva il dives (ricco), ma il potens (potente), per cui la subordinazione di alcune classi rispetto ad altre non era basata sul reddito bensì sul potere politico. In seguito, tra XII e XVIII secolo, il termine fu utilizzato per indicare quell’ampia fascia della popolazione che per vivere era costretta a lavorare. Si possono qui riconoscere tre tipologie diverse: i poveri che vivevano di elemosine; i poveri che lavoravano saltuariamente, o che facevano parte di una famiglia dove solo alcuni avevano un lavoro, e che quindi arrotondavano le entrate con l’accattonaggio; i poveri che avendo rendite molto basse precipitavano nell’indigenza con l’avvicendarsi di ogni congiuntura sfavorevole. Data l’estensione cronologica del fenomeno il significato del termine povero subì un lento ma costante mutamento. Nel basso Medioevo troviamo una concezione quasi sacrale della povertà, intesa sia in senso negativo come flagello (immagine della condizione dell’uomo dopo il peccato originale) sia in senso positivo come motivo e stimolo all’espiazione poiché mediante l’elemosina verso il povero il ricco si assicurava la salvezza eterna. Nel XV secolo a questa concezione se ne sovrappose una laica, per cui il povero veniva a essere considerato con maggiore sospetto come ozioso, scroccone e vagabondo. Tale posizione si radicalizzò con il calvinismo, che trasformò la divisione ricchi/poveri in eletti/dannati. In età moderna i sovrani tentarono di operare distinzioni tra i veri poveri, quelli “di Cristo”, e i falsi poveri: i primi dovevano essere assistiti, i secondi trattati come criminali. Per tutto il Medioevo ogni forma assistenziale fu lasciata nelle mani dei religiosi, che crearono ospedali e ospizi e affrontarono i problemi contingenti senza però mai intervenire sulle cause; solo nel Settecento, con la concentrazionedi queste iniziative nelle mani dello stato, iniziò un lento processo di ricerca di individuazione delle cause sociali ed economiche del pauperismo.
P. Benigni
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Perchè Don Luigi Villa arrivò ad avere alcuni dubbi su San Francesco? Raccontiamo una storia di pura invenzione appositamente per dimostrare come si può arrivare a condizionare anche una mente santa come quella del fondatore di Chiesa Viva . In questo racconto che riporto a seguire, si noterà che non viene neanche menzionata la permanenza di San Francesco nello spoletano… ma nemmeno che la morte di Francesco Giovanni avvenne ad Assisi sotto gli occhi di molte persone e dopo una malattia visibile; e che venne canonizzato poco dopo, a due anni di distanza dalla morte , nel 1228. Quindi? Ebbene, secondo questo fantomatico racconto lui nel frattempo era già santo e stava a Venezia a fare la bella vita da Doge! Geniale! Ma il Doge non era forse un personaggio pubblico sempre in vista? Riportiamo dunque questo racconto, a sola dimostrazione di quanto è difficile intendere la scelta di Francesco da parte di chi vive assoggettato a Mammona, e vuole sempre vederci un frammento della propria vita, della eterna lotta per i possedimenti, per l’accumululo di ricchezze, fama, prestigio, potenza. E’ difficile ammettere che qualcuno possa arrivare a fare la scelta di essere come Gesù, come il Cristo. A dimostrazione di ciò, il poverello di Assisi ricevette anche le stimmate e diede origine ad un Ordine che ha conquistato il mondo per la sua pratica inequivocabile di obbedienza, castità e povertà. Che poi l’Ordine si sia corrotto nel tempo non vuol dire che non sia mai esistito un San Francesco. Dopo questo racconto seguirà la biografia ufficiale.
Fonte: HTTP://WWW.NEOVITRUVIAN.IT/2012/10/09/FRANCESCO-DASSISI/
GIOVANNI BERNARDONE MOROSINI (MORICONI) ( ALIAS FRANCESCO D’ASSISI E ALIAS MARINO MOROSINI) È NATO A PARIGI ED ERA UNO DEI FIGLI DELLA POTENTE FAMIGLIA EBRAICA SEFARDITA VENEZIANA DI C OMMERCIANTI / BANCHIERI FORMATA DA PIETRO BERNARDONE MORICONI E PICA DE BOURLEMONT DALLA FRANCIA.
Altri Nomi | Giovanni Bernardone Morosini (Moriconi) |
---|---|
Anno di nascita | 1181 |
Luogo | Parigi, Francia |
Linea di sangue | Morosini |
Sposato | Si |
Figli | – |
Posizione | Fondatore dei frati francescani, Primo Doge Cristiano di Venezia (1249-1253) |
Morto | Gennaio 1253 (72 anni) |


Nel suo ‘Testamento’ scritto poco prima di morire, Francesco annotò: “Nessuno mi insegnava quel che io dovevo fare; ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo il Santo Vangelo”.
Per questo è considerato il più grande santo della fine del Medioevo; egli fu una figura sbocciata completamente dalla grazia e dalla sua interiorità, non spiegabile per niente con l’ambiente spirituale da cui proveniva.
Ma proprio a lui toccò in un modo provvidenziale, di dare la risposta agli interrogativi più profondi del suo tempo.
Avendo messo in chiara luce con la sua vita i principi universali del Vangelo, con una semplicità e amabilità stupefacenti, senza imporre mai nulla a nessuno, ebbe un influsso straordinario, che dura tuttora, non solo nel mondo cristiano ma anche al di fuori di esso.
Origini e gioventù
Francesco, l’apostolo della povertà, in effetti era figlio di ricchi, nacque ad Assisi nei primi del 1182 da Pietro di Bernardone, agiato mercante di panni e dalla nobile Giovanna detta “la Pica”, di origine provenzale.
In omaggio alla nascita di Gesù, la religiosissima madonna Pica, volle partorire il bambino in una stalla improvvisata al pianterreno della casa paterna, in seguito detta “la stalletta” o “Oratorio di s. Francesco piccolino”, ubicata presso la piazza principale della città umbra.
La madre in assenza del marito Pietro, impegnato in un viaggio di affari in Provenza, lo battezzò con il nome di Giovanni, in onore del Battista; ma ritornato il padre, questi volle aggiungergli il nome di Francesco che prevarrà poi sul primo.
Questo nome era l’equivalente medioevale di ‘francese’ e fu posto in omaggio alla Francia, meta dei suoi frequenti viaggi e occasioni di mercato; disse s. Bonaventura suo biografo: “per destinarlo a continuare il suo commercio di panni franceschi”; ma forse anche in omaggio alla moglie francese, ciò spiega la familiarità con questa lingua da parte di Francesco, che l’aveva imparata dalla madre.
Crebbe tra gli agi della sua famiglia, che come tutti i ricchi assisiani godeva dei tanti privilegi imperiali, concessi loro dal governatore della città, il duca di Spoleto Corrado di Lützen.
Come istruzione aveva appreso le nozioni essenziali presso la scuola parrocchiale di San Giorgio e le sue cognizioni letterarie erano limitate; ad ogni modo conosceva il provenzale ed era abile nel mercanteggiare le stoffe dietro gli insegnamenti del padre, che vedeva in lui un valido collaboratore e l’erede dell’attività di famiglia.
Non alto di statura, magrolino, i capelli e la barbetta scura, Francesco era estroso ed elegante, primeggiava fra i giovani, amava le allegre brigate, spendendo con una certa prodigalità il denaro paterno, tanto da essere acclamato “rex iuvenum” (re dei conviti) che lo poneva alla direzione delle feste.
Combattente e sua conversione
Con la morte dell’imperatore di Germania Enrico IV (1165-1197) e l’elezione a papa del card. Lotario di Segni, che prese il nome di Innocenzo III (1198-1216), gli scenari politici cambiarono; il nuovo papa sostenitore del potere universale della Chiesa, prese sotto la sua sovranità il ducato di Spoleto compresa Assisi, togliendolo al duca Corrado di Lützen.
Ciò portò ad una rivolta del popolo contro i nobili della città, asserviti all’imperatore e sfruttatori dei loro concittadini, essi furono cacciati dalla rocca di Assisi e si rifugiarono a Perugia; poi con l’aiuto dei perugini mossero guerra ad Assisi (1202-1203).
Francesco, con lo spirito dell’avventura che l’aveva sempre infiammato, si buttò nella lotta fra le due città così vicine e così nemiche.
Dopo la disfatta subita dagli assisiani a Ponte San Giovanni, egli fu fatto prigioniero dai perugini a fine 1203 e restò in carcere per un lungo terribile anno; dopo che i suoi familiari ebbero pagato un consistente riscatto, Francesco ritornò in famiglia con la salute ormai compromessa.
La madre lo curò amorevolmente durante la lunga malattia; ma una volta guarito egli non era più quello di prima, la sofferenza aveva scavato nel suo animo un’indelebile solco, non sentiva più nessuna attrattiva per la vita spensierata e i suoi antichi amici non potevano più stimolarlo.
Come ogni animo nobile del suo tempo, pensò di arruolarsi nella cavalleria del conte Gualtiero di Brenne, che in Puglia combatteva per il papa; ma giunto a Spoleto cadde in preda ad uno strano malessere e la notte ebbe un sogno rivelatore con una voce misteriosa che lo invitava a “servire il padrone invece che il servo” e quindi di ritornare ad Assisi.
Colpito dalla rivelazione, tornò alla sua città, accolto con preoccupazione dal padre e con una certa disapprovazione di buona parte dei concittadini.
Lasciò definitivamente le allegre brigate per dedicarsi ad una vita d’intensa meditazione e pietà, avvertendo nel suo cuore il desiderio di servire il gran Re, ma non sapendo come; andò anche in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di trovare chiarezza.
Ritornato deluso ad Assisi, continuò nelle opere di carità verso i poveri ed i lebbrosi, ma fu solo nell’autunno 1205 che Dio gli parlò; era assorto in preghiera nella chiesetta campestre di San Damiano e mentre fissava un crocifisso bizantino, udì per tre volte questo invito: “Francesco va’ e ripara la mia chiesa, che come vedi, cade tutta in rovina”.
Pieno di stupore, Francesco interpretò il comando come riferendosi alla cadente chiesetta di San Damiano, pertanto si mise a ripararla con il lavoro delle sue mani, utilizzando anche il denaro paterno.
A questo punto il padre, considerandolo ormai irrecuperabile, anzi pericoloso per sé e per gli altri, lo denunziò al tribunale del vescovo come dilapidatore dei beni di famiglia; notissima è la scena in cui Francesco denudatosi dai vestiti, li restituì al padre mentre il vescovo di Assisi Guido II, lo copriva con il mantello, a significare la sua protezione.
Il giovane fu affidato ai benedettini con la speranza che potesse trovare nel monastero la soddisfazione alle sue esigenze spirituali; i rapporti con i monaci furono buoni, ma non era quella la sua strada e ben presto riprese la sua vita di “araldo di Gesù re”, indossò i panni del penitente e prese a girare per le strade di Assisi e dei paesi vicini, pregando, servendo i più poveri, consolando i lebbrosi e ricostruendo oltre San Damiano, le chiesette diroccate di San Pietro alla Spira e della Porziuncola.
La vocazione alla povertà e l’inizio della sua missione
Nell’aprile del 1208, durante la celebrazione della Messa alla Porziuncola, ascoltando dal celebrante la lettura del Vangelo sulla missione degli Apostoli, Francesco comprese che le parole di Gesù riportate da Matteo (10, 9-10) si riferivano a lui: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento. E in qualunque città o villaggio entriate, fatevi indicare se ci sia qualche persona degna, e lì rimanete fino alla vostra partenza”.
Era la risposta alle sue preghiere e domande che da tempo attendeva; comprese allora che le parole del Crocifisso a San Damiano non si riferivano alla ricostruzione del piccolo tempio, ma al rinnovamento della Chiesa nei suoi membri; depose allora i panni del penitente e prese la veste “minoritica”, cingendosi i fianchi con una rude corda e coprendosi il capo con il cappuccio in uso presso i contadini del tempo e camminando a piedi scalzi.
Iniziò così la vita e missione apostolica, sposando “madonna Povertà” tanto da essere poi definito “il Poverello di Assisi”, predicando con l’esempio e la parola il Vangelo come i primi apostoli.
Francesco apparve in un momento particolarmente difficile per la vita della Chiesa, travagliata da continue crisi provocate dal sorgere di movimenti di riforma ereticali e lotte di natura politica, in cui il papato era allora uno dei massimi protagonisti.
In un ambiente corrotto da ecclesiastici indegni e dalle violenze della società feudale, egli non prese alcuna posizione critica, né aspirò al ruolo di riformatore dei costumi morali della Chiesa, ma ad essa si rivolse sempre con animo di figlio devoto e obbediente.
Rendendosi interprete di sentimenti diffusi nel suo tempo, prese a predicare la pace, l’uguaglianza fra gli uomini, il distacco dalle ricchezze e la dignità della povertà, l’amore per tutte le creature di Dio e al disopra di ogni cosa, la venuta del regno di Dio.
Inizio dell’Ordine dei Frati Minori
Ben presto attirati dalla sua predicazione, si affiancarono a Francesco, quelli che sarebbero diventati suoi inseparabili compagni nella nuova vita: Bernardo di Quintavalle un ricco mercante, Pietro Cattani dottore in legge, Egidio contadino e poco dopo anche Leone, Rufino, Elia, Ginepro ed altri fino al numero di dodici, proprio come gli Apostoli, formanti una specie di ‘fraternità’ di chierici e laici, che vivevano alla luce di un semplice proposito di ispirazione evangelica.
Il loro era un vivere alla lettera il Vangelo, senza preoccupazioni teologiche e senza ambizioni riformatrici o contestazioni morali, indicando così una nuova vita a chi voleva vivere in carità e povertà all’interno della Chiesa; per la loro obbedienza alla gerarchia ecclesiastica, il vescovo di Assisi Guido prese a proteggerli, seguendoli con interesse e permettendo loro di predicare.
Ai primi del 1209 il gruppo si riuniva in una capanna nella località di Rivotorto, nella pianura sottostante la città di Assisi, presso la Porziuncola, iniziando così la “prima scuola” di formazione, dove durante un intero anno Francesco trasmise ai compagni il suo carisma, alternando alla preghiera, l’assistenza ai lebbrosi, la questua per sostenersi e per riparare le chiese danneggiate.
Giacché ormai essi sconfinavano fuori dalla competenza della diocesi, e ciò poteva procurare problemi, il vescovo Guido consigliò Francesco e il suo gruppo di recarsi a Roma dal papa Innocenzo III per farsi approvare la prima breve Proto-Regola del nuovo Ordine dei Frati Minori.
Regola che fu approvata oralmente dal papa, dopo un suggestivo incontro con il gruppetto, vestito dalla rozza tunica e scalzo, colpito fra l’altro da “quel giovane piccolo dagli occhi ardenti”; nacque così ufficialmente l’Ordine dei Frati Minori, che riceveva la tonsura entrando a far parte del clero; sembra che in quest’occasione Francesco abbia ricevuto il diaconato.
Chiara e le clarisse
Tutta Assisi parlava delle ‘bizzarie’ del giovane Francesco, che viveva in povertà con i compagni laggiù nella pianura e che spesso saliva in città a predicare il Vangelo con il permesso del vescovo, augurando a tutti “pace e bene”; nella primavera del 1209 aveva predicato perfino nella cattedrale di S. Rufino, dove nell’attigua piazza abitava la nobile famiglia degli Affreduccio e sicuramente in quell’occasione, fra i fedeli che ascoltavano, c’era la giovanissima figlia Chiara.
Colpita dalle sue parole, prese ad innamorarsi dei suoi ideali di povertà evangelica e cominciò a contattarlo, accompagnata dall’amica Bona di Guelfuccio e inviandogli spesso un poco di denaro.
Nella notte seguente la Domenica delle Palme del 1211, abbandonò di nascosto il suo palazzo e correndo al buio attraverso i campi, giunse fino alla Porziuncola dove chiese a Francesco di dargli Dio, quel Dio che lui aveva trovato e col quale conviveva.
Francesco, davanti all’altare della Vergine, le tagliò la bionda e lunga capigliatura (ancora oggi conservata) consacrandola al Signore.
Poi l’accompagnò al monastero delle benedettine a Bastia, per sottrarla all’ira dei parenti, i quali dopo un colloquio con Chiara che mostrò loro il capo senza capelli, si convinsero a lasciarla andare.
Successivamente Chiara e le compagne che l’avevano raggiunta, si spostò dopo alterne vicende, nel piccolo convento annesso alla chiesetta di San Damiano, dove nel 1215 a 22 anni Chiara fu nominata badessa; Francesco dettò alle “Povere donne recluse di S. Damiano” (il nome ‘Clarisse’ fu preso dopo la morte di s. Chiara) una prima Regola di vita, sostituita più tardi da quella della stessa santa.
Chiara con le compagne, sarà l’incarnazione al femminile dell’ideale francescano, a cui si assoceranno tante successive Congregazioni di religiose.
L’ideale missionario
Francesco non desiderò solo per sé e i suoi frati, l’evangelizzazione del mondo cristiano deviato dagli originari principi evangelici, ma anche raggiungere i non credenti, specie i saraceni, come venivano chiamati allora i musulmani.
Se in quell’epoca i rapporti fra il mondo cristiano e quello musulmano erano tipicamente di lotta, Francesco volle capovolgere questa mentalità, vedendo per primo in loro dei fratelli a cui annunciare il Vangelo, non con le armi ma offrendolo con amore e se necessario subire anche il martirio.
Mandò per questo i suoi frati prima dai Mori in Spagna, dove vennero condannati a morte e poi graziati dal Sultano e dopo in Marocco, dove il gruppo di frati composti da Berardo, Pietro, Accursio, Adiuto, Ottone, mentre predicavano, furono arrestati, imprigionati, flagellati e infine decapitati il 16 gennaio 1220.
Il ritorno in Portogallo dei corpi dei protomartiri, suscitò la vocazione francescana nell’allora canonico regolare di S. Agostino, il dotto portoghese e futuro santo, Antonio da Padova.
Francesco non si scoraggiò, nel 1219-1220 volle tentare personalmente l’impresa missionaria diretto in Marocco, ma una tempesta spinse la nave sulla costa dalmata, il secondo tentativo lo fece arrivare in Spagna, occupata dai musulmani, ma si ammalò e dovette tornare indietro, infine un terzo tentativo lo fece approdare in Palestina, dove si presentò al sultano egiziano Al-Malik al Kamil nei pressi del fiume Nilo, che lo ricevette con onore, ascoltandolo con interesse; il sultano non si convertì, ma Francesco poté dimostrare che il dialogo dell’amore poteva essere possibile fra le due grandi religioni monoteiste, dalle comuni origini in Abramo.
La seconda Regola
Verso la metà del 1220, Francesco dovette ritornare in Italia per rimettere ordine fra i suoi frati, cresciuti ormai in numero considerevole, per cui l’originaria breve Regola era diventata insufficiente con la sua rigidità.
Il Poverello non aveva inteso fondare conventi ma solo delle ‘fraternità’, piccoli gruppi di fratelli che vivessero in mezzo al mondo, mostrando che la felicità non era nel possedere le cose ma nel vivere in perfetta armonia secondo i comandamenti di Dio.
Ma la folla di frati ormai sparsi per tutta l’Italia, poneva dei problemi di organizzazione, di formazione, di studio, di adattamento alle necessità dell’apostolato in un mondo sempre in evoluzione; quindi il vivere in povertà non poteva condizionare gli altri aspetti del vivere nel mondo.
Nell’affollato “capitolo delle stuoia”, tenutosi ad Assisi nel 1221, Francesco autorizzò il dotto Antonio venuto da Lisbona, d’insegnare ai frati la sacra teologia a Bologna, specie a quelli addetti alla predicazione e alle confessioni.
La nuova Regola fu dettata da Francesco a frate Leone, accolta con soddisfazione dal cardinale protettore dell’Ordine, Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e da tutti i frati; venne approvata il 29 novembre 1223 da papa Onorio III.
In essa si ribadiva la povertà, il lavoro manuale, la predicazione, la missione tra gl’infedeli e l’equilibrio tra azione e contemplazione; si permetteva ai frati di avere delle Case di formazione per i novizi, si stemperò un poco il concetto di divieto della proprietà.
Il presepe vivente di Greccio
La notte del 24 dicembre 1223, Francesco si sentì invadere il cuore di tenerezza e di slancio volle rivivere nella selva di Greccio, vicino Rieti, l’umile nascita di Gesù Bambino con figure viventi.
Nacque così la bella e suggestiva tradizione del Presepio nel mondo cristiano, che sarà ripresa dall’arte e dalla devozione popolare lungo i secoli successivi, con l’apporto dell’opera di grandi artisti, tale da costituire un filone dell’arte a sé stante, comprendenti orafi, scenografi, pittori, scultori, costumisti, architetti; il cui apice per magnificenza, realismo, suggestività, si ammira nel Presepe settecentesco napoletano.
Il suo Calvario personale
Ormai minato nel fisico per le malattie, per le fatiche, i continui spostamenti e digiuni, Francesco fu costretto a distaccarsi dal mondo e dal governo dell’Ordine, che aveva creato pur non avendone l’intenzione.
Nell’estate del 1224 si ritirò sul Monte della Verna (Alverna) nel Casentino, insieme ad alcuni dei suoi primi compagni, per celebrare con il digiuno e intensa partecipazione alla Passione di Cristo, la “Quaresima di San Michele Arcangelo”.
La mattina del 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce, mentre pregava su un fianco del monte, vide scendere dal cielo un serafino con sei ali di fiamma e di luce, che gli si avvicinò in volo rimanendo sospeso nell’aria.
Fra le ali del serafino, Francesco vide lampeggiare la figura di un uomo con mani e piedi distesi e inchiodati ad una croce; quando la visione scomparve lasciò nel cuore di Francesco un ammirabile ardore e nella carne i segni della crocifissione; per la prima volta nella storia della santità cattolica, si era verificato il miracolo delle stimmate.
Disceso dalla Verna, visibilmente dolorante e trasformato, volle ritornare ad Assisi; era anche prostrato da varie malattie, allo stomaco, alla milza e al fegato, con frequenti emottisi, inoltre la vista lo stava lasciando, a causa di un tracoma contratto durante il suo viaggio in Oriente.
Il lungo declino fisico, il “Cantico delle creature”, la morte
Dopo le ultime prediche all’inizio del 1225, Francesco si rifugiò a San Damiano, nel piccolo convento annesso alla chiesetta da lui restaurata tanti anni prima e dove viveva Chiara e le sue suore.
E in questo suggestivo e spirituale luogo di preghiera, egli compose il famoso “Cantico di frate Sole” o “Cantico delle Creature”, sublime poesia, ove si comprende quanto Francesco fosse penetrato nella più intima realtà della natura, contemplando sotto ogni creatura l’adorabile presenza di Dio.
Se la fede gli aveva fatto riscoprire la fratellanza universale degli uomini, tutti figli dello stesso Padre, nel ‘Cantico’ egli coglieva il legame d’amore che lega tutte le creature, animate ed inanimate, tra loro e con l’uomo, in un abbraccio planetario di fratelli e sorelle che hanno un solo scopo, dare gloria a Dio.
In questo periodo, ospite per un certo tempo nel palazzo vescovile, dettò anche il suo famoso ‘Testamento’, l’ultimo messaggio d’amore del Poverello ai suoi figli, affinché rimanessero fedeli a madonna Povertà.
Poi per l’interessamento del cardinale Ugolino e di frate Elia, Francesco accettò di sottoporsi alle cure dei medici della corte papale a Rieti; poi ancora a Fabriano, Siena e Cortona, ma nell’estate del 1226 non solo non era migliorato, ma si fece sempre più evidente il sorgere di un’altra grave malattia, l’idropisia.
Dopo un’altra sosta a Bagnara sulle montagne vicino a Nocera Umbra, perché potesse avere un po’ di refrigerio, i frati visto l’aggravarsi delle sue condizioni, decisero di trasportarlo ad Assisi e su sua richiesta all’amata Porziuncola, dove a tarda sera del 3 ottobre 1226, Francesco morì recitando il salmo 141, adagiato sulla nuda terra, aveva circa 45 anni.
Le allodole, amanti della luce e timorose del buio, nonostante che fosse già sera, vennero a roteare sul tetto dell’infermeria, a salutare con gioia il santo, che un giorno (fra Camara e Bevagna), aveva invitato gli uccelli a cantare lodando il Signore; e in altra occasione in un campo verso Montefalco aveva tenuto loro una predica, che gli uccelli immobili ascoltarono, esplodendo poi in cinguetii e voli di gioia.
La mattina del 4 ottobre, il suo corpo fu traslato con una solenne processione dalla Porziuncola alla chiesa parrocchiale di S. Giorgio ad Assisi, dove era stato battezzato e dove aveva cominciato nel 1208 la predicazione.
Lungo il percorso il corteo si fermò a San Damiano, dove la cassa fu aperta, affinché santa Chiara e le sue “povere donne” potessero baciargli le stimmate.
Nella chiesa di San Giorgio rimase tumulato fino al 1230, quando venne portato nella Basilica inferiore, costruita da frate Elia, diventato Ministro Generale dell’Ordine.
Intanto il 16 luglio 1228, papa Gregorio IX a meno di due anni dalla morte, proclamò santo il Poverello d’Assisi, alla presenza della madre madonna Pica, del fratello Angelo e altri parenti, del vescovo Guido di Assisi, di numerosi cardinali e vescovi e di una folla di popolo mai vista, fissandone la festa al 4 ottobre.
Il culto, Patronati
Gli episodi della sua vita e dei suoi primi seguaci, furono raccolti e narrati nei “Fioretti di San Francesco”, opera di anonimo trecentesco, che contribuì nel tempo alla larga diffusione del suo culto, unitamente alla prima e seconda ‘Vita’, scritte dal suo discepolo Tommaso da Celano (1190-1260), su richiesta di papa Gregorio IX.
Alcuni episodi sono entrati nell’iconografia del santo e riprodotti dall’arte, come la predica agli uccelli, il roseto in cui si rotolò per sfuggire alla tentazione, il lupo che ammansì a Gubbio, il ricevimento delle Stimmate, ecc.
È patrono dell’Umbria e di molte città, fra le quali San Francisco negli USA che da lui prese il nome; innumerevoli sono le chiese, le parrocchie, i conventi, i luoghi pubblici che portano il suo nome; come pure tanti altri santi e beati, venuti dopo di lui, che ebbero al battesimo o adottarono nella vita religiosa il suo nome.
Il grande santo di Assisi, che lo storico e scrittore, don Enrico Pepe definisce “Patrimonio dell’umanità”, fu riconosciuto da papa Pio XII, come il “più italiano dei santi e più santo degli italiani” e il 18 giugno 1939, lo proclamò Patrono principale d’Italia.
Il cammino dei suoi ‘Frati Minori’
La Regola composta da s. Francesco su istanza del cardinale Ugolino de’ Conti, futuro papa Gregorio IX e approvata solennemente da Onorio III nel 1223, era formata da 12 capitoli, essa prescriveva una rigida e assoluta povertà, il lavoro per procurasi il cibo e l’elemosina come mezzo sussidiario di sostentamento.
Capo dell’Ordine, che si propagò rapidamente al punto che, vivente ancora il fondatore, annoverava già 13 Province, fu un Ministro Generale. Le costituzioni furono redatte da San Bonaventura da Bagnoregio.
Mentre ancora l’organizzazione del nuovo Movimento religioso si stava consolidando, scoppiarono i primi contrasti. I membri dell’Ordine si divisero in due fazioni: la prima intendeva adottare forme meno severe di vita comunitaria e prescindere dall’obbligo assoluto della povertà, al fine di rendere meno difficile lo sviluppo dell’Ordine stesso; la seconda al contrario, si proponeva di uniformarsi alla lettera e allo spirito delle norme lasciate dal fondatore.
I numerosi tentativi per placare i dissensi non ebbero effetto, anzi questi si acuirono di più quando Gregorio IX con la bolla “Quo elongati” (1230), concesse ai frati, che presero in seguito il nome di ‘Conventuali’, la possibilità di ricevere beni e di amministrarli per le loro esigenze.
Nel campo opposto, correnti definite ereticali, come quelle degli spirituali e dei fraticelli, rappresentarono l’ala estrema del francescanesimo e agitarono un programma di rinnovamento religioso misto ad un’auspicabile rinascita politico-sociale, che sarebbe dovuto sfociare nell’avvento del regno dello Spirito, ma si attirarono scomuniche e persecuzioni dalle autorità ecclesiastiche e feudali.
La divisione in due Movimenti, Osservanti e Conventuali, fu sanzionata nel 1517 da papa Leone X; nel 1525 papa Clemente VII approvò il nuovo ramo dei frati Cappuccini, guidato dal frate Minore Osservante Matteo da Bascio della Marca d’Ancona, dediti ad una più austera disciplina, povertà assoluta e vita eremitica; altre famiglie francescane riformate sorsero nei secoli (Alcantarini, Riformati, Amadeiti) in seno o a fianco degli Osservanti, ma tutti obbedivano al Ministro Generale dell’Osservanza.
L’Ordine francescano comprende anche il ramo femminile, le Clarisse e il Terz’Ordine dei laici o Terziari francescani, fondati dallo stesso s. Francesco nel 1221, per raccogliere i numerosi seguaci già sposati e di ogni ordine sociale.
L’Ordine, ai cui membri dei diversi rami, Leone XIII nel 1897, ingiunse di prendere il nome comune di Frati Minori, è tra i più importanti della Chiesa. Oltre alle pratiche religiose e ascetiche, essi furono e sono dediti alla predicazione, ad un apostolato di tipo sociale in luoghi di cura, e soprattutto all’opera missionaria.
Cantico delle Creature
Altissimo, onnipotente, bon Signore
Tue so’ le laude, la gloria et l’honore
et onne benedictione.
A te solo, Altissimo, se konfanno
Et nullo homo ene digno te mentovare.
Laudato si’, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
specialmente messer lo frate sole
lo quale è iorno et allumini noi per lui,
et ellu è bellu e radiante, cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora acqua,
la quale è molto utile et humile
et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu
per lo quale enallumini la nocte
ed ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra madre terra,
la quale ne sustenta et governa,
et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano
per lo tuo amore,
et sostengo’ infirmitate et tribolatione.
Beati quelli ke le sosterranno in pace
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’, mi’ Signore,
per sora nostra morte corporale
da la quale nullo homo vivente po’ skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà
ne le sue sanctissime volutati,
ka la morte secunda nol farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore,
et rengratiate et serviteli
cum grande humilitate.
(S. Francesco d’Assisi)
Autore: Antonio Borrelli
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La crociata contro gli albigesi ebbe luogo tra il 1209 e il 1229 contro i catari e fu indetta da papa Innocenzo III nel 1208 per estirpare il catarismo dai territori della Linguadoca.
Il catarismo fu un movimento cristiano diffusosi poco dopo l’anno 1000 e soprattutto tra il 1100 e il 1200, nell’Europa meridionale, nei Balcani, in Italia e in Francia, nella Linguadoca, prevalentemente nella regione di Albi (da cui originò il nome albigesi), dove i signori di Provenza ed il conte di Tolosa (ed anche alcuni ecclesiastici come i vescovi di Tolosa e Carcassonne e l’arcivescovo di Narbona), verso la fine del XII secolo, permisero che i catari predicassero nei villaggi e ricevessero lasciti anche cospicui, accettando che catari fossero messi anche a capo dei conventi.
Secondo il cronachista cistercense Cesario di Heisterbach, quando al legato pontificio (Arnaud Amaury abate di Cîteaux) si chiese come distinguere chi, delle persone rifugiate in una chiesa, dovesse essere riconosciuto eretico e quindi bruciato sul rogo, ordinò di uccidere tutti indiscriminatamente, dicendo:
(LA)
« Caedite eos! Novit enim Dominus qui sunt eius »
(IT)
«Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi»
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L’eresia dei Catari viene erroneamente considerata una mancanza di fede, in realtà la loro “eresia” non nasce dal non credere, ma da un bisogno di credere e di vivere diversamente la propria religione.
Essi intendevano tornare al modello ideale di chiesa descritto nei vangeli e negli atti degli apostoli.
I Catari si caratterizzarono per un radicale anticlericalismo che rimetteva in discussione l’esistenza delle strutture e del personale ecclesiastico.
La Chiesa assunse un atteggiamento estremamente duro nei loro confronti.
La definizione di Catari o Uomini Puri fu coniata dagli stessi adepti. In genere vennero chiamati in modi diversi prendendo il nome dal luogo in cui vivevano: Albigesi da Albi, Concorreziani da Concorrezzo, ecc..
È probabile che i Catari derivino dalla setta dei “Bogomil” che fece la sua comparsa nel X secolo in Bulgaria e si diffuse a Costantinopoli alla fine dell’XI secolo.
Essi professavano una dottrina dualista nella quale Dio e il Demonio avevano pari dignità, e anzi il Demonio avrebbe ingannato il Signore riuscendo poi a far cadere gli angeli e ad imprigionarli nella materia; predicavano una assoluta purezza di vita e rifiutavano i sacramenti tranne il “consolamentum” una specie di battesimo per gli adulti, che permetteva all’avvicinarsi della morte di liberarsi dal peccato. In realtà queste assunzioni di base non erano accettate in tutte le comunità catare nel medesimo modo, e quindi sarebbe più corretto parlare di “catarismi”, ovvero di esperienze che, pur rifacendosi ad un dualismo radicale, assumono nel tempo connotati differenti.
Per i Catari ogni Uomo doveva liberare il suo animo dal potere del male che governava il mondo terreno. Il messaggio dei Catari era un invito alla liberazione, e ciascuno doveva seguire la parola di Cristo.
Per i Catari la Chiesa avendo accettato il potere e le ricchezze aveva scelto il male e quindi non era più in grado di offrire alcun aiuto per la purificazione. La salvezza poteva venire solo dalla nuova chiesa dei Catari.
Ogni comunità conservava una sua autonomia resa ancora più grande dal fatto che, a differenza della Chiesa cattolica, non esisteva un’entità centrale incaricata di fissare un’ortodossia comune.
Il fascino esercitato dalla chiesa catara fu molto forte, e questo fu dovuto al rigore morale che la distingueva dalla Chiesa cattolica, composta da uomini molto spesso mediocri e corrotti.
Un altro motivo del successo dei catari fu di tipo dottrinale.
I Catari si erano subito proposti come l’autentica Chiesa di Cristo, quella degli apostoli.
Dopo il Concilio cataro di Saint Felix de Caravan del 1167 si cominciò ad intuire la pericolosità per la Chiesa cattolica, dei Catari.
Papa Alessandro III li condannò come eretici, condanna che venne confermata in seguito da Innocenzo III e Onorio III.
Nel 1206 San Domenico di Guzmàn cercò di predicare contro i Catari, ma non ebbe successo.
Nel 1208, prendendo come pretesto l’assassinio del suo legato Pierre de Castelnau, papa Innocenzo III promosse la crociata che portò all’annientamento degli “eretici” Catari.
Nel luglio del 1209, Béziers fu presa e distrutta, l’intera popolazione uccisa. Molti cittadini furono bruciati nella chiesa della Madeleine. Ai soldati che gli chiedevano come avrebbero capito la differenza tra i Catari e i buoni cattolici, Arnaud Amaury disse queste famose parole: “Uccideteli tutti, Dio li riconoscerà”.
Nel mese di agosto del 1209, fu conquistata Carcassonne.
I territori dei nobili che avevano appoggiato i Catari furono attribuiti a Simon de Montfort, il capo dei crociati.
Simon de Montfort continuò a combattere e prese Minerve nel mese di luglio del 1210, ove fece bruciare 140 Catari che rifiutarono di ripudiare la propria fede. Caddero tutte le fortezze della regione dove i Catari avevano cercato rifugio : Termes, Puivert, Lastours,… Il popolo chiama questo episodio della crociata “guerra dei castelli”, che in realtà fu una vera guerra di conquista territoriale.
Nel mese di luglio del 1213, Simon de Montfort vinse presso Muret (sud di Tolosa) le fortissime armate alleate di Pietro II di Aragona e di Raimondo VI Conte di Toulouse. Pietro II di Aragona fu ucciso durante la battaglia.
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Domenico nacque nel 1170 a Caleruega, un villaggio montano della Vecchia Castiglia (Spagna) da Felice di Gusmán e da Giovanna d’Aza.
A 15 anni passò a Palencia per frequentare i corsi regolari (arti liberali e teologia) nelle celebri scuole di quella città. Qui viene a contatto con le miserie causate dalle continue guerre e dalla carestia: molta gente muore di fame e nessuno si muove! Allora vende le suppellettili della propria stanza e le preziose pergamene per costituire un fondo per i poveri. A chi gli esprime stupore per quel gesto risponde: “Come posso studiare su pelli morte, mentre tanti miei fratelli muoiono di fame?”
Terminati gli studi, a 24 anni, il giovane, assecondando la chiamata del Signore, entra tra i “canonici regolari” della cattedrale di Osma, dove viene consacrato sacerdote. Nel 1203 Diego, vescovo di Osma, dovendo compiere una delicata missione diplomatica in Danimarca per incarico di Alfonso VIII, re di Castiglia, si sceglie come compagno Domenico, dal quale non si separerà più.
Il contatto vivo con le popolazioni della Francia meridionale in balìa degli eretici catari, e l’entusiasmo delle cristianità nordiche per le grandi imprese missionarie verso l’Est, costituiscono per Diego e Domenico una rivelazione: anch’essi saranno missionari. Di ritorno da un secondo viaggio in Danimarca scendono a Roma (1206) e chiedono al papa di potersi dedicare all’evangelizzazione dei pagani.
Ma Innocenzo III orienta il loro zelo missionario verso quella predicazione nell’Albigese (Francia) da lui ardentemente e autorevolmente promossa fin dal 1203. Domenico accetta la nuova consegna e rimarrà eroicamente sulla breccia anche quando si dissolverà la Legazione pontificia, e l’improvvisa morte di Diego (30 dicembre 1207) lo lascerà solo. Pubblici e logoranti dibattiti, colloqui personali, trattative, predicazione, opera di persuasione, preghiera e penitenza occupano questi anni di intensa attività; cosi fino al 1215 quando Folco, vescovo di Tolosa, che nel 1206 gli aveva concesso S. Maria di Prouille per raccogliere le donne che abbandonavano l’eresia e per farne un centro della predicazione, lo nomina predicatore della sua diocesi.
Intanto alcuni amici si stringono attorno a Domenico che sta maturando un ardito piano: dare all Predicazione forma stabile e organizzata. Insieme Folco si reca nell’ottobre del 1215 a Roma per partecipare al Concilio Lateranense IV e anche per sottoporre il suo progetto a Innocenzo III che lo approva. L’anno successivo, il 22 dicembre, Onorio III darà l’approvazione ufficiale e definitiva. E il suo Ordine si chiamerà “Ordine dei Frati Predicatori”.
Il 15 agosto 1217 il santo Fondatore dissemina i suoi figli in Europa, inviandoli soprattutto a Parigi e a Bologna, principali centri universitari del tempo. Poi con un’attività meravigliosa e sorprendente prodiga tutte le energie alla diffusione della sua opera. Nel 1220 e nel 1221 presiede in Bologna ai primi due Capitoli Generali destinati a redigere la “magna carta” e a precisare gli elementi fondamentali dell’Ordine: predicazione, studio, povertà mendicante, vita comune, legislazione, distribuzione geografica, spedizioni missionarie.
Sfinito dal lavoro apostolico ed estenuato dalle grandi penitenze, il 6 agosto 1221 muore circondato dai suoi frati, nel suo amatissimo convento di Bologna, in una cella non sua, perché lui, il Fondatore, non l’aveva. Gregorio IX, a lui legato da una profonda amicizia, lo canonizzerà il 3 luglio 1234. Il suo corpo dal 5 giugno 1267 è custodito in una preziosa Arca marmorea. I numerosi miracoli e le continue grazie ottenute per l’intercessione del Santo fanno accorrere al suo sepolcro fedeli da ogni parte d’Italia e d’Europa, mentre il popolo bolognese lo proclama “Patrono e Difensore perpetuo della città;”.
La fisionomia spirituale di S. Domenico è inconfondibile; egli stesso negli anni duri dell’apostolato albigese si era definito: “umile ministro della predicazione”. Dalle lunghe notti passate in chiesa accanto all’altare e da una tenerissima devozione verso Maria, aveva conosciuto la misericordia di Dio e “a quale prezzo siamo stati redenti”, per questo cercherà di testimoniare l’amore di Dio dinanzi ai fratelli. Egli fonda un Ordine che ha come scopo la salvezza delle anime mediante la predicazione che scaturisce dalla contemplazione: contemplata aliis tradere sarà la felice formula con cui s.Tommaso d’Aquino esprimerà l’ispirazione di s. Domenico e l’anima dell’Ordine. Per questo nell’Ordine da lui fondato hanno una grande importanza lo studio, la vita liturgica, la vita comune, la povertà evangelica.
Ardito, prudente, risoluto e rispettoso verso l’altrui giudizio, geniale sulle iniziative e obbediente alle direttive della Chiesa, Domenico è l’apostolo che non conosce compromessi né irrigidimenti: “tenero come una mamma, forte come un diamante”, lo ha definito Lacordaire.
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Profezia di San Francesco
Il Catechismo della Chiesa Cattolica descrive così gli eventi finali della storia umana: “Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. Il mistero dell’iniquità si svelerà sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uomini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell’apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell’anticristo”. (CCC n.676)
A questo punto evochiamo qui la così detta «profezia» di San Francesco.
Dopo aver convocato i suoi fratelli poco prima della sua morte (1226), Francesco ha avvertito su tribolazioni future, dicendo: “Fratelli agite con forza e fermezza in attesa del Signore. Un periodo di grandi tribolazioni e afflizioni in cui grandi pericoli e imbarazzi temporali e spirituali accadranno; la carità di molti si raffredderà e l’iniquità dei malvagi abbonderà. Il potere dei demoni sarà più grande del solito, la purezza immacolata della nostra comunità religiosa e altri saranno appassiti al punto che ben pochi fra i cristiani vorranno obbedire al vero sommo Pontefice e alla Chiesa Romana con un cuore sincero e perfetta carità.
“Nel momento decisivo di questa crisi, un personaggio non canonicamente eletto, elevato al soglio pontificio, si adopererà a propinare sagacemente a molti il veleno mortale del suo errore. Mentre gli scandali si moltiplicheranno, la nostra congregazione religiosa sarà divisa tra altre che saranno completamente distrutte, perché i loro membri non si opporranno, ma consentiranno all’errore. Ci saranno così tante e tali opinioni e divisioni tra la gente, e tra i religiosi e i chierici che, se quei giorni malefici non fossero abbreviati, come annunciato dal Vangelo, anche gli eletti cadrebbero nell’errore (se fosse possibile), se in tale uragano non fossero protetti dall’immensa misericordia di Dio. Così la nostra Regola e il nostro modo di vita saranno violentemente attaccati da alcuni. Delle tentazioni terribili sorgeranno. Coloro che supereranno la grande prova riceveranno la corona della vita. Guai a quelli tiepidi che metteranno ogni loro speranza nella vita religiosa, senza resistere saldamente alle tentazioni consentite per provare gli eletti. Coloro che nel fervore spirituale abbracceranno la pietà con la carità e zelo per la verità, subiranno persecuzioni e insulti come se fossero scismatici e disobbedienti. Perché i loro persecutori, spronati da spiriti maligni, diranno che in questo modo prestano grande onore a Dio nell’uccidere e rimuovere dalla terra degli uomini tanto cattivi. Allora il Signore sarà il rifugio degli afflitti e lui li salverà, perché hanno sperato in Lui. E poi per rispettare il loro Capo, agiranno secondo la Fede e sceglieranno di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, acquistando con la morte dalla vita eterna, non volendo conformarsi all’errore e alla perfidia, per assolutamente non temere la morte. Così alcuni predicatori terranno la verità in silenzio e negandola la calpesteranno.
“La santità di vita sarà derisa da coloro che la professano solo esteriormente e per questa ragione Nostro Signore Gesù Cristo invierà loro non un degno pastore, ma uno sterminatore“.
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UN GRANDE SCISMA NELLA CHIESA E FUTURA TRIBOLAZIONE MAGNA – Profezia di San Francesco d’Assisi (1182/1226)
di Arai Daniele
Poco prima di morire (1226), San Francesco d’Assisi, avendo convocato i fratelli, li avvertì di grandi tribolazioni future.
Fu la «profezia» molto importante in cui si trova la parola «sterminatore», poi ripetuta anche dal Venerabile Bartolomeo Holzhauser per definire Lutero che si è gloriato di questo nome.
Spesso le profezie suscitano disagio. Ma se i fatti previsti si realizzano nei nostri tempi storici, perché non rievocarle?
Se viviamo un fatto clamoroso relativo alla Fede, come si può non legarlo a quanto già detto nelle Scritture e poi nelle profezie dei santi?
Pur sbagliando nella giusta applicazione di queste a fatti predetti, tutto resta davanti agli occhi di chi vuol vedere come avviso per la difesa del bene più prezioso: la Fede.
Lo stesso si sa dell’infallibile realizzazione di tutto quanto predetto evangelicamente!
A questo punto evochiamo qui la così detta «profezia» di San Francesco.
Dopo aver convocato i suoi fratelli poco prima della sua morte (1226), Francesco ha avvertito su tribolazioni future, dicendo: “Fratelli agite con forza e fermezza in attesa del Signore. Un periodo di grandi tribolazioni e afflizioni in cui grandi pericoli e imbarazzi temporali e spirituali accadranno; la carità di molti si raffredderà e l’iniquità dei malvagi abbonderà. Il potere dei demoni sarà più grande del solito, la purezza immacolata della nostra comunità religiosa e altri saranno appassiti al punto che ben pochi fra i cristiani vorranno obbedire al vero sommo Pontefice e alla Chiesa Romana con un cuore sincero e perfetta carità.
“Nel momento decisivo di questa crisi, un personaggio non canonicamente eletto, elevato al soglio pontificio, si adopererà a propinare sagacemente a molti il veleno mortale del suo errore. Mentre gli scandali si moltiplicheranno, la nostra congregazione religiosa sarà divisa tra altre che saranno completamente distrutte, perché i loro membri non si opporranno, ma consentiranno all’errore. Ci saranno così tante e tali opinioni e divisioni tra la gente, e tra i religiosi e i chierici che, se quei giorni malefici non fossero abbreviati, come annunciato dal Vangelo, anche gli eletti cadrebbero nell’errore (se fosse possibile), se in tale uragano non fossero protetti dall’immensa misericordia di Dio. Così la nostra Regola e il nostro modo di vita saranno violentemente attaccati da alcuni. Delle tentazioni terribili sorgeranno. Coloro che supereranno la grande prova riceveranno la corona della vita. Guai a quelli tiepidi che metteranno ogni loro speranza nella vita religiosa, senza resistere saldamente alle tentazioni consentite per provare gli eletti. Coloro che nel fervore spirituale abbracceranno la pietà con la carità e zelo per la verità, subiranno persecuzioni e insulti come se fossero scismatici e disobbedienti. Perché i loro persecutori, spronati da spiriti maligni, diranno che in questo modo prestano grande onore a Dio nell’uccidere e rimuovere dalla terra degli uomini tanto cattivi. Allora il Signore sarà il rifugio degli afflitti e lui li salverà, perché hanno sperato in Lui. E poi per rispettare il loro Capo, agiranno secondo la Fede e sceglieranno di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, acquistando con la morte dalla vita eterna, non volendo conformarsi all’errore e alla perfidia, per assolutamente non temere la morte. Così alcuni predicatori terranno la verità in silenzio e negandola la calpesteranno.
“La santità di vita sarà derisa da coloro che la professano solo esteriormente e per questa ragione Nostro Signore Gesù Cristo invierà loro non un degno pastore, ma uno sterminatore“.
Parole che riprendono l’inganno indicato dallo stesso Vangelo; che svelano in pieno quella la scalata dei «falsi cristi», lupi vestiti da agnelli, all’attacco finale, quando un “personaggio non canonicamente eletto, sarà elevato al soglio pontificio”,
Ciò è nella seconda Lettera ai Tessalonicesi, quando il «katéchon» sarà tolto di mezzo (Il massacro del Papa col suo seguito papale del Terzo Segreto di Fatima, più chiaro nel 1960 quando il Soglio di Pietro passò ad essere occupato da Roncalli, Giovanni 23).
Chi non ha la fede, perché modernista, massone, antroposofista rapsodico, in somma, i sofisti religiosi di tutti i generi, non possono essere canonicamente eletti al pontificato per la semplice ragione che non hanno la vera Fede; anzi la vogliono cambiare nel senso delle loro elucubrazioni silloniste o hegeliane. Ci vuole un’altra profezia per spiegarlo?
Questo rischio apocalittico per la Chiesa esisteva dall’inizio. Prima si sapeva di dover resistere ai lupi.
Oggi? Si resiste allo Spirito che suscita le profezie.
Eppure, «Il Signore non fa niente senza rivelare il Suo segreto ai profeti, Suoi servitori» (Amos, III, 7).
DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI
“Carissimi, non vogliate credere a ogni spirito, ma esaminate gli spiriti per conoscere se sono da Dio, poiché molti falsi profeti sono venuti nel mondo. Da questo voi conoscete lo spirito di Dio: ogni spirito che confessa Gesù Cristo venuto nella carne è da Dio; e ogni spirito che non confessa Gesù non è da Dio. Ma questo è lo spirito dell’anticristo, del quale avete sentito che deve venire, anzi è già nel mondo. Voi, figli, siete da Dio e li
avete vinti, poiché chi è in voi è più grande di colui che è nel mondo. Essi sono dal mondo; perciò parlano del mondo e il mondo li ascolta” (I Gv 4, 1-5).
Confessare Gesù Cristo come si è rivelato nella carne, non secondo i maestri di eresie (Ratzinger): «Gesù non è Dio che si è fatto uomo, ma un uomo che è diventato Dio»! (Vedi Chiesa Viva, nº 451). È il tempo dell’eresia che occupa il Luogo santo di Dio.
E San Paolo avverte: “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno vi sorprenda come un ladro; infatti voi siete tutti figli della luce e figli del giorno: non siamo né della notte né delle tenebre. Pertanto non dormiamo come gli altri, ma vegliamo e siamo temperanti…Pregate senza interruzione. Rendete grazie in ogni cosa: questa è la volontà di Dio a vostro riguardo, in Gesù Cristo. Non spegnete lo Spirito. Non disprezzate le profezie. Esaminate ogni cosa: ritenete ciò che è buono. Tenetevi lontano da ogni sorta di male” (I Ts 5, 4-6: 17-22).
Opera Omnia S. FRANCISCI ASSISIATIS, col. 430 Paris Imp. Bibliothèque écclésiastique 1880 (dalle annotations de Louis-Hubert Remy)
Magnum in Ecclesia schisma et tribulationem futuram.
Paulo ante mortem convocatis fratribus, de tribulationibus futuris eos admonuit, dicens : « Viriliter agite, fratres, confortemini, et sustinete Dominum. Magna tribulationis et afflictionis adesse festinant tempora, in quibus temporaliter et spiritualiter perplexitates et discrimina inundabunt, caritas multorum refrigescet, et superabundabit malorum iniquitas. Dæmonum potestas plus solito solvetur, nostræ Religionis et aliarum puritas immaculata deformabitur, in tantum quod vero Summo Pontifici et Ecclesiæ Romanæ paucissimi ex Christianis vero corde et caritate perfecta obedient : Aliquis non cononice electus, in articulo tribulationis illius ad Papatum assumptus, multis mortem sui erroris sagacitate propinare molietur. Tunc multiplicabuntur scandala, nostra dividetur Religio, plures ex aliis omnino frangetur, eo quod non contradicent, sed consentient errori.
Erunt opiniones et schismata tot et tanta in populo, et in religiosis, et in clerico, quod nisi abbreviarentur dies illi juxta verbum Evangelicum ( si fieri posset ) in errorem inducerentur etiam electi, nisi in tanto turbine ex immensa misericordia Dei regerentur.
Regula et vita nostra tunc a quibusdam acerrime impugnabitur. Supervenient tentationes immensæ. Qui tunc fuerint probati, accipient coronam vitæ. Væ autem illis, qui de sola spe religionis confisi tepescent, non resistent constanter tentationibus, ad probationem electorum permissis.
Qui vero spiritu ferventes ex caritate et zelo veritatis adhæredunt pietati, tanquam inobedientes et schismatici persecutiones et injurias sustinebunt. Nam persequentes eos a malignis spiritibus agitati, magnum esse obsequium Dei dicent, tam pestilentes homines interficere et delere de terra. Erit autem tunc refugium afflictis Dominus, et salvabit eos, quia speraverunt in eo. Et ut suo capiti conformentur, fiducialiter agent, et per mortem, vitam mercantes æternam, obedire Deo magis quam hominibus eligent ; et mortem, nolentes consentire falsitati et perfidiæ, nullatenus formidabunt. Veritas tunc a quibusdam prædicatoribus operietur silentio, ab aliis conculcata negabitur. Vitæ sanctitas a suis professoribus habebitur in derisum, quare dignum non pastorem, sed exterminatorem mittet illis Dominus Jesus Christus ».
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Bergoglio: “(s)messa in coena Domini” ecumenica coi carcerati
di Redazione
…”Papa Francesco nel pomeriggio celebra la Messa «in coena Domini» per ricordare l’Ultima cena di Gesù con i discepoli. Ma stavolta non sarà in San Pietro (ma pauperisticamente laverà i piedi a dei delinquenti, n.d.r.). Papa Bergoglio ha deciso di celebrare questo rito che apre il triduo pasquale nel carcere minorile romano di Casal del Marmo. Si chinerà e laverà i piedi a dodici ragazzi che sono in carcere, di nazionalità e fedi diverse. Tra loro anche dei musulmani (così si è rivolto Bergoglio ai maomettani: “Innanzitutto i musulmani, – ha detto – che adorano Dio unico, vivente e misericordioso, e lo invocano nella preghiera”. Fonte: http://www.radio24.ilsole24ore.com/notizie/2013-03-20/papa-francesco-unita-chiesa-163404.php , n.d.r.). Alla celebrazione previsto anche il ministro della Giustizia Paola Severino. Dopo la Messa, la palestra del carcere ospita un incontro tra il Papa, i ragazzi durante il quale i giovani detenuti gli doneranno una croce e un inginocchiatoio in legno fatto da loro. Papa Bergoglio invece regalerà a tutti uova di cioccolato. Fonte: Corriere.it di oggi
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Tra le opere di misericordia spirituale c’è anche quella di visitare i carcerati. Va detto che la sottolineatura riguardante i carcerati in questo caso specifico ha una doppia motivazione, che va contestualizzata:
1) L’errore teologico. La lavanda dei piedi ricorda l’umiltà di Gesù verso i Suoi Apostoli, non verso altri.
2) L’ostentazione pauperistica.
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IL (VERO) FRANCESCO CHE NON APPLAUDE SCALFARI. OGGI IL SANTO DI ASSISI SAREBBE BOLLATO DAI GIORNALI COME “FONDAMENTALISTA” E “FANATICO”.
La visita del Papa ad Assisi riporta agli onori della cronaca il più famoso dei santi, quello di cui Bergoglio ha preso il nome. Francesco d’Assisi però è anche il più incompreso dei santi, perché fu l’opposto esatto del santino che ne fanno oggi i media, rappresentandolo come uno svagato ecologista, ecumenista e buonista umanitario.
IL VERO FRANCESCO
Il cardinal Biffi, celebrandone la festa ad Assisi nel 2004, disse che vedeva in giro “un francescanesimo di maniera, svigorito in un estetismo senza convinzioni esistenziali”, un brodino tale “che tutti lo possano assumere senza ripulse e drammi interiori, stemperato in una religiosità indistinta che non inquieti nessuno”.
Invitava dunque a conoscere l’opera e la figura di Francesco “nella loro verità”. La verità di questo santo è l’adesione totale e assoluta al Vangelo, letteralmente. Sine glossa. Senza accomodamenti con la mentalità dominante.
Senza quelle concessioni allo spirito dei tempi che qualche cattolico oggi fa in nome del “dialogo col mondo” e della cosiddetta “apertura alla modernità”.
Per capire cosa significa ai giorni nostri – come suggeriva Biffi – bisogna rileggere le sue (quasi sconosciute) lettere considerandole scritte per i tempi odierni. Scopriremo che oggi Francesco verrebbe sicuramente liquidato dai media come “un fanatico”, un “fondamentalista”, un cattolico “integralista e reazionario”.
AI POLITICI E ALTRI POTENTI
Prendiamo la lettera che scrisse “a podestà, consoli, magistrati e reggitori dei popoli”, cioè tutte le cariche pubbliche (non solo i politici). Pensate che abbia fatto loro l’elenco dei problemi sociali, parlando di disoccupazione, pace, ambiente o economia? Tutt’altro.
Li esortò potentemente a professare la fede cattolica per salvare le anime loro e quelle dei loro popoli:
“Ricordate e pensate che il giorno della morte si avvicina. Vi supplico allora, con rispetto per quanto posso, di non dimenticare il Signore, presi come siete dalle cure e dalle preoccupazioni del mondo. Obbedite ai suoi comandamenti, poiché tutti quelli che dimenticano il Signore e si allontanano dalle sue leggi sono maledetti e saranno dimenticati da lui. E quando verrà il giorno della morte, tutte quelle cose che credevano di avere saranno loro tolte”.
Proseguiva (e penso a intellettuali e giornalisti):
“E quanto più saranno sapienti e potenti in questo mondo, tanto più dovranno patire le pene nell’inferno. Perciò vi consiglio, signori miei, di mettere da parte ogni cura e preoccupazione e di ricevere devotamente la comunione del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo in sua santa memoria”.
Continua (e faccio una dedica a tutti quei politici e governanti che oggi cancellano ogni memoria cristiana):
“Siete tenuti ad attribuire al Signore tanto onore fra il popolo a voi affidato, che ogni sera si annunci, mediante un banditore o qualche altro segno, che siano rese lodi e grazie all’onnipotente Signore Iddio da tutto il popolo. E se non farete questo, sappiate che dovrete renderne ragione (cf. Mt. 12,36) a Dio davanti al Signore vostro Gesù Cristo nel giorno del giudizio”.
AI FEDELI LAICI
San Francesco indirizzò poi un’altra lettera ai semplici fedeli laici a cui raccomandò di stringersi alla “dolcezza” e “soavità” del Signore Gesù, osservando i comandamenti e facendo penitenza.
Chi invece non segue Cristo è esortato a convertirsi e se persevera nel peccato è accoratamente ammonito dal santo di Assisi: “costoro sono prigionieri del diavolo… essi vedono e riconoscono, sanno e fanno il male, e consapevolmente perdono la loro anima”.
Perché “chiunque muore in peccato mortale… il diavolo rapisce l’anima di lui… e tutti i talenti e il potere e la scienza e la sapienza che credevano di possedere sarà loro tolta… e andranno all’inferno dove saranno tormentati eternamente”.
AI SACERDOTI E SULLA CHIESA
C’è poi una lettera di san Francesco ai sacerdoti. Anch’essa sorprendente, perché non esorta i sacri ministri all’azione sociale o all’attività umanitaria, ma li esorta principalmente a tributare il massimo onore “al santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo”.
Il santo infatti è addolorato perché da molti “il corpo del Signore viene collocato e lasciato in luoghi indegni, viene trasportato senza nessun onore e ricevuto senza le dovute disposizioni e amministrato senza riverenza”.
Sembra qui di sentir riecheggiare la preoccupazione di Benedetto XVI, il suo invito a cessare gli abusi liturgici del postconcilio, il desiderio di riportare il sacrificio eucaristico, con i più santi riti, al centro della Chiesa e l’adorazione al cuore della vita (proprio di recente alcuni figli spirituali del santo, i Francescani dell’Immacolata, hanno fatto parlare di sé per l’amore alla sacra liturgia).
Eguale sottolineatura san Francesco fa per le preziose parole del Signore, ossia il Vangelo, alla cui difesa (dagli attacchi ideologici) papa Benedetto ha dedicato tre poderosi libri.
Dice san Francesco:
“Anche i nomi e le parole di lui scritte talvolta vengono calpestate, perché ‘l’uomo carnale non comprende le cose di Dio’ (1Cor 2,14). Non dovremmo sentirci mossi a pietà per tutto questo, dal momento che lo stesso pio Signore si consegna nelle nostre mani e noi l’abbiamo a nostra disposizione e ce ne comunichiamo ogni giorno?”.
Ecco perché san Francesco ha un particolare atteggiamento di venerazione per la santa Chiesa. Da quando riceve dal crocifisso di San Damiano il mandato “Ripara la mia Chiesa” egli avrà per la Sposa di Cristo solo parole di amore.
E quando va a sottoporsi al giudizio della Santa Sede dice con tenerezza “Andiamo dalla madre nostra”. E quando sa di ecclesiastici indegni o corrotti (e ce n’erano!) lui va a baciare le loro mani perché sono quelle mani che consacrano il corpo del Signore.
E di fronte alla corte pontificia non lancia strali e anatemi sui lussi e le vanità ecclesiastiche, ma, povero e umile, promette l’obbedienza sua e quella dei suoi frati ai pastori stabiliti da Cristo.
PROSELITISMO E POVERTA’
Infine nella sua “Regola non bullata” invita i suoi frati a dare testimonianza a Cristo (fino al martirio) anche “tra i saraceni e gli altri infedeli” (del resto lui stesso andò ad annunciare Cristo al Sultano e molto presto i suoi frati ricevettero il martirio).
Non ritenne la testimonianza un deteriore “proselitismo”. Infatti per lui la conversione era la via della salvezza.
Anche il tema della “povertà”, centrale nell’esperienza francescana, è stato totalmente frainteso. Per il santo la povertà non era una condizione sociale da sradicare, ma anzi un modo di vita da abbracciare con amore.
Non considerava infatti la “povertà” una categoria economica, ma teologica. La riferiva al Figlio di Dio che “spogliò se stesso assumendo al condizione di servo”, Colui che “da ricco che era”, cioè Dio, si fece uomo di carne mortale, che annientò se stesso per la salvezza degli uomini.
La povertà di Francesco era memoria dell’incarnazione.
SCEGLIERE: O SAN FRANCESCO O MARTINI
Questo è il santo di cui papa Bergoglio ha preso il nome e che oggi va ad omaggiare ad Assisi. Lui che è il primo papa gesuita sa che storicamente un certo filone del gesuitismo si è duramente scontrato con la radicalità evangelica di san Francesco.
C’è infatti una parte del movimento gesuitico che – invece di innalzare gli uomini al Vangelo (come san Francesco) – ha pensato di abbassare il Vangelo ai costumi delle genti e alle culture delle corti principesche.
E’ la polemica contro i gesuiti del Pascal delle “Lettere provinciali” che li accusò di lassismo.
Anche il dotto gesuita Matteo Ricci in Cina ritenne di poter accettare riti pagani e culture ritenute invece inaccettabili dai francescani (la Santa Sede dette ragione a questi ultimi e i gesuiti si giocarono il favore della corte cinese).
Del resto fu un papa francescano, Clemente XIV a sopprimere nel 1773 i gesuiti. Dunque anche oggi c’è un bivio, bisogna scegliere fra la radicalità di san Francesco e – per fare un esempio attuale – lo “spirito dialogante” col mondo del gesuita cardinal Martini.
Antonio Socci
Le gaffe di Le Goff. Dal Medioevo “superstizioso” alla superstizione dei medievisti. Un dialogo
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<<Dopo il Medioevo inventato da Voltaire, abbiamo oggi il Medioevo inventato da Le Goff>>
Dialoghi storiografici
del Mastino con Francesco Mastromatteo
***
MASTINO:
Mastino
Tu sai che io studio parecchio la roba medievale e tuttavia i miei studi accademici partono dall’età Moderna: ragion per cui sai anche che in teoria sarei un “ignorante” in medievalistica: salvo le questioni di Ordini religiosi, storia dell’igiene, medicina, costume e alimentazione, non so quasi una beata mazza. Ebbene, persino uno così, un dilettante di medievistica, strabuzzando gli occhi si è reso conto che per fin troppe cose, riguardanti il sacro medievale specialmente, ce n’era uno finanche peggiore: Jacques Le Goff! Il quale spara certe castronerie talmente clamorose nella loro superficialità che persino io sono stato in grado di smontarle nell’arco di 15 minuti esatti. Eppure costui ha fama di essere un “grande” medievista, persino il “più grande”: ma forse forse scambiano la parola “grande” con competente? Forse intendono dire “grande” quanto a vendite? O è solo “grande” in quanto capo dei baroni universitari di materie storiche di Francia? Ecco, ho il sospetto che non sia affatto “grande”: sia semplicemente “potente”. O che tu dici?
MASTROMATTEO:
Mastromatteo
Leggendo l’intervista rilasciata da Le Goff a Repubblica nel giorno di San Francesco, in cui il Nostro tira fuori il più stantio e superato armamentario ideologico sul santo pauperista e rivoluzionario, a cui dovrebbe ispirarsi l’attuale Papa per “rinnovare” la Chiesa (sempre all’insegna di categorie politiche e sociali mondane, s’intende: e per fortuna che il Papa ha detto tutt’altro ad Assisi…), devo ammettere che anche io le ho trovate sconfortanti nella loro banalità.
Ma prima di affrontare la questione delle coordinate ideali e politiche dello storico francese, vorrei fare una considerazione di ordine generale, applicabile non solo a Le Goff ma a tutti i “grandi” studiosi e intellettuali, di qualsivoglia corrente: i cosiddetti maestri, prima o poi, tendono a diventare tromboneschi e autoreferenziali. Io che pure ho avuto delle guide che considero tuttora fondamentali per la mia formazione, sia nella scuola che nella vita, sono giunto conclusione che prima o poi vanno tutti messi in discussione, anzi traditi, e che evangelicamente, di Maestro ce n’è uno solo. Questo vale nel campo scientifico e soprattutto quello storico, in cui sappiamo bene che qualsiasi tesi, anche la più affascinante, è destinata presto o tardi a essere messa in discussione da nuovi studi e nuove metodologie.
A ciò, molto più prosaicamente, si aggiungono fattori umani, troppo umani: l’aver conseguito rendite di posizione, l’età, lo sclerotizzarsi, come dicevo, su posizioni che non reggono alla luce di nuovi studi, ma il non volerlo ammettere, per orgoglio o mancanza di lucidità. Al netto di tutto ciò, io penso che comunque nel panorama contemporaneo Le Goff resti un grande studioso (magari più per i problemi che ha aperto che non per le risposte date), se non altro per aver saputo attualizzare l’insegnamento della scuola delle Annales, senza la quale, con tutti i suoi limiti e aspetti discutibili, non ci sarebbe stata tutta la medievistica attuale, ovvero quella che ha ampiamente messo in discussione, se non proprio demolito, la “leggenda nera” di origine umanistico-luterano-illuminista dei “secoli bui” oscurantisti e retrogradi.
Le Goff, nel suo studio
MASTINO:
Tu, studioso di medievistica, amico infinitamente caro, mi hai dato il grande dispiacere di fare una riverente tesi di laurea nientemeno che su Le Goff. Perché l’hai fatto? Che morale finale ne traiamo dalla tua tesi?
MASTROMATTEO:
Se è per questo io sono cresciuto culturalmente in un due atenei, quello di Bari e quello di Siena, abbastanza rossi da sempre… anche se la tesi su Le Goff l’ho fatta con un cattolico, anzi un sacerdote, don Cosimo Damiano Fonseca, illustre studioso della civiltà rupestre e accademico dei Lincei.
La mia tesi era sul Medioevo visto da Le Goff nei suoi molteplici aspetti politici, culturali, economici, come “incubatrice” delle radici dell’identità europea, un tema che in quel periodo teneva banco nella discussione politica e culturale, in merito alla opportunità o meno di menzionare le radici cristiane nella nascente costituzione europea. Tema sul quale Le Goff, al termine di uno dei saggi che utilizzai per la mia tesi, dopo aver analizzato l’influenza del cristianesimo sulle istituzioni politiche e sociali, sulla cultura, sull’economia e sulla mentalità dell’uomo dell’Età di Mezzo, da perfetto francese afferma che l’Europa di oggi, (con riferimento proprio alla menzione delle radici nella costituzione), non deve essere cristiana, ma laica, fatta salva l’importanza storica delle suddette radici.
In questa affermazione (che potremmo rovesciare dicendo che, preso atto della sua innegabile, sostanziale laicità odierna, l’Europa storicamente non può non dirsi cristiana) c’è un po’ la cifra di tutta la filosofia di Le Goff e della scuola da cui proviene. L’École delle Annales, fondata nel 1929 dagli storici Marc Bloch e Lucien Febvre, a cui poi si aggiunse Henri Pirenne, rivoluzionò il modo di fare storia, che fino ad allora era stata concepita essenzialmente come “histoire événementielle”, vale a dire come storia dei grandi personaggi e dei grandi avvenimenti istituzionali: come se nei secoli del Medioevo fossero esistiti solo re, papi, feudatari, guerre e accordi politici. Questi studiosi francesi, la cui ricerca storica comincia così a occuparsi, con l’aiuto di altre scienze, come la geografia, l’archeologia, la sociologia, l’antropologia, la numismatica, lo studio dei fossili, ecc… anche dei protagonisti “anonimi” della storia: popolani, contadini, donne, bambini. Cerca di ricostruire la loro vita quotidiana, capire cosa mangiassero, come si vestissero, quale fosse la loro mentalità.
E’ quello tra fede cattolica e storiografia medievistica contemporanea, secondo me, un rapporto di odio e amore reciproci e tra loro insolubili: la prima non può fare a meno della seconda per impostare una battaglia apologetica e di contro-storia che abbia seri fondamenti culturali e scientifici; ma deve costantemente guardarsi dal suo sostanziale anticlericalismo, quando non anticattolicesimo. La seconda, pur essendo geneticamente giacobina e marxista, si rende conto, anche quando non vuole ammetterlo, che senza cristianesimo e senza Chiesa non sarebbe esistita nemmeno la civiltà oggetto dei suoi studi (e di conseguenza, aggiungo io, la civiltà tout court). E’ un’ambivalenza costante, che in Le Goff riemerge spesso, con affermazioni e tesi di stampo marcatamente volterriano-comunista, anche superate dalla storiografia laica più recente, insieme a imprevedibili aperture e riconoscimenti verso la benefica opera culturale e sociale che la Chiesa ha svolto nel corso della storia.
MASTINO:
Ma Le Goff a quali circoli fa riferimento? Massoni? sinistra? pagani…. Inquadriamolo ideologicamente e socialmente. E ancora: è anticattolico? anticlericale? o semplicemente antireligioso? A che si deve questa sua proterva diuturna mai doma smania di deformare anche il Medioevo pur di dir male della Chiesa Cattolica? Cui prodest? In Francia, nelle università di Francia e d’Europa Dio è morto, allora perché infierire su un morto? Perché sparare sulla croce rossa?
MASTROMATTEO:
Le Goff, che è di Tolone, nelle sue memorie dice di essere cresciuto in una famiglia “bipartisan”: madre (di origine italiana) cattolica e molto devota, padre anticlericale, anzi, specifica lui, addirittura antireligioso. A 15 anni, durante una gita a Tolosa, il futuro storico visita Saint-Sernin, la più grande chiesa romanica della Francia, e rimane profondamente commosso: si chiede da dove venga quella bellezza, chi siano gli uomini che l’hanno costruita. Nasce così, dall’incontro con una testimonianza materiale della civiltà cristiana medievale, la sua passione per la storia.
Tuttavia, il giovane Le Goff più che nutrire un sentimento religioso profondo e consapevole, subisce il fascino “estetico” del cattolicesimo, che, scrive, “si esprimeva nella forma post-tridentina del Midi. Il Concilio Vaticano II, la rivoluzione degli anni ’60-’70, hanno relegato tutto ciò in un altro mondo. Coloro che sono nati negli anni ’50 ne hanno solo un’idea vaga. Per le generazioni posteriori al 1960, è arabo”. Per quelle cerimonie, Le Goff provava “distanza, ma non estraneità: osservavo le antiche liturgie senza aderire ai gesti o all’emozione”.
Una figura che certamente ha avuto un grande ascendente su di lui è stato il suo primo maestro, Henri Michel, agnostico e socialista che, scrive, parlava però molto bene della Chiesa, cosa che mi sedusse in quanto ero un bambino cattolico praticante. Fin dall’inizio Michel aveva dato il la: “nel Medioevo la Chiesa domina su tutto”. La mia devozione di allora, certo relativa e tuttavia sincera, ne era rimasta sedotta».
Le Goff, alla sua scrivania, intervistato, in un’immagine recente, alla soglia dei 90 anni
MASTINO:
A un certo punto Le Goff – mi raccontasti una volta – dice la cosa più proibita a uno storico, la cui unica dea deve essere la libertà di ricerca e dunque la mancanza di barriere ideologiche negli studi (è un’utopia, lo so!): «Signori, parlate di tutto, ma non toccate la mia Rivoluzione Francese». Capirai, come dire non toccatemi il pisellino perché è mio e lo gestisco io. Ma che significa una simile assurdità? Che facciamo, prendiamo un’intera epoca storica e la dichiariamo a al di là del bene e del male? Cos’è questo se non usare la storia come ideologia?, prelevarne delle particole e elevarle sulle altre come fosse il Sacramento? Cos’è se non fare della storia teologia e di una fazione politica mistica? Poi dice era il Medioevo che…
MASTROMATTEO:
Collegandomi al discorso di prima, sottolineerei proprio questo “dogma” ideologico e politico che è alla base di un certo modo di pensare tipico della Francia. In quel paese, a parte i monarchici legittimisti e i cattolici tradizionalisti (“ultramontanisti” come sono stati definiti), nessuno, dall’estrema sinistra maoista all’estrema destra di Le Pen si è mai sognato di mettere in discussione il mito fondante della République, la “gloriosa” Rivoluzione Francese, specie nella sua declinazione giacobina. Quando alcuni storici controcorrente, come Pierre Chaunu, in occasione del bicentenario della Rivoluzione provarono a metterne in discussione il mito oleografico, iniziando a parlare di alcune pagine oscure di quella vicenda storica come lo sterminio dei Vandeani cattolici e monarchici, scatenarono polemiche e dibattiti paragonabili a quelli che avvengono qui quando qualcuno osa criticare la Resistenza e l’antifascismo. (Da questo punto di vista riteniamoci fortunati: mentre da noi non si può ancora discutere la storia di 70 anni fa, in Francia le diatribe sono rimaste ancora al 1789…).
Siamo di fronte a un chiaro esempio di lettura ideologica della storia, il che non deve scandalizzare visto che ciascuno interpreta i fenomeni partendo dalla sua impostazione culturale, e l’obbiettività pura in storiografia non può esistere, una lettura di cui però vanno evidenziati tutti i limiti, specie quando maneggia – con scarsa cura – temi delicati come la teologia, che sarebbe il vertice della conoscenza: non è roba da chicchessia, insomma.
MASTINO:
Una volta Messori ha scritto che Le Goff è tra i “santoni” della medievalistica laicista, ma non è nuovo alle gaffes: «La più clamorosa è quella della consulenza storica per la trascrizione cinematografica de Il nome della rosa di Umberto Eco. Il quale, imbarazzato, ha dovuto ammettere che il “suo” Medio Evo, quello del libro, era storicamente più accurato di quello ricostruito in immagini con il consiglio “scientifico” di questo ossequiatissimo professore francese». Anche un originale medievista italiano, Marco Tangheroni, se ricordi, smontò pezzo pezzo quella ricostruzione: neppure una pignatta, una brocca, nulla si salvò dal radar di precisione di Tangheroni; pure la ricostruzione delle suppellettili (e qui potrei dire la mia, essendone esperto) era sbagliata. Come la mettiamo adesso?… che facesti la tesi sul “grande storico” e che in realtà l’hai fatta su un gran ciarlatano?
Una delle più demenziali scene del “Il nome della rosa”: Bernardo Guy e il gatto ner
MASTROMATTEO:
Mi domando se senti mai scricchiolare i denti mentre strappi come una belva un pezzo di carne, un uomo a qualcuno… Sei davvero spietato e manicheo nelle tue considerazioni, direi quasi… giacobino. Scherzi a parte, premesso che io stesso ho fatto rievocazione storica medievale, e sono un convinto fautore dell’interazione tra studi scientifici di tipo accademico classico e nuove forme drammatiche e spettacolari di didattica, dato che la storia non si insegna e non si studia solo con i metodi tradizionali, ho sempre mantenuto una certa diffidenza verso l’illusione di poter ricostruire un periodo storico in maniera filologicamente perfetta.
Il medievista pisano Marco Tangheroni, deceduto prematuramente da qualche anno: smontò pezzo pezzo la riduzione cinematografica del “Nome della rosa” e scrisse del Medioevo “luminoso”… altro che “oscurantista”!
Nessun film, credo (tranne forse The Passion di Mel Gibson, dietro il quale c’è un lavoro di ricerca direi quasi disumano nella sua accuratezza), potrebbe essere promosso a pieni voti da uno studioso pignolo che ne passasse al setaccio tutti i particolari. A questo si aggiungono altre considerazioni: in primis il fatto che uno storico non può essere esperto conoscitore al 100% di tutto ciò che ruota attorno al periodo storico da lui studiato, aspetti della vita materiale e quotidiana compresi, soprattutto se parliamo di un periodo durato (secondo alcuni) ben dieci secoli. Inoltre, hai presente quando un film o un libro vengono presentati con una recensione a effetto di qualche mostro sacro del genere? Che so, un horror che “non ha fatto dormire Stephen King”? Ecco, sappiamo benissimo come funziona: il “mostro sacro”, a prescindere se abbia effettivamente visto o letto l’opera, semplicemente offre – dietro lauto compenso naturalmente – il suo “logo” per fare pubblicità al prodotto, tanto nessuno oserà mettere in discussione la sua auctoritas…
Lo stesso vale un po’ per le consulenze storiche nel cinema: lo studioso offre il suo nome (e incassa il suo cachet), magari poi non è che vada davvero ogni giorno sul set a controllare se tutto è storicamente in regola… io tendo sempre a diffidare degli esperti che diventano professionisti della consulenza o della prefazione: quando accade, significa che hanno smesso di studiare e fare ricerca, per diventare, appunto, dei santoni. Detto questo, io so che Le Goff ha successivamente preso le distanze dal regista de “Il nome della rosa” al punto da far togliere il suo nome dai titoli di coda dell’edizione francese, non foss’altro per la storia dei maiali che, come sai bene e ne hai scritto, nel Medioevo non erano grandi e rosa come quelli di oggi, presenti nel film, ma assomigliavano più a dei cinghiali, piccoli e neri…
Le Goff
MASTINO:
Dopo questa tua difesa d’ufficio del Nostro, rincaro la dose: l’hai voluto tu! Dice ancora Messori su Le Goff: «È pure l’autore di quel La nascita del Purgatorio che, malgrado l’apparenza severamente accademica, è da prendere come minimo con le molle ed è pervaso da un desiderio iconoclastico (pur abilmente mascherato) verso la pastorale e, soprattutto, la dogmatica cattolica». Che ne dici di quelle sue ricostruzioni sul purgatorio?
MASTROMATTEO:
Si tratta della tesi più famosa e suggestiva di Le Goff, ma secondo me anche della più discutibile, in cui emerge in controluce proprio quel tipico schema marxista che vede ogni fenomeno culturale o spirituale come “sovrastruttura” di uno economico e sociale.
In pratica, sostiene Le Goff, la nozione di un luogo intermedio tra Inferno e Paradiso sarebbe nata tra XII e XIII secolo in conseguenza di una nuova cultura borghese, subentrata a quella feudale, basata su un sistema sociale e culturale binario (sacro/profano, laici/ecclesiastici, signore/vassallo, Papa/imperatore ecc.). La nuova classe sociale ed economica dei mercanti e degli artigiani, contrapposta al clero e alla nobiltà, riabilitando il lavoro ed il guadagno, prima demonizzati come vili e immorali, avrebbe imposto in quei secoli una visione “ternaria” della società che si sarebbe riflessa anche nella teologia e nella concezione dell’aldilà, giacché la giustizia divina non poteva più essere concepita come manichea e inflessibile verso le attività economiche e il lucro. Una svolta che avrebbe dato legittimità sociale alla classe emergente, e maggiore potere alla Chiesa, diventata padrona anche del destino ultraterreno dei defunti.
E finché si trattava di una tesi storiografica, passi: ma quando, sull’onda del dibattito innescato dalla decisione di Ratzinger di sottoporre la questione teologica del Limbo a una commissione di esperti, Le Goff arriva addirittura ad auspicare anche l’abolizione del Purgatorio, se non dell’Inferno (Vedi QUI), ci si rende conto come, a volte, l’ideologia arrivi a offuscare anche i più elementari principi del buon senso… del resto sarebbe bastato a Le Goff andare a leggersi il Catechismo, non dico quello della sua infanzia, ma anche odierno, che spiega come il Purgatorio sia una verità di fede che nemmeno la Chiesa può cancellare, non certo un’opinione cassabile con un tratto di penna, su richiesta del primo storico agnostico che passa… Ma è un riflesso tipico del giacobinismo, appunto, quello di pensare di poter legiferare, o decidere, anche nelle questioni religiose e di coscienza. Quando una tale concezione è andata al potere, si è tramutata in un delirio luciferino di onnipotenza che dalla Vandea in poi ha provocato disastri.
Vittorio Messori: ha preso spesso in castagna Le Goff sulle più macroscopiche bufale che ha messo in giro
MASTINO:
Partono dall’idea di dover far cancellare l’inferno dalla dottrina cattolica, finiscono per fondare loro un nuovo inferno in terra, cassando chi si rifiuta di dire che è il “paradiso”. Ma torniamo in tema: l’analfabetismo cattolico di uno storico che pretende di fare ex cathedra della teologia da bar si estende anche alla stessa storia della santità, della quale pure osa dirsi “esperto” Le Goff. Ed infatti che vedi che a un certo punto, sempre Messori di nuovo coglie in castagna di brutto Le Goff (vedi QUI). Il quale ricostruendo (si fa per dire) la storia dell’inquisizione come fosse una barzelletta anticlericale ottocentesca, precipita in uno strafalcione da paura che neppure uno studente al primo esame universitario. Preso dalla furia giacobina di screditare inquisizione, papi, domenicani, francescani osa e dice:
«Domenicani e francescani diventano per molti simbolo di ipocrisia e i primi destano ancor più odio per il modo con cui si sono messi a capo delle repressioni dell’eresia, per la parte che assumono nell’inquisizione. Una sommossa popolare trucida a Verona il primo martire” domenicano: san Pietro detto, appunto, Martire; e la propaganda dell’Ordine diffonde la sua immagine con un coltello piantato nel cranio».
Una bufala clamorosa, per questo signore che, qualcuno mi diceva, “dagli anni ’50 vive di fotocopie del suo ego baronale”.
L’agguato in nel bosco dove san Pietro da Verona fu assassinato… martirizzato anzi
Spiega infatti Messori: «Innanzitutto: l’inquisizione nasce non contro il popolo ma, al contrario, anche per rispondere a una sua richiesta. In una società preoccupata soprattutto della salvezza eterna (…) per l’uomo medievale l’eretico è il Grande Inquinatore, è il nemico della salvezza dell’anima, è colui che attira la punizione divina sulla comunità. Dunque (come confermano tutte le fonti) il domenicano che arriva per isolano e renderlo inoffensivo, ben lungi dall’essere circondato dall’”odio”, è accolto con sollievo e accompagnato dalla solidarietà popolare. Tra le deformazioni più vistose di certa storiografia c’è l’immagine di un “popolo” che geme sotto l’oppressione dell’inquisizione e che spia ogni occasione per liberarsene.
Prosegue Messori: «C’è da sbalordire: il futuro santo nasce infatti a Verona, ma è ucciso il 6 aprile del 1252 nella Brianza, presso Meda, esattamente in un luogo boscoso detto Farga, mentre si reca con un confratello – anch’egli assassinato – da Como a Milano. Non c’entrava nulla Verona, dunque, come luogo della morte», è un agguato di due eretici mandati lì da congiurati segreti. Lo ammetteranno gli stessi assassini, pentiti e convertiti, sino a farsi essi stessi domenicani. «Una conversione determinata dalla reazione popolare all’omicidio: proprio quel “popolo” che, secondo Le Goff, si sarebbe sollevato per trucidare il “cattivo inquisitore”, gli tributa subito uno dei più straordinari trionfi di devozione che la storia della santità ricordi…. Etc etc etc… Mò voglio vedere proprio come te la cavi a togliere le castagne dal fuoco al barone Le Goff!
San Pietro Martire: protagonista di una delle più colossali bufale di Le Goff
MASTROMATTEO:
E’ una di quelle posizioni di Le Goff che lasciano francamente perplessi, anche perché si tratta di letture ormai considerate superate anche in ambito accademico, non solo “revisionistico”. Oggi anche gli studiosi più anticlericali convengono sul fatto che la “terribile” inquisizione, almeno nel Medioevo, quando non era ancora finita sotto il controllo del potere politico dei sovrani, era più garantista di certe procure di oggi… mentre altri fenomeni che di solito fanno parte della leggenda nera del Medioevo, come la caccia alle streghe, sono proprio tipici dell’età moderna.
In questo il Nostro non si discosta dai più vieti clichè: vede nell’antigiudaismo spirituale il germe dell’antisemitismo moderno, attribuisce alla Chiesa la reintroduzione della tortura (cosa che si deve semmai al ritorno in auge del diritto romano per opera dei poteri laici), definisce le crociate “guerre sante” (Crociate a proposito delle quali, tra l’altro, ha coniato una delle sue massime ad effetto più famose quanto infondate, ovvero che “l’unico frutto ottenuto dai crociati in Oriente è stata l’albicocca”… affermazione discutibile non foss’altro perché, come dimostrato dalla ricerca storica meridionale, noi i frutti “importati dall’Oriente” li conoscevamo già avendo gli islamici magrebini in casa da qualche secolo…).
D’altra parte, è sempre lo stesso Le Goff che a proposito della lotta ai Catari, scrive che se quella setta di tipo manicheo avesse prevalso, “avrebbe portato a una società di tipo teocratico e integralista”, un’affermazione che fatta da un Messori anziché da lui, avrebbe provocato polemiche a non finire… Potrei fare altri esempi di queste sue inedite aperture, che mi hanno stupito non poco: a proposito dei periodi di astinenza e digiuno dalla carne, sia in senso alimentare che sessuale, che nel Medioevo teoricamente potevano arrivare anche a un terzo dell’anno, citando il caso di Luigi IX, il re santo, a cui ha dedicato un’accurata biografia, scrive: «Non dobbiamo immaginare un addomesticamento implacabile del popolo da parte delle élites clericali. Senza un certo consenso nulla si sarebbe potuto fare, e nulla prova che tutto sia stato con il rigore ossessivo dei manuali dei confessori».
Le Goff
Sul tema delle devozioni e delle indulgenze, su cui a partire da Lutero si è fatto un imprescindibile cavallo di battaglia anticattolico, dice: «La Chiesa medievale non è un organismo freddo, che analizza freddamente i mezzi con cui controllare la società e determinare freddamente una politica. Condivide le credenze dei fedeli. Certo ne trae potere e profitti, ma concepisce se stessa soprattutto come educatrice e dispensatrice di servizi indispensabili. Sicuramente nella Chiesa troviamo profittatori e cinici, come in ogni collettività o servizio pubblico». Sembra quasi, insomma, che in Le Goff convivano gli stereotipi più vetusti dell’anticattolicesimo illuminista e marxista, accanto a una più recente consapevolezza “revisionista”, che forse non ha voluto ammettere nemmeno a se stesso. Probabilmente rifiuterebbe con orrore (da bravo cittadino di una Nazione che ama fissare per legge la verità, anche quando si tratta di una verità ideologica contraria alla realtà oggettiva), il titolo di revisionista. Ma gli esempi che ho fatto bastano a capire che lo storico, anche quando non lo riconosce, per definizione è sempre revisionista, o non è storico…
Nella sua casa parigina
MASTINO:
Dopo il Medioevo inventato da Voltaire, abbiamo oggi il Medioevo inventato da Le Goff. Il fatto è che è difficile parlare di Medioevo, non solo perché parli di un’epoca dannatamente complessa e immensamente colta durata qualcosa come 800 anni, e come non bastasse usava canoni e codici comunicativi assolutamente diversi dai nostri, lo stesso occhio dell’uomo di quell’epoca vedeva cose laddove noi non vediamo nulla, e se le vediamo ancora sono di un altro colore e hanno un altro senso. Non solo questo, e non anzitutto.
E’ difficile se non impossibile concepirlo, immaginarlo (nel senso letterale del termine: ridurlo in immagini, se non mutuando senza davvero comprenderle quelle rese dagli stessi uomini del Medioevo) e parlarne anche solo per darne una sintesi, per un’altra ragione: Il “Medioevo” non esiste e non è mai esistito: è una pura congettura storiografica, una retorica accademica, quando non un mero artificio polemico. Non esiste, dunque. Come non può esistere alcuna cosa organica e definibile che si sia dilungata per otto secoli e allargata a tutte le longitudini e latitudini della terra.
Come si potrebbe definire con una soluzione semantica unica noi, tutti noi fra mille anni, noi addizionati agli uomini dell’800, del ‘700 e giù sino al ‘400 per giungere alla somma di otto secoli di storia, definendoci domani “quegli uomini vissuti nel TardoEvo (1450-2100) pensavano, che dicevano e facevano questo e quest’altro…“?
Ma ti rendi conto di che assurdità è quella di inventarsi “medioevi” così come io adesso mi invento “tardoevi”?
nella sua biblioteca
MASTROMATTEO:
Se è per questo, addirittura lui il Medioevo, dopo aver messo in discussione quelli che vengono convenzionalmente considerati i suoi limiti temporali (la crisi economica e sociale del ’300, la scoperta dell’America, la Riforma luterana, la mentalità nuova del Rinascimento) lo dilata fino alla rivoluzione industriale… salvo poi appunto dire che “non esiste”. Una conclusione paradossale e sconcertante per molti. Ma ciò non deve stupire: la storia come “scienza”, la più imperfetta delle scienze, in fondo è questo, occuparsi di qualsiasi cosa riguardi il passato dell’uomo (anzi, andare in cerca di carne umana come un orco, per usare le parole di uno dei maestri di Le Goff, Marc Bloch), cercando però di comprimerla, sintetizzarla in categorie convenzionali, molto labili, effimere e discutibili. E questo vale a maggior ragione per il Medioevo, un termine di origine quattrocentesca, coniato già nel senso dispregiativo di “parentesi” negativa tra i fasti dell’antichità classica e quelli della “rinascita” umanistica, e poi cristallizzato alla fine del ‘600 dal filologo tedesco Keller, in cui pretendiamo di comprimere mille anni di storia. È un po’ come cercare di racchiudere il mondo in una fotografia, usando una metafora; ed è per questo che, se posso collegarmi polemicamente all’attualità, parlare di una verità storica obbligatoria per tutti e per sempre, fissata per legge, con tanto di sanzioni penali per chi la mette in discussione, è una sciocchezza assoluta, da stato totalitario nazi-comunista (altro che Medioevo!).
Le Goff oggi, nella sua estrema vecchiezza, prossimo ai 90 e ormai vicino al tramonto: fisico ma non editoriale. Purtroppo
Tuttavia devo dire che mi colpiscono le parole che Le Goff usa nel suo ultimo libro-intervista: una sorta di confessione a tutto campo sulla sua lunga esperienza umana e scientifica, a conclusione di un discorso in cui sembra in un certo senso rivalutare la religiosità medievale, individuando in particolare nel tema della speranza, e proprio a partire da un testo medievale che parla del Purgatorio (quel Purgatorio che abbiamo visto così bistrattato da lui), la cifra di tutta la mentalità dell’uomo dell’Età di Mezzo. Mi piace citare per intero questo passo, che chiude questo suo “testamento” spirituale, perché personalmente l’ho trovato molto interessante, direi commovente, soprattutto alla luce di quanto abbiamo detto prima:
«Per quanto agnostico, vedo nella ricerca della salvezza che la Chiesa medievale ha inculcato continuamente, un’aspirazione alla speranza, un appello. Ecco l’aspirazione fondamentale. Attraverso la povertà, le devastazioni dei cavalieri dell’Apocalisse – la guerra, la carestia, la peste – e tutte le violenze a cui i nostri tempi non hanno nulla da invidiare, la speranza resta l’eredità principale del Medioevo. Penso spesso all’usuraio di Liegi di cui parla il Dialogus miracolorum del cistercense Cesario di Heisterbach (1180-1240 ca.). L’usuraio, morto, appare a sua moglie e le chiede di mettere alla prova il suo amore per lui. Deve compiere una penitenza in grado di far uscire al più presto il marito dal Purgatorio. La donna dunque si fa recludere nel cimitero. Dopo sette anni l’usuraio le appare di nuovo. Indossa una veste bicolore in orizzontale, metà bianca e metà nera. Grazie a lei, dice, eccolo a metà strada verso il Paradiso. Che continui ancora per sette anni: le apparirà al momento di passare alla beata eternità, vestito di un abito tutto bianco… ed è proprio ciò che accade. In questa aritmetica corporea vi sono alcuni dei tratti più profondi della civiltà medievale: il ricorso al simbolismo, l’espressione attraverso le immagini, la padronanza del tempo, la coppia dell’uomo e della donna inaugurata da Adamo ed Eva e il travaglio per la salvezza. Vi è soprattutto l’aspirazione alla speranza, in terra come in cielo. Giacché Cesario aggiunge questa frase che fu e resta per me motivo di stupore: “Il Purgatorio è la speranza”. Vorrei dire: il Medioevo è la speranza».
Ecco, direi che questa inedita immagine dell’agnostico Le Goff, “diffamatore” del Purgatorio, che conclude il suo itinerario culturale vedendo nel Purgatorio la “speranza”, sia un segno di speranza per tutti.
MASTINO:
La chiamiamo, di solito, eterogenesi dei fini.
Francesco d’Assisi non è un santo popolare
È veramente curioso constatare, guardando alla storia della religiosità popolare, come Francesco, proprio lui, il “Poverello d’Assisi”, non sia mai stato davvero un’icona religiosa del popolo. Al contrario, è stato sempre un’icona degli intellettuali interni o esterni alla Chiesa, ma sempre in polemica con l’uno o l’altro aspetto della medesima; persino quanto di più detestato c’era da Francesco, gli eretici, persino questi hanno spesso (anzi: quasi sempre) sbandierato il suo nome in funzione magari “antipapista”. Ed è per tutto questo che è il santo più manipolato, strumentalizzato in ogni epoca, e perciò a tuttoggi il più misterioso e sconosciuto, sfigurato se vogliamo, e usato a copertura delle peggiori nefandezze mondane prima ancora che religiose. Non c’è ideologia politica, la più perversa anche, che non lo abbia fatto proprio: i radicali massonici, i liberal, i marxisti, socialisti, anarchici, verdi fanatici, molti fascismi; insomma, tutte le più miscredenti religioni politiche e teologie del potere.
Dovrei meravigliarmi, invece no. So perché è successo: perché tutte queste cose col francescanesimo condividono un elemento: l’utopia. Il francescanesimo nasce da un’utopia. E al suo interno spesso hanno agito correnti assai prossime alle eresie, quella gnostica soprattutto, che da quel movimento messo in piedi dal frate non potevano che essere attratte come api da una fioraia. Perciò ne furono sempre attirate le élite, i colti, gli eresiarchi e gli utopisti e ideologi d’ogni risma, gli sbandati pensanti, i politici. Appunto per questo suo nascere dall’utopia, ed essendo perciò necessariamente borderline, al limite estremo, sul filo del rasoio, nell’esatto punto dove si divaricano due realtà contrapposte. Per questo nessun movimento religioso ha dato tanto alla Chiesa, e nessuno, al contempo, le ha procurato tanti danni: del resto da quando è nato, proprio per quella scaturigine che dicevamo, gli stessi francescani non hanno fatto altro per secoli, e sin dal primo momento, che dilaniarsi e dividersi fra loro, spesso in fortissima polemica.
Una sindrome eminentemente politica diresti, tanto da rasentare la lotta perpetua tra massimalisti e riformisti in ambito laico, ma che in questo caso francescano venivano distinti tra spirituali e conventuali (nella prima fase, poi si moltiplicheranno come in un effetto domino). Proprio come le grandi strutture ideologiche a fondamento utopistico, come i partiti socialisti del secolo scorso, i francescani si portano da sempre nel DNA il germe della scissione. Ultimo caso in ordine di tempo, postmoderno, mentre il meglio è già passato, quello dei Francescani dell’Immacolata: lì pure, le dinamiche interne sono state quelle di inveterata memoria proprie del francescanesimo storico. Al pari degli altri francescanesimi, anche questo manelliano nasce da un’utopia rivestita di rigore e concretezza. Si scinderanno, prima di accompagnarsi con la massima dignità possibile verso l’estinzione.
Ma stupisce – tornando al discorso iniziale – questa mancata adesione del popolo minuto alla figura del gran Fondatore: nelle case dei semplici fedeli, delle nonne, non troveremo mai sul comò statue e immagini del Santo, difficilmente l’avrebbero invocato ed eletto a loro nume tutelare. Ma perché mai, se era pur sempre il “poverello” per antonomasia tal quale tanti poveri cristi? se era l’amabile protagonista delle dolciastre leggende bucoliche, tanto da sembrare disegnato su misura per il popolino e, magari, per i gonzi? Perché allora questo “popolino” non l’ha mai adottato il Poverello d’Assisi?
Ma perché avvertivano a pelle la natura eminentemente politica, ideologica, utopistica, disincarnante quasi, della sua icona. Da una parte. Dall’altra, presentivano che la sua riduzione a leggenda melensa era qualcosa di artificiale, posteriore, pensata a tavolino dai vertici per disinnescarne la potenziale e virile forza eversiva, tale almeno poteva diventare (e molte volte diventò) per i suoi epigoni e seguaci, più o meno in buona fede. Mancava, al contrario di quanto vorrebbe farci credere la mielosa e alla fine velenosa legenda aurea e mondana costruita sulla sua sagoma, mancava quella necessaria “materialità” del santo che piace tanto al popolo fedele.
Stranamente, sarà proprio uno dei primi francescani, un vero intellettuale (al contrario dell’astuto ma incolto Assisiate) come Antonio di Lisbona, il Santo di Padova, a supplire a questa carenza: diventando il più popolare dei santi, il più venerato della storia, quello delle “13 grazie al giorno”. Il Taumaturgo, dunque: figura mistica tra le predilette dal popolo, perché “utile”, concreta, “materiale”, tangibile perché incarnata iniettandosi come un antibiotico nella carne dell’uomo piagata dal peccato originale, prodigioso anello di congiunzione tra la terra e il cielo.
Francesco degli equivoci. Lo fu popolare, certo, ma figura fin da subito fraintesa – interpretata troppo in senso ultra-rigorista o ultra-lassista, in senso politico o spiritualista –, lo fu tra i ribelli, i movimentisti ereticali, tra i randagi teologici, gli esagitati morali e spirituali d’ogni tempo e risma. Il francescanesimo portò una caterva di equivoci ed eresie, che se non raggiunsero dimensioni pandemiche e non furono mortali per la Cristianità è per via della loro natura appunto “settaria” tendente al frazionamento interno infinitesimale, che ne disinnescava la forza sovversiva.
Nel suo Dna, il francescanesimo, portò sempre uno zelo sfrenato che proprio perché aspirante al massimo della perfezione nell’Ideale, era anche il più prossimo all’eterodossia; e la sua ortodossia, sempre tesa pericolosamente tra due opposti estremi, fu cronicamente borderline.
La vera povertà che non è il pauperismo… della retorica laicista e della demagogia clericale
by claudiac
LA POVERTÀ?
NECESSARIA,
MA LASCIAMO PERDERE LA
RETORICA PAUPERISTA
di Claudia Cirami
Contenta per l’elezione del nuovo papa, Francesco, al quale prometto obbedienza, devo dire però che la retorica sulla Kiesa povera – che secondo vari commentatori televisivi e fedeli sarebbe incarnata dalla scelta del nome papale – già mi è venuta a noia. Intendiamoci: approvo pienamente il richiamo all’Assisiate e l’idea di una Chiesa umile. Tuttavia, quando altri – che non sono il nuovo Papa e non hanno la sua sapienza dottrinale e pastorale – invocano la Kiesa povera, inizio a prendere le distanze. Anche perché, generalmente, chi ciancia su quanto dovrebbe essere modesta la Chiesa, di solito (tanto per dare un’idea della coerenza) gira con due cellulari in tasca, uno dei quali è un i-phone e/o lancia i suoi strali da un pc portatile, ovviamente fornito di connessione (veloce) ad internet.
L’anello del Papa. Venduto il quale, per alcuni, si risolvono tutti (o quasi) i problemi dell’umanità. L’intelligenza, evidentemente, non è un dono di tutti…
Sulla presunta ricchezza della Chiesa, durante questi ultimi due pontificati, ne abbiamo sentite di ogni sorta. Ironie e critiche sui viaggi nazionali e internazionali, sulle soste nei vari luoghi del mondo, sui “tesori” del Vaticano, sulle scarpe rosse, sull’ermellino, sull’anello d’oro del pescatore, etc. Il refrain era sempre lo stesso: “perché il Papa non vende…”, “con tutti quei soldi si potrebbe fare…”. Va da sé che un viaggio intercontinentale o il modesto quantitativo d’oro di anello del valore di due fedi non potrebbe affatto risolvere problemi gravi come la fame nel mondo o la povertà del pianeta, ma, nella polemica contro “i soldi del Papa”, tutto ha fatto brodo. Così, sia Giovanni Paolo II che Benedetto XVI – soprattutto quest’ultimo – sono diventati l’icona di una Chiesa spudoratamente ricca, chiusa nei propri egoismi e ignara del grido dei poveri nelle varie parti del mondo. A nulla è valso, in questi anni, sapere che i due pontefici vivevano in semplicità, che i loro pranzi e le loro cene non erano affatto pantagruelici, che, durante i viaggi, non soggiornavano in hotel a cinque stelle. Né è servito sapere che se “spreconi” nella Chiesa esistevano, erano alcuni prelati o presbiteri con manie di grandezza, ma non i sommi pontefici. Inutile dire anche che i viaggi wojtyliani servivano per fini pastorali e non turistici e che l’attenzione ratzingeriana per i paramenti fosse l’espressione dell’amore per la liturgia e non una concessione al lusso. Spesso, da questa polemica, pretestuosa e priva di ogni logica, sono stati influenzati anche molti cattolici, non ultimi alcuni preti. Che hanno, più o meno velatamente, come novelli luteri, invocato il ritorno alla purezza delle origini. Quali origini, in effetti, non è dato da capire, poiché da sempre – fatevene una ragione una buona volta – ricchezza e povertà hanno convissuto nella Chiesa di Cristo, dove hanno trovato posto il lebbroso che viveva fuori dalla città, consunto dalla malattia e dalla povertà, e Zaccheo, che condivide parte della sua ricchezza ma non si spoglia del tutto (eppure proprio a lui Gesù, come leggiamo in Lc 19, 9, dice: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza”).
Seminudo e sulla paglia: così lo vede la tradizione cattolica.
Ma il fatto che Gesù nasce in una stalla non è certo perché non può permettersi altro.
Per parlare di origini e di povertà, come non partire da Gesù di Nazareth? Nonostante una certa retorica – anche cattolica – che ha insistito sulla povertà, occorre sgomberare il campo dagli equivoci. Gesù non era un povero così come lo abbiamo sempre immaginato noi. Giuseppe, suo padre putativo, apparteneva al casato di Davide. Senza voler entrare sull’analisi del termine “tekton”, su cui gli studiosi sono divisi – per l’incertezza se significhi “falegname” o qualcosa di più come “carpentiere” (ma c’è anche chi ha pensato a “costruttore”) – è certo che Gesù, pur non appartenendo ad una famiglia ricca, non era povero, ma si collocava in una posizione economica media. La sua famiglia era con tutta probabilità semplice – nonostante l’origine davidica – ma non piagata dalla miseria. Le circostanze della nascita di Gesù sono particolari, ma la grotta fu scelta non certo per estrema povertà. Come fa acutamente notare Giuseppe Ricciotti, nel suo Vita di Gesù Cristo, a Betlemme – a causa del censimento – si riversarono numerose persone; ora “Giuseppe avrà avuto senza dubbio conoscenti o anche parenti a cui domandare ospitalità; sia pure che il villaggio era gremito, ma un angoletto per due persone così semplici e dimesse si poteva sempre trovare in Oriente… ma, naturalmente, in circostanze di quel genere, diventavano simili a caravanserragli anche le squallide case private, che consistevano di solito in un unico stanzone a pianterreno: tutto vi era in comune, tutto si faceva in pubblico, non c’era riserbo o segretezza di sorta… perciò… quella stalla su cui misero gli occhi i due coniugi sarà stata forse occupata parzialmente da bestie, sarà stata tetra e sudicia di letame, ma era alquanto discosta dal villaggio e quindi solitaria e tranquilla; ciò bastava alla futura madre”. Sappiamo che papa Francesco – da cardinale – non ha amato le lussuose chiese moderne perché, ha detto, “Gesù è nato in una stalla”. Ed è giusto che lo faccia notare perché in molte costruzioni di oggi c’è più ostentazione che altro. In tanti casi, infatti, non c’è più nemmeno quell’humus di amore per il sacro che ha originato basiliche, cattedrali e santuari del passato. Ma un conto è che lo dica un cardinale – ora papa – che conosce bene il Vangelo, un conto è che lo dicano altri che non lo conoscono per intero e si servono di pochi versetti per farsi una loro idea di Chiesa.
Poveri pescatori? Non è così…
Anche il resto della vita di Gesù si snoda tra ricchezza e povertà. Il suo seguito si componeva di poveri e ricchi in egual misura. Guardiamo ai pescatori, ad esempio. Daniel Rops, nel suo La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, li descrive come una gruppo sociale molto stimato sia perché fornivano un prodotto alimentare importante, sia perché erano ritenuti molto pii. È ancora Ricciotti, tuttavia, che ci rivela un particolare interessante su tutto il gruppo dei dodici: “Il lavoro manuale, di pesca o altro, era abituale… ma la sua necessità economica non era così imperiosa come presso di noi; le condizioni generiche della vita permettevano di astenersi dal lavoro anche per molti giorni di seguito, e simili astensioni tanto più erano permesse a coloro che avevano una base economica migliore, per esempio ai membri della famiglia di Zebedeo che esercitavano un’industria peschereccia piuttosto ampia”. Chiude il sempre l’informato Ricciotti: “Non è arrischiato supporre che, sotto l’aspetto economico, la famiglia di Gesù fosse in condizioni meno agiate che le famiglie di tutti o quasi tutti gli Apostoli”. Anche nella cerchia più allargata dei suoi discepoli, c’erano persone benestanti che sostenevano il gruppo dei dodici: basti pensare che, tra le donne, c’era la moglie dell’amministratore di Erode (e scusate se è poco…).
“E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago…”
Ma, per aver compreso cosa era la vera povertà, molti ricchi ora contemplano la gloria di Dio.
Qualcuno potrebbe ricordare l’episodio del giovane ricco, al quale Gesù fa una precisa richiesta: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo” (Mt 19,21). Francesco d’Assisi, prendendo alla lettera il versetto, compì la sua meravigliosa rivoluzione: si spogliò letteralmente di tutto e donò per sempre alla Chiesa un modello a cui guardare e un pungolo da sentire nella carne quando la tentazione della ricchezza cresce. Eppure quelle parole, se staccate dal resto del Vangelo, prima ancora di non regalare la perfezione a noi più deboli, che ci spogliamo di mala voglia persino del superfluo, prima ancora di non regalarla alla Chiesa che, secondo la vulgata di alcuni, è troppo presa da lussi e agi… indovinate un po’ a chi non la regalano? Proprio a Colui che, fino alla sua Passione, ha indossato una tunica “senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo” (Gv, 19,23), non uno straccetto qualunque, tanto che i soldati, capendone il valore, non vollero dividersela ma se la giocarono a sorte. La stessa Persona che, fino a poco tempo prima di morire, si è fatto ungere i piedi da una donna con un unguento costosissimo, 300 denari, e alle rimostranze di Giuda sul fatto che con quella cifra si poteva pensare ai poveri, ha risposto: “Lasciala fare, perché essa lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me” (Gv 12, 7- 8). Gesù, dunque, che certamente non si ferma ad un versetto, predica sì la povertà, ma come rinuncia al proprio egoismo e disprezzo dei beni che non si vogliono condividere. Non come esaltazione di un’ ipocrita vocazione pauperistica come quella di Giuda, pronto a (fingere di) preoccuparsi dei poveri ma pure disposto a vendersi il proprio Maestro per 30 denari. Pauperismo che, dicevamo, affligge la maggior parte di quelli che condannano la Chiesa.
Francesco d’Assisi: il santo più strumentalizzato della cristianità.
Se poi vogliamo dirla tutta, i maggiori giganti della santità non si spogliarono di tutto come Francesco. Eppure, il mondo è grato loro lo stesso e il Cielo ha benedetto di miracoli i loro processi canonici per accertarne la santità. Furono sì poveri, ma con prudenza. Abiti sobri, desinare frugale, rinuncia agli agi. Mentre Francesco chiese, però, ai suoi frati di vivere senza maneggiare denaro, molti altri noti santi amministrarono sapientemente (o fecero amministrare) ingenti somme che servivano per realizzare le grandi opere che avevano in mente per soccorrere il prossimo sia corporalmente che spiritualmente. Una frase, la cui attribuzione è incerta, dice che “il denaro è lo sterco del demonio”. Qualcuno, con pragmatismo cristiano, aggiunge però “che concima molto bene i campi di Dio”. Perché, come ha detto Messori: “Con il denaro ci si salva come fa Zaccheo o ci si danna come il ricco Epulone. Chi sostiene che nella prospettiva cristiana il denaro è sempre oggetto di disprezzo dice una colossale bufala”. Non è, dunque, un problema di denaro, ma dell’uso che se ne fa. Siamo certi che papa Francesco saprà bene in quale direzione dirigere la sua scelta di povertà. Ma non si illudano i “moralizzatori senza morale”: non butterà il sacro in un secchio, come in fondo desiderano molti di loro. Compresi alcuni uomini di Chiesa, ascoltati o letti sui mass media, e ormai portatori del proprio vangelo personale, totalmente dimentico del vero Vangelo. Perché il loro ideale è far diventare la Chiesa un’associazione filantropica, uguale alle altre, dove Gesù Cristo è ridotto a guaritore e dispensatore di parole buone, ma non è più il Figlio di Dio: questo – mettetevelo bene in testa – non è quello che hanno in mente i papi. Nemmeno uno che si chiama Francesco, riferendosi al Poverello d’Assisi. Che, giusto per ricordarlo, non era quel giullare buonista che molti hanno in mente. Ma un tipo tosto, rigoroso, fedele al Papa e al Vangelo, al quale Qualcuno, secoli fa, diede un compito gravoso: “Francesco, va’ e ripara la mia casa”.
Per approfondire il vero Francesco d’Assisi, rimando agli articoli di Dorotea Lancellotti:
Ma poi s. Francesco era davvero il cicciobello che dicono?: prima parte
Ma poi s. Francesco era davvero il cicciobello che dicono?: seconda parte
Italiani mendicanti sequestrati e dichiarati fuori legge
Gianfranco, 67enne vende libri per sfamarsi. Vigili Urbani sequestrano e multano l’ambulante.
Gianfranco ogni mattina riempie un vecchio zainetto con una dozzina di libri sottratti agli scaffali di casa, dai romanzi alla Bibbia, inforca la sua bicicletta e dopo 8 km di pedalata raggiunge il centro di Brescia, per trascorre le sue giornate in corso Palestro… con la speranza di vendere qualche libro.
Brescia, ore 6:55 Giovedì 25 Luglio 2013: Gianfranco é pronto… riempie nuovamente il suo vecchio zainetto e monta in sella, dopo 30 minuti raggiunge corso Palestro, appoggia la bicicletta al muro e tira fuori i suoi libri… senonché dopo circa 40 minuti, 5 pattuglie dei Vigili Urbani con abbordo nientepopodimeno che 9 Agenti, si fermano davanti a Gianfranco.
“Senta lei” dice uno dei nove vigili urbani, “ha un permesso per vendere i libri”?
Gianfranco con un filo di voce risponde: no signore, ma cerco di vendere i libri per sopravvivere fino alla fine del mese, prendo una pensione di 550 euro mensili, ma tra affitto e bollette non riesco a mettere niente sotto ai denti.
“Ci dispiace ma lei non può stare qui” ripete il vigile “devo farle una multa di 160 euro per aver occupato abusivamente il suolo pubblico e sequestrarle i libri“.
Cari amici, Gianfranco è solo il simbolo di una parte dell’Italia che è ridotta veramente in situazioni economiche drammatiche, in totale dissonanza con il denaro pubblico sprecato e male usato, denaro pubblico che potrebbe essere messo a disposizione di quelle povere persone che non hanno cosa mangiare all’ora dei pasti.
Gianfranco racconta: «Non è facile chiedere aiuto, ma un’offerta libera per uno di questi libri mi pare più dignitoso che allungare la mano per chiedere alla gente una moneta. Io non avvicino nessuno. Chi vuole si ferma e se è interessato mi offre quel che può».
Tanti gli sguardi che cadono indifferenti su quei libri a terra, pochi quelli che gli rivolgono anche una parola e che se ne vanno con un volume sotto braccio. «È dura ottenere qualcosa -ammette Gianfranco-, ma venire in città per me è anche un modo per non deprimermi, per stare in mezzo alla gente, come facevo quando ero giovane e lavoravo come autista o portalettere. Mi piacerebbe avere un lavoro per vivere, potrei fare il guardiano per qualche azienda e sarei disposto a lavorare anche la notte. Mi accontenterei anche di poche ore, quel tanto che basta per arrotondare la pensione che non basta mai».
Continua Gianfranco: «Con quello che prendo, al netto dell’affitto e delle bollette, posso permettermi solo un pasto al giorno, che il mio Comune mi offre a 6 euro e mezzo – continua Gianfranco -. Ma negli ultimi mesi ho perso 15 chili e avrei bisogno di riempire lo stomaco un po’ più spesso».
Andrea Mavilla
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Il cervello dell’uomo è una struttura biofisica straordinariamente complessa e articolata e funziona un po’ come il ghiacciaio sotto il sole. Anche se alla nascita il cervello umano è già perfettamente completo e funzionante, sarebbe un grande errore ritenerlo una struttura fissa, chiusa, bloccata. Il cervello è dato all’uomo in dotazione già funzionante e completo, ma la sua evoluzione e il suo funzionamento sono determinati da come esso viene utilizzato e sfruttato. Il cervello crea connessioni elettrochimiche secondo le azioni che gli sono continuamente richieste. Imparare da piccoli una lingua che usa particolari inflessioni, intonazioni, modulazioni, frequenze sonore, richiede al cervello di costruire connessioni sinaptiche di un certo tipo, adatte a recepire, sintonizzarsi ed emettere tali inflessioni, intonazioni, modulazioni, frequenze sonore. Insistere su un certo tipo di orientamento mentale fatto di pensieri tristi, carichi di sfiducia e cinismo chiede al cervello di costruire connessioni elettrochimiche, canali di trasmissione di un certo tipo. Insistere su un certo tipo di orientamento mentale, fatto di pensieri felici, carichi di fede e gratitudine, chiede al cervello di costruire connessioni elettrochimiche, canali di trasmissione di un altro tipo. Così è per l’arciere, che affina la sua abilità ripetendo le azioni che gli permettono di tirare con l’arco: egli non costruisce le stesse connessioni cerebrali del pescatore, che affina la sua abilità ripetendo le azioni del pescare. Non solo. Il cervello riconosce perfino il motivo spirituale, psicoemotivo per cui si ripete un’azione, un movimento, un pensiero. Ripetere un’azione, un gesto, un modo di dire, per imposizione, chiede al cervello di costruire un tipo particolare di connessione neuronale. Ripetere un’azione, un gesto, un modo di dire, per libera scelta, chiede al cervello di costruire un tipo di connessione neuronale completamente diverso. Ripetere un’azione per affinarsi nell’abilità di assicurarsi il cibo, l’acqua, il fuoco, un riparo costruisce nel cervello connessioni sinaptiche, vie elettrochimiche completamente diverse da quelle che si costituiscono quando le medesime azioni vengono ripetute per avere successo in una competizione, per essere guardati dagli altri, per il riconoscimento degli altri. Un pensiero di possesso non costruisce le stesse connessioni cerebrali di un pensiero di amore. Un pensiero di avidità non costruirà mai le connessioni di un pensiero di gratuità. Ripetere un’azione pilotata dal desiderio di controllare una persona non costituirà mai le connessioni cerebrali di un’azione guidata dal desiderio di rispettare, stimare una persona. Una persona che chiede al proprio cervello di rimanere per anni su pensieri di gelosia non costruisce lo stesso tipo di connessioni neuronali che costruirebbe se chiedesse al cervello di rimanere su pensieri di fiducia e di amore. Ripetere un’azione aggressiva, rigida, scostante non costruirà mai le connessioni cerebrali del ripetere un’azione gentile, comprensiva, accogliente. Il cervello è dato in dotazione all’uomo funzionante e completo, ma come poi ogni individuo chieda al suo cervello di lavorare per costruirsi pian piano nelle innumerevoli connessioni sinaptiche, elettrochimiche, è dato alle scelte e alle intenzioni di ciascuno. Il cervello funziona un po’ come la superficie ghiacciata del nevaio, dove le gocce d’acqua che si formano per lo scioglimento della neve costruiscono pian piano dei veri e propri canali, delle vie di scorrimento e comunicazione per l’acqua stessa.
Gesù non risponde al tale, che gli chiede cosa fare di buono per avere la vita eterna, di vendere tutti i suoi averi e di donarli ai poveri, per una questione religiosa, morale, devozionale, ma perché lui, che è il Signore della vita, conosce perfettamente come funziona il cervello umano. Gesù non propone a quel tale di liberarsi dagli attaccamenti del denaro e delle proprietà, da ogni forma di possesso, per rispettare una forma di rettitudine morale, per essere eticamente accettabile come discepolo, ma perché Gesù sa, come nessun altro, che lasciare andare gli attaccamenti e il possesso è l’unica strada per essere felici, sani, intelligenti, capaci di evoluzione e di vero benessere qui sulla terra, e, un giorno, per essere capaci di raggiungere il regno dei cieli. Gesù sa che, se una persona usa il proprio cervello per rimanere su pensieri e azioni di avidità e possesso, costruisce connessioni cerebrali che gli impediscono, nel modo più assoluto, di essere felice, sana, connessa con la vita, capace di evoluzione e vero benessere. Gesù sa che, se una persona usa il proprio cervello per rimanere su pensieri e azioni di dominio, potere, supremazia sugli altri, costruisce connessioni cerebrali che le impediscono, nel modo più assoluto, di essere nella gioia, di provare pace, di essere connessa con l’umanità e il cosmo. Gesù propone a quel tale di vendere tutto e donarlo ai poveri, non perché Gesù ami la povertà e la miseria, e le consideri parte integrante di uno stato avanzato di evoluzione etica e spirituale. Gesù considera la povertà e la miseria realtà terribili, devastanti malattie sociali da curare, completamente in contraddizione con i desideri di Dio. Sono i famelici prepotenti del mondo, gli avidi potenti della terra, i feroci lupi rapaci delle corporazioni bancarie e commerciali che amano e desiderano per l’umanità indigenza, miseria, povertà, non certamente Dio. Gesù non offre indicazioni perché l’uomo viva misero e povero, ma perché, abbandonando ogni forma di attaccamento e possesso, viva felice e in armonia, sereno e in pace. Le procedure che Gesù offre all’umanità, attraverso il suo messaggio evangelico, sono assolutamente funzionali alla felicità integrale e completa dell’uomo. Gesù non ha donato al mondo il vangelo perché gli uomini potessero creare una nuova religione di riferimento, ma perché, seguendo il vangelo, l’uomo potesse purificare i propri pensieri e azioni, e dunque rinnovare completamente le proprie connessioni cerebrali per rinnovare interamente la propria vita.
Il nuovo popolo di Dio che lo Spirito Paraclito si sta preparando sarà intellettualmente un popolo nuovo, perché sarà neurologicamente un popolo nuovo, un popolo che costruirà, con la luce del vangelo e la potenza dello Spirito Paraclito, connessioni cerebrali funzionali alla felicità, alla pace, alla condivisione, alla gratuità.
Ascoltare e amare il vangelo cambia prima di tutto il modo di utilizzare il cervello.
Vangelo di Matteo 19,23-30
In quel tempo, 23 Gesù disse ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. 24 Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
25 A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: «Allora, chi può essere salvato?» 26 Gesù li guardò e disse: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile». 27 Allora Pietro gli rispose: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?» 28 E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. 29 Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. 30 Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno primi».
Denarodio
Gesù afferma: Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio. Secondo le parole di Gesù la sete di ricchezza, la brama di denaro è assolutamente incompatibile per l’uomo che vuole vivere secondo i desideri di Dio. La sete di denaro, da una parte, impedisce all’uomo di vivere sul pianeta terra secondo le procedure evangeliche, e gli rende impossibile coltivare pensieri adatti per costruire una vita secondo l’armonia, la bellezza, la grazia, la gioia, la pace, la sapienza del regno di Dio, dall’altra, impedisce all’uomo di poter entrare un giorno a far parte della vita senza fine nelle dimore eterne, nella luce e nella pace di Dio. Perché? La sete di denaro è la più mortale malattia dell’uomo, in quanto è diventata la vera devozione dell’umanità, e, il denaro, il suo unico, vero dio. Il dio denaro ha fatto costruire i suoi templi su tutto il pianeta per essere adorato, celebrato, onorato, acclamato. Il dio denaro ha suoi discepoli ovunque, ha i suoi gruppi di venerazione, ha costruito i suoi centri organizzativi direzionali, e, nel tempo, ha distribuito su tutta la terra i suoi emissari rappresentanti, i suoi missionari predicatori, i suoi profeti di persuasione, i suoi catechisti ideologici, pubblicitari, i suoi celebranti rituali, i suoi ministri e servitori, difensori e paladini.
Il dio denaro si è presentato al mondo inizialmente come piccole, innovative monete di terracotta, rame, argento, oro e altri metalli e ha persuaso l’uomo a ritenerlo il più potente mezzo di difesa e controllo, supremazia e dominio, perché permetteva di avere eserciti più numerosi e meglio armati. Il dio denaro, poi, si è presentato al mondo come piccoli, inermi, innocui fogli di carta colorata, e ha persuaso l’umanità che, con lui, l’uomo può essere il più forte e potente di tutti, e che, con lui, l’uomo può essere il più nobile, importante, autorevole, influente, apprezzato di tutti. Quando il dio denaro si è presentato al mondo come innocente e comoda tessera magnetica di credito, ha persuaso l’umanità che tutto ha un prezzo e che tutto può essere comprato e che, con lui, l’uomo può essere un invincibile tiranno su scala globale, un inattaccabile despota planetario, un onnipotente signore della globalizzazione, un’irresistibile, maestosa bellezza, un imponente, impressionante, possente padrone del mondo. Quando il dio denaro si è presentato al mondo come legittimi numeri in un conto bancario, segno di autonomia e libertà personale, ha persuaso l’uomo a credere di essere egli stesso un dio, un dio cui tutto è possibile, un dio che può donare lusso sfrenato a pochi e debiti senza fine a tutti gli altri. Il dio denaro ha lavorato senza sosta per riuscire, un po’ alla volta, a rappresentare per l’umanità la sua più sicura fonte di sopravvivenza, la sua reale difesa contro il male e la malattia, contro l’invecchiamento, contro l’ingiustizia, la paura, la guerra. Il dio denaro ha persuaso l’uomo che senza denaro nulla ha senso e nulla deve muoversi sulla terra senza guadagno. Il dio denaro ha fatto in modo tale che tutto della vita dell’uomo sia regolato, governato, disciplinato, subordinato, ordinato, sostenuto, guidato, stabilito dal denaro. Sono dominati e controllati dal denaro gli affetti, le relazioni, i contratti matrimoniali, le separazioni di coppia, la nascita dei figli, il lavoro, il divertimento, il gioco, le comunicazioni, il riposo, l’alimentazione, le bevande, il caldo e il freddo, l’abitare, il vestire, la scienza, la cultura, l’educazione, la salute, la malattia, la ricerca medica e tecnologica, la farmacologia, la medicina, le cure mediche, le morali, le religioni, ogni forma politica, il commercio, il viaggiare. Il dio denaro odia con tutte le sue forze tutto ciò che in natura l’uomo può trovare in quantità abbondante e in forma gratuita. Il dio denaro odia l’acqua e il cibo che Dio ha creato e che l’uomo può usare per bere e alimentarsi gratuitamente, perché, fino a che sulla terra ci sarà acqua pulita da bere e cibo buono, il dio denaro non potrà vendere a tutti la sua acqua imbottigliata e i suoi cibi transgenici. Il dio denaro odia il fatto che esista per l’uomo la possibilità di guarigione dalla malattia fisica e psichica attraverso la cura e la guarigione dei propri pensieri, perché, se la gente impara a prevenire e a guarire le malattie attraverso il processo individuale, personale, gratuito, autonomo di pulizia e cura del proprio dialogo interiore, a chi potrà vendere i suoi farmaci, le sue costosissime cure? Il dio denaro odia l’armonia e la pace, perché l’armonia e la pace non fanno fruttare e girare denaro come il disordine e la guerra. Il dio denaro odia il corpo integro e sano, forte e intatto dell’uomo perché un corpo sano non si può vendere e comprare facilmente, per questo preferisce il corpo dell’uomo a pezzi, diviso in organi, che sono senza dubbio più commerciali e costituiscono un fiorente mercato. L’uomo è ossessionato dal dio denaro ma al dio denaro non interessa assolutamente nulla dell’uomo. Per il dio denaro l’uomo, la persona umana non ha dignità, libertà, senso, significato, valore, per il dio denaro l’uomo è solo e unicamente una batteria con un certo potenziale energetico sotto forma di competenze, addestramento, forza lavoro da sfruttare fino al midollo, a prezzo minimo, per poi essere gettata in discarica. Il dio denaro odia dell’uomo soprattutto i tempi morti della vita, i tempi fisiologici dell’infanzia e della vecchiaia, i tempi non produttivi, non trasformabili immediatamente in denaro. Il dio denaro odia il Dio vero, perché il Dio vero ha creato tutto nella più totale bellezza, abbondanza, pienezza, armonia, e soprattutto tutto gratuitamente. Tutto ciò che Dio ha creato non ha prezzo, perché è tutto gratuito.
Il dio denaro ama i ricchi e odia i miseri, perché i miseri, per quanto sottomessi e silenziosi, a volte gridano e fanno rumore, attirando attenzioni fastidiose. Il dio denaro ama tanto la ricchezza, odia i miseri, ma ama la miseria. Ama la miseria, la povertà, lo svantaggio delle moltitudini, perché questo aumenta a dismisura la ricchezza, il lusso, il vantaggio dei pochi ricchi, i suoi figli prediletti. Il dio denaro ama la schiavitù e la sottomissione delle masse, perché questo aumenta a dismisura la separazione delle masse sfortunate dai ricchi fortunati. Il dio denaro ama la separazione incolmabile tra ricchi e poveri, perché questa separazione istituzionalizzata e inviolabile è all’origine della sua religione preferita, la religione fondata sul culto dell’azzardo, della fortuna e della sfortuna, del destino, del caso, del fato. Il dio denaro ama la separazione in ogni sua forma, perché la separazione genera antipatia, ostilità, conflitto, guerra, distruzione, tutte situazioni che portano alle casse del dio denaro fiumi di valuta. Il dio denaro ama la malattia, la solitudine, la sofferenza dell’uomo, perché, per superare queste disgrazie, l’uomo tende a spendere tutti i propri beni e averi senza battere ciglio, anche se non riceve alcun sollievo, aiuto e guarigione. Il dio denaro odia i bambini, perché non sono produttivi, ma anche li ama, in quanto sono il suo investimento preferito, perché, se persuasi e addestrati a dovere, rappresentano una fonte formidabile e rinnovabile di guadagno senza limiti. Il dio denaro ama l’infelicità dell’uomo, perché per un po’ di felicità e di piacere, l’uomo è disposto a spendere tutto ciò che possiede e a indebitarsi per millenni fino alla miseria e alla schiavitù. Il dio denaro ama il debito e i debitori come le sue vittime sacrificali predilette, perché, attraverso il debito genera nel cuore e nella mente dell’uomo non solo un perenne e invincibile senso di colpa, ma anche uno stato costante di schiavitù e dipendenza. L’uomo debitore è già uno schiavo, ma quando non ha più risorse per pagare il debito, può essere schiavizzato dal creditore in modo legale e istituzionalizzato.
Il dio denaro disonora l’uomo, lo rende stupido, dipendente, debitore, schiavo, aggressivo, violento, misero, separato. Ora, se questo è in parte ciò che offre il dio denaro, che senso avrebbe per un uomo, che ha onorato il dio denaro, servito il dio denaro, obbedito al dio denaro per tutta la vita terrena, desiderare di entrare un giorno, terminata l’esperienza sul pianeta terra, nel regno del Dio vero? Sarebbe mai possibile che un uomo o una donna, che hanno servito e reso culto al dio denaro come il padre della loro vita, per tutti i giorni della propria vita, nel momento di entrare nella vita senza fine avessero anche solo il minimo interesse e desiderio di far parte del regno del Dio dell’amore, del Padre dell’amore, della gratuità, della pace, della bellezza, dell’armonia? Ecco perché Gesù insiste: Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio
Giuda l’Ipocrita: il primo pauperista del cristianesimo. Che non a caso era (pure) un ladro
by Il Mastino
“Così parlò Giuda. Non perché avesse a cuore i poveri o perché fosse buono. Ma perché era un ladro…”
Giuda non è solo il primo pauperista della storia cristiana: ne è anche il primo ladro, il primo corrotto, il primo traditore, il primo contestatore. Ma soprattutto, il suo vero peccato, il più inviso a Gesù in ogni pagina del Vangelo, più di ogni ladrocinio, è l’ipocrisia. L’Iscariota non fa la fine che fa perché è un disonesto: il suo è il finale tragico dell’ipocrita. Che, al contrario del ladro, è irredimibile. E starà sempre in piedi nel tempio, da fariseo, a biasimare i pubblicani in ginocchio… Meglio ladri che ipocriti, allora.
A proposito di IOR e moralisti un tanto al kg
di Massimiliano Fiorin
Il Papa non c’entra nulla, ovviamente. Si spera anzi che dopo le prime un po’ incaute nomine, le cose inizieranno a ingranare per il meglio. Ma la sensazione di disagio per gli assalti mediatici di chi vuole “riformare” a ogni costo, sta disorientando anche una parte non indifferente del popolo di Dio. Dunque, è più che mai il momento di tornare ai principi. Di ricordarci chi siamo e da dove veniamo.
L’adolescente Giovanni, nel riferire dello scandalo provato da Giuda per l’unzione di Betania, ha aggiunto un’osservazione che negli altri Vangeli mancava. Si può dire che abbia tentato di tracciare un profilo psicologico del traditore: “disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro, e siccome teneva la cassa prendeva quello che vi mettevano dentro”.
L’ipocrisia, più che l’avidità di denaro, è stata dunque il peccato di Giuda. Tutti gli interpreti sono concordi nel dirlo. San Bernardo di Chiaravalle, uno che non si spaventava di fronte alle questioni di moneta, non si indignò per la disonestà dello zelota, ma scrisse parole di fuoco contro la sua ipocrisia. Fin da quando, durante la cena, egli chiese al Maestro “son forse io?” pur sapendo di essere lui il traditore.
Secondo lo stesso San Bernardo, in un famoso sermone scritto contro alcuni eretici del suo tempo (pauperisti a loro volta, come vedremo meglio in seguito): “gli ipocriti sono pecore nel portamento, volpi nell’astuzia, lupi nelle opere e nella ferocia. Il loro primo pensiero è di non essere buoni: ma di parere tali; di essere cattivi, ma di non sembrarlo… temono di apparire cattivi, per non essere cattivi in pochi. Infatti, la malizia manifesta ha sempre arrecato minor danno, né alcun uomo buono è mai stato ingannato se non con la simulazione del bene. Così dunque, costoro cercano di apparire buoni in danno dei buoni, e non vogliono apparire cattivi per poter maggiormente malignare” (Serm. LXVI, in Cant.).
Una descrizione che si attaglia alla perfezione a tanti censori degli sprechi e dei pretesi sfarzi della Curia, che ai nostri giorni imperversano in rete. Del resto, tutto il messaggio evangelico è coerente con il tragico epilogo del tradimento di Betania. Se dovessimo sintetizzare la morale di quella brutta storia, con la successiva disperazione e il suicidio dell’Iscariota, potremmo facilmente concluderne che i ladri si redimono, anche abbastanza facilmente, mentre per gli ipocriti – salvo le solite ovvie eccezioni – sono quasi sempre cavoli amari.
L’ipocrita e il fariseo non compaiono in questa foto. E neppure Giuda. Tutti e tre sono dietro la macchina fotografica
Rileggendo in questa chiave il Vangelo, vediamo che coloro che malversano con il denaro, prima o poi, vanno tutti incontro al perdono da parte del Cristo. E’ sempre andata così: Matteo, Zaccheo, i pubblicani, il buon ladrone che si è salvato proprio all’ultimo secondo. Anzi, i ladri talvolta riescono anche a beccarsi qualche lode per la loro scaltrezza, come l’amministratore disonesto (cfr. Lc, 16, 1-13) che per salvarsi la pensione organizzò una specie di cresta all’incontrario sui pagamenti dovuti al suo ex-padrone. Il quale, oltretutto, non si arrabbiò nemmeno, e invece di chiamare i finanzieri sprecò una buona parola per il suo dipendente infedele. Il che, detto per inciso, è pure un ottimo precedente per chi, ai nostri giorni, si trova ad avere a che fare con fatture, ricevute, contributi previdenziali…
Per gli ipocriti, invece, nei Vangeli si rimediano solo guai e disperazione. Non ci arrivano nemmeno vicino alla sorte riservata ai ladri e ai malversatori. Loro rimangono sempre e puntualmente tagliati fuori. Basta rileggersi le parole che sono state riservate ai farisei, agli scribi, ai membri del sinedrio, ecc. Tutta gente che – peraltro – era anche tendenzialmente ricca, ma non certo per il fatto di possedere molti beni è andata incontro all’ira divina.
E’ l’ipocrisia, il farsi scudo della povertà altrui, il voler apparire onesti, che taglia fuori dal Regno di Dio. E talvolta uccide all’istante, come avvenne a Anania e Saffira, che furono fulminati non per aver trattenuto per sé parte del prezzo del loro campo, bensì per essersi accordati per non dirlo a nessuno, e far miglior figura davanti agli apostoli e all’assemblea (At, 5, 1-11).
Per l’appunto, prendiamo lo Ior. Ai nostri giorni, il bersaglio preferito dei pauperisti di tutte le risme. A ben vedere, nel collegio dei dodici apostoli, quello che amministrò il primo Ior della Chiesa nascente è stato proprio Giuda Iscariota. E la cassa non gli è stata tolta per il fatto di avere male amministrato, o per avere rubato (cosa che, come dicevamo, avrà persino rischiato di guadagnargli una lode: chissà cosa avrà pensato in cuor suo, se era presente, quando Gesù raccontò la parabola dell’amministratore disonesto…).
Piuttosto, è stata l’ipocrisia, lo zelo da rivoluzionario che si preoccupava dei poveri a portare l’Iscariota sulla strada della perdizione. Le sue ultime parole da apostolo, prima del tradimento e del bacio, sono state di scandalo per la ricchezza male amministrata, per l’unguento sprecato che appariva come uno schiaffo in faccia alla miseria. Un pensiero ipocrita, da parte di chi, nel corso dei tre anni passati col Nazareno, finse costantemente di preoccuparsi di quei poveri che – stando sempre al racconto di Giovanni – più volte era stato incaricato di gratificare con l’elemosina. Al punto che, quando uscì dal cenacolo, molti pensarono che Gesù gli avesse appunto chiesto di andare a dar qualcosa a essi (cfr. Gv, 13, 29).
L’Iscariota
Una storia che si è ripetuta più volte, nel corso delle secolari vicende della Chiesa, prima di arrivare all’odierno entusiasmo per la nuova riforma finanziaria preannunciata dai laudatores di papa Francesco. Quando papa Silvestro, nel IV secolo, iniziò a organizzare le strutture temporali della Chiesa, grazie all’egida dell’imperatore Costantino, anche allora ci furono quasi subito quelli che gridarono allo scandalo. Tanto che, quando nell’alto Medioevo cominciarono a organizzarsi i primi movimenti ereticali, dai Bogumili ai Catari, dai Valdesi ai Dolciniani, la condanna delle ricchezze del clero e il desiderio prorompente di una Chiesa povera per i poveri (absit iniuria verbis) furono la vera, e incontrastata, nota costante.
Fra Dolcino. E’ lo stesso sguardo torvo di Giuda e di tutti i suoi successori sino ai nostri giorni. “Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore…”
Non risulta peraltro che questi eretici medioevali siano stati mai veramente poveri. Nessuno sa che fine abbia fatto il cosiddetto tesoro dei Catari, sul quale oggi si favoleggia, ma di certo il loro rigoroso disprezzo per le realtà materiali è stato un ottimo paravento per l’organizzazione di saccheggi e eccidi. Tanto, dicevano i Catari, tutto ciò che esiste nel creato merita di andare alla distruzione, e quindi loro non si tirarono di certo indietro per dare una mano. Lo stesso Dolcino, oggi sappiamo, il primo vero clericale “ideologizzato” della storia cristiana, l’ennesimo pauperista, prima partì col proposito di uccidere i ricchi per distruggerne l’esecrata ricchezza, poi pensò (o meglio: si vantò) anche di darla ai poveri come un Robin Hood, alla fine ritenne più pratico e conveniente trattenerla per sé, tutta: uccidere diventò un mezzo per arricchirsi oltre. E darsi alle orge e a ogni sorta di piacere e lusso. Un altro che non aveva capito che la scelta della povertà non la si deve imporre agli altri, ma, “se proprio vuoi essere perfetto” come dice Gesù nei Vangeli, a sé stessi. Ma proprio a se stesso Dolcino non la impose mai, anzi…
Moralisti che seppelliscono una “immorale”
In fondo, chi erano gli eretici del medioevo? Gioacchino Volpe, storico e pensatore di livello, aveva le idee chiare al riguardo: “sono fabbri, sarti, tessitori, scardassieri, contadini; gente illetterata e idiota, come gli avversari la proclamano, e come se stessa, a volte, ama chiamarsi; ignorante cioè e sprezzante di quella cultura della Chiesa e degli alti ceti a cui il popolo minuto si sentiva estraneo…” (Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medioevale italiana, secoli XI-XIV, Vallecchi, ed. 1961, pag. 247). Un quadretto che si potrebbe applicare ancora oggi ai popolani del web che – almeno prima delle attese suscitate da papa Francesco – gridavano di continuo contro gli “sfarzi” della Curia romana, le “scarpe rosse” e i cerimoniali a loro dire “troppo fastosi”.
Il denaro altrui è sempre motivo di scandalo per gli ipocriti. Che si tratti dell’unguento da trecento denari, o dei capitali dello Ior. Ovvero, delle tasse da pagare. Eppure, a chi gli chiedeva se si devono o no pagare i tributi, Gesù rispose nello stesso modo. Non eluse la questione, e pure non invitò nessuno alla sobrietà né all’onestà fiscale, ma rivolse ai farisei il noto ammonimento “conoscendo la loro ipocrisia”: perché mi tentate? Portatemi un denaro perché lo veda (Mt, 22, 15-22).
La sentiamo questa voce? Ma a questo punto sembra già di sentirsi rispondere che papa Francesco non la pensa certamente così, che è solo per evitare gli scandali – terreno di coltura delle peggiori ipocrisie – che sente l’esigenza di riformare la struttura finanziaria della Chiesa cattolica, e via discorrendo. In realtà, sarebbe necessario che ci dessimo tutti una calmata. Soprattutto riguardo a questo discorso sulle riforme. Papa Francesco sa meglio degli altri che le strutture, le regole, i comitati di controllo, e così via, non servono a nulla se non si riesce a riportare a Cristo il cuore degli uomini di Chiesa.
Se si confondono i due piani, quello della carità con quello delle opere di bene, secondo Borghello “si finisce per misurare l’amore con le opere, favorendo l’azione del demonio che ama i paragoni, le lotte di potere, il giudizio della persona attraverso le sue opere, le invidie per le opere altrui, la presunzione per le proprie opere di bene, le accuse, gli scoraggiamenti per i limiti delle nostre opere, o le false sicurezze umane”.
Fin troppo facile ribaltare questo giudizio sui prelati e sui banchieri che hanno diretto le finanze della Chiesa. Non solo negli ultimi decenni, ma – se vogliamo – dalla donazione di Costantino in poi. Tuttavia la differenza consiste proprio nel metro di giudizio. Se si accetta il criterio del mondo, sempre pronto a scandalizzarsi per gli sprechi, per i fasti, per gli eccessi, per tutto ciò che può fomentare l’invidia, allora l’avversario l’avrà vinta in partenza. “Non c’è agenzia di male superiore a quella dei cristiani praticanti che confondono la carità con le opere di carità” – continua Borghello – “perché solo loro possono corrompere il Vangelo”.
Il Dottore Mellifluo, che assai poco lo era, mellifluo: il contrario semmai. Bernardo di Chiaravalle, un gigante spirituale
Ci abbiamo messo ampiamente del nostro, quindi, come cattolici, nell’accettare il criterio del mondo, per giudicare la moralità della Chiesa. Non serviranno dunque nuovi esperti di comunicazione e di pubbliche relazioni, per rendere più conforme al Vangelo l’amministrazione finanziaria del Vaticano. Tanto meno, c’è bisogno di scelte glamour, giovanilistiche e in linea con le aspettative mediatiche (sì, stiamo anche parlando di Francesca Immacolata Chaouqui). Piuttosto, c’è bisogno di andare controcorrente. Evangelicamente.
Sentiamo pertanto, di nuovo, cosa scrisse San Bernardo di Chiaravalle: “Il desiderare dall’umiltà la lode dell’umiltà, non è virtù, ma pervertimento. Vi è cosa più indegna e più perversa che quella di voler comparire migliore appunto in quello in cui si è peggiore? Costoro non praticano la virtù, ma nascondono il vizio sotto il mantello della virtù” (Serm. XVIII, in Cant.). Concetto ostico ai professionisti della morale, ma ben più chiaro di tanti tweet più o meno polemici, o al contrario entusiastici.
San Francesco su questi tempi? Altro che Bergoglio-Francesco!
Dopo aver convocato i suoi fratelli poco prima della sua morte (1226), Francesco ha avvertito su tribolazioni future, dicendo: “Fratelli agite con forza e fermezza in attesa del Signore. Un periodo di grandi tribolazioni e afflizioni in cui grandi pericoli e imbarazzi temporali e spirituali accadranno; la carità di molti si raffredderà e l’iniquità dei malvagi abbonderà. Il potere dei demoni sarà più grande del solito, la purezza immacolata della nostra comunità religiosa e altri saranno appassiti al punto che ben pochi fra i cristiani vorranno obbedire al vero sommo Pontefice e alla Chiesa Romana con un cuore sincero e perfetta carità.
“Nel momento decisivo di questa crisi, un personaggio non canonicamente eletto, elevato al soglio pontificio, si adopererà a propinare sagacemente a molti il veleno mortale del suo errore. Mentre gli scandali si moltiplicheranno, la nostra congregazione religiosa sarà divisa tra altre che saranno completamente distrutte, perché i loro membri non si opporranno, ma consentiranno all’errore. Ci saranno così tante e tali opinioni e divisioni tra la gente, e tra i religiosi e i chierici che, se quei giorni malefici non fossero abbreviati, come annunciato dal Vangelo, anche gli eletti cadrebbero nell’errore (se fosse possibile), se in tale uragano non fossero protetti dall’immensa misericordia di Dio. Così la nostra Regola e il nostro modo di vita saranno violentemente attaccati da alcuni. Delle tentazioni terribili sorgeranno. Coloro che supereranno la grande prova riceveranno la corona della vita. Guai a quelli tiepidi che metteranno ogni loro speranza nella vita religiosa, senza resistere saldamente alle tentazioni consentite per provare gli eletti. Coloro che nel fervore spirituale abbracceranno la pietà con la carità e zelo per la verità, subiranno persecuzioni e insulti come se fossero scismatici e disobbedienti. Perché i loro persecutori, spronati da spiriti maligni, diranno che in questo modo prestano grande onore a Dio nell’uccidere e rimuovere dalla terra degli uomini tanto cattivi. Allora il Signore sarà il rifugio degli afflitti e lui li salverà, perché hanno sperato in Lui. E poi per rispettare il loro Capo, agiranno secondo la Fede e sceglieranno di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, acquistando con la morte la vita eterna, non volendo conformarsi all’errore e alla perfidia, per assolutamente non temere la morte. Così alcuni predicatori terranno la verità in silenzio e negandola la calpesteranno.
“La santità di vita sarà derisa da coloro che la professano solo esteriormente e per questa ragione Nostro Signore Gesù Cristo invierà loro non un degno pastore, ma uno sterminatore“.
Opera Omnia S. FRANCISCI ASSISIATIS, col. 430 Paris Imp. Bibliothèque écclésiastique 1880 (dalle annotations de Louis- Hubert Remy)
IL PERDONO DI ASSISI
Quello che ha reso nota in tutto il mondo la Porziuncola è soprattutto il singolarissimo privilegio dell’Indulgenza, che va sotto il nome di “Perdon d’Assisi”, e che da oltre sette secoli converge verso di essa orde di pellegrini. Milioni e milioni di anime hanno varcato questa “porta di vita eterna” e si sono prostrate qui per ritrovare la pace e il perdono nella grande Indulgenza della Porziuncola, la cui festa si celebra il 2 Agosto (“Festa del Perdono”).
L’aspetto religioso più importante del “Perdon d’Assisi” è la grande utilità spirituale per i fedeli, stimolati, per goderne i benefici, alla Confessione e alla Comunione eucaristica. Confessione, preceduta e accompagnata dalla contrizione per i peccati compiuti e dall’impegno a emendarsi dal proprio male per avvicinarsi sempre più allo stato di vita evangelica vissuta da San Francesco e Santa Chiara, stato di vita iniziato da entrambi alla Porziuncola.
L’evento del Perdono della Porziuncola resta una manifestazione della misericordia infinita di Dio e un segno della passione apostolica di San Francesco d’Assisi.
COME SAN FRANCESCO CHIESE ED OTTENNE L’INDULGENZA DEL PERDONO
Una notte dell’anno del Signore 1216, Frate Francesco era immerso nella preghiera e nella contemplazione nella Chiesetta della Porziuncola, quando improvvisamente dilagò nella chiesina una vivissima luce e Francesco vide sopra l’altare il Cristo rivestito di luce e alla sua destra la sua Madre Santissima, circondati da una moltitudine di Angeli. Francesco adorò in silenzio con la faccia a terra il suo Signore!
Gli chiesero allora che cosa desiderasse per la salvezza delle anime. La risposta di Francesco fu immediata: “Santissimo Padre, benché io sia misero e peccatore, ti prego che a tutti quanti, pentiti e confessati, verranno a visitare questa Chiesa, conceda ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe”.
“Quello che tu chiedi, o frate Francesco, è grande -gli disse il Signore-, ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghiera, ma a patto che tu domandi al mio Vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza”.
E Francesco si presentò subito al Pontefice Onorio III che in quei giorni si trovava a Perugia e con candore gli raccontò la visione avuta. Il Papa lo ascoltò con attenzione e dopo qualche difficoltà dette la sua approvazione. Poi disse: “Per quanti anni vuoi questa indulgenza?”. Francesco scattando rispose: “Padre Santo, non domando anni, ma anime”.
E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: “Come, non vuoi nessun documento?”. E Francesco: “Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni”.
E qualche giorno più tardi insieme ai Vescovi dell’Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, disse tra le lacrime: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!”.
(Da “Il Diploma di Teobaldo”, FF 3391-3397)
CONDIZIONI PER RICEVERE L’INDULGENZA PLENARIA DEL PERDONO DI ASSISI
(per sè o per i defunti)
Tale indulgenza è lucrabile, per sè o per le Anime del Purgatorio, da tutti i fedeli quotidianamente, per una sola volta al giorno, per tutto l’anno in quel santo luogo e, per una volta sola, da mezzogiorno del 1° Agosto alla mezzanotte del giorno seguente, oppure, con il consenso dell’Ordinario del luogo, nella domenica precedente o successiva (a decorrere dal mezzogiorno del sabato sino alla mezzanotte della domenica), visitando una qualsiasi altra Chiesa francescana o Basilica minore o Chiesa Cattedrale o parrocchiale.
Le condizioni per acquistare il Perdono sono quelle prescritte per tutte le indulgenze plenarie e cioè:
1) Confessione sacramentale per essere in Grazia di Dio (negli otto giorni precedenti o seguenti);
2) Partecipazione alla Messa e Comunione Eucaristica;
3) Visita alla Chiesa della Porziuncola (o un’altra Chiesa francescana o Chiesa parrocchiale), per recitare alcune preghiere. In particolare:
Il CREDO, per riaffermare la propria identità cristiana;
Il PADRE NOSTRO, per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo;
UNA PREGHIERA SECONDO LE INTENZIONI DEL PAPA (ad esempio Padre Nostro, Ave Maria, Gloria al Padre), per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Romano Pontefice.
“Non è compito della Chiesa offrire ricette per il migliore funzionamento della società“?
Risposta ad Antonio Baldo
Signor Baldo, nel suo articolo del 13 luglio “Così papa Francesco sta spiazzando i cattolici” si legge tra l’altro: “Non dico della Chiesa gerarchica, che parla per principi ritenuti universali e che, giustamente, non ritiene suo compito (anche perché priva delle adeguate competenze) offrire ricette per il migliore funzionamento della società“. Non la faccio lunga (non senza aver notato per inciso quel “ritenuti”): ma ha mai sentito parlare della dottrina sociale della Chiesa e della Regalità Sociale di Cristo? Ha mai letto qualche riga delle grandi encicliche “politiche” quali la “Libertas”, l’”Immortale Dei” e la “Rerum Novarum” di Leone XIII, la “Quas primas” e la “Quadragesimo anno” di Pio XI? E non crede che sarebbe un po’ strano e un po’ triste che la Chiesa, “madre e maestra”, “colonna e fondamento di verità“, non avesse “ricette” da offrire “per il migliore funzionamento della società“? Per secoli gli Stati cristiani si sono retti sulla filosofia del Vangelo, come ricordava proprio Leone XIII nella citata “Immortale Dei” (1.11.1885): “Vi fu già tempo che la filosofia del Vangelo governava gli Stati, quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata bene addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e ragioni dello Stato, quando la religione di Gesù Cristo posta saldamente in quell’onorevole grado, che le conveniva, traeva su fiorente all’ombra del favore dei Principi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il Sacerdozio e l’Impero , stretti avventurosamente tra loro per amichevole reciprocanza di servizi.
Ordinata in tal modo la società, recò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e durerà la memoria, affidata ad innumerevoli monumenti storici, che niuno artifizio di nemici potrà falsare ed oscurare “. E lei scrive che “giustamente” la Chiesa “non ritiene suo compito” additare un modello di società? I casi sono due: o ha ragione lei, e allora né Leone XIII né Pio XI né gli altri pontefici che per quasi duemila anni hanno insegnato concordemente questa dottrina (potere diretto o indiretto, ma comunque potere della Chiesa “ratione peccati” negli affari temporali, e dovere degli Stati di conformarsi alla “filosofia del Vangelo”) erano veri papi, oppure non lo sono quelli (compreso quello del titolo) che insegnano quella da lei sintetizzata. Tertium non datur.
Cardini – Un Papa giustizialista, un vescovo socialista…
… e meno male che c’è nella Chiesa ancora un po’ di gente per bene, come quel monsignore di Venezia-Mestre…
«Dov’è tuo fratello?» (Gn., 4,9). E’ la domanda severa, terribile, che il Signore rivolge nel Genesi a Caino: il quale risponde con qualcosa di peggio di un’ammissione, magari arrogante, del fratricidio. «Sono forse io il guardiano di mio fratello?». Sono io il responsabile del suo diritto alla vita? Caino si vergogna di aver ucciso il fratello e teme l’ira di Dio. Ma considera del tutto normale l’indifferenza: e ritiene addirittura che Dio la condivida al punto da accettare per buona una risposta come la sua.
La tragicità di questa pagina biblica ci è stata fatta comprendere appieno lunedì 8 luglio 2013 da un umile prete biancovestito. Papa Francesco è arrivato a Lampedusa esattamente ventisei mesi dopo quell’8 maggio del 2011, la data del tragico naufragio di un barcone di disperati la maggior parte dei quali incontrò la morte appunto in vista delle coste dell’isola considerata la Porta d’Europa da tanti poveri migranti. In ricordo di quelle povere vittime dalla loro sfortuna e della violenza e dell’egoismo altrui (si parla ormai di circa 20.000 vittime), il primo gesto del pontefice giunto pellegrino e penitente a rendere omaggio agli «Ultimi della terra» è stato quello di consegnare alle acque una corona memoriale di fiori. In significativa, simbolica coincidenza, proprio un paio d’ore prima dell’arrivo del Papa aveva attraccato a Lampedusa un’altra barca piena di profughi, con la loro speranza e il loro dolore.
Lampedusa è da anni rifugio, primo approdo, luogo di concentrazione e di smistamento di un’umanità dolente fatta di gente sfuggita alla guerra, alla tirannia, alla violenza, alla fame; di gente che per arrivare è costretta a sopportare una volta di più la durezza del ricatto imposto loro da un’altra umanità, quella degli eterni figli di Caino, i mercanti di carne umana che per danaro fanno il turpe mestiere dei traghettatori clandestini, tanto vicino a quello del negriero di qualche secolo fa. Perché bisogna viverla, la storia appena cominciata del XXI secolo, per convincerci che forme di barbarie che credevamo definitivamente superate e cancellate sono tornate per un malvagio incantesimo a rivivere.
Tutta la visita di Francesco a Lampedusa è stato un finissimo tessuto, tanto magistrale quanto commovente, di simboli e d’insegnamenti teologici ed etici, forse anche apocalittici. Il Papa sapeva bene di star facendo visita a musulmani che poco sanno del cattolicesimo e molti dei quali sono stati o sono in qualche modo esposti agli insegnamenti degli imam islamisti, per i quali il cristianesimo è il «Cavallo di Troia» dell’Occidente neocolonialista e ateo nel Dar al Islam. E sapeva bene che, d’altronde, ormai i cattolici – compresi quelli che si dicono osservanti – sono dal canto loro ben poco esperti nella Scrittura e molto spesso contaminati dall’ateismo pratico della Modernità. Appunto per questo ha insistito sui simboli, com’è nella sua personalità e nella prassi inaugurata all’atto della sua elezione.
La scena dell’8 luglio, in quest’angolo di onde e di roccia al centro del Mediterraneo, somigliava alla perfezione a quella di circa duemila anni fa, quando le folle sulle rive del Mare di Galilea videro scendere da una barca Uno venuto per sfamarli, per guarirli, per confortarli. Colui che porta l’Anello del Pescatore e che è il successore di un povero pescatore galileo è giunto di nuovo dal mare in quest’isola anch’esso di pescatori e ha compiuto – lui, l’uomo forse più celebre e sotto certi aspetti più potente della terra – il gesto che legioni di tangheri politicastri in questi lunghi mesi si sono ben guardati dal fare. E’ sceso tra i bisognosi, li ha ascoltati, ha letteralmente pianto con loro: ha dichiarato che se loro, i rifugiati, sono la stirpe di Abele, noialtri che in un modo o nell’altro facciamo parte della società opulenta e privilegiata siamo la maledetta razza di Caino. Una razza che non ha nemmeno il coraggio di ammazzare con le proprie mani: che uccide con l’indifferenza.
E allora, quelle barche troppo spesso naufragate, quei vascelli assassini, eccoli a loro volta diventare strumento di redenzione. Il legno di quelle barche si è fatto fisicamente altare, trono, pulpito, croce pastorale, calice eucaristico. Tutta la liturgia della messa pontificia si è svolta all’insegna di quei pezzi di legno ricavati dai relitti dei naufragi: perché a quel legno il Cristo, nella persona degli Ultimi della Terra, è stato crocifisso di nuovo. Ed è di questo che Papa Bergoglio ha chiesto perdono a loro, a nome di tutti noi. E lo ha fatto scegliendo con cura le letture liturgiche da proporre durante la messa: il passo del Genesi sul delitto di Caino e quindi quello del Vangelo di Marco sulla Fuga della Sacra Famiglia in Egitto (Mc., 1,15), a ricordare che i derelitti di Lampedusa e di qualunque altro luogo al mondo sono figura di Cristo Bambino, fuggiasco e perseguitato con i Suoi: come del resto ricorda anche la bella preghiera ebrea a proposito degli stranieri da accogliere in quanto lo stesso Israele è stato esule e prigioniero in Egitto.
Ma se con il legno si fanno le barche e le croci, con esso si costruiscono anche i ponti. Ed ecco un altro splendido atto di coraggio e di lungimiranza, fino ad oggi inaudito. Dinanzi all’altare, durante la celebrazione della messa, il Papa si è rivolto direttamente ai rifugiati, nella totalità o quasi musulmani: ha ricordato che appunto con l’8 luglio è cominciato il mese del Ramadan, ha salutato i fedeli del Corano e ha assicurato che la Chiesa segue la loro preghiera delle prossime settimane. Tra gli astanti, sotto il sole, moltissimi non avevano né mangiato né bevuto dall’alba: e non lo avrebbero fatto fino al tramonto.
I musulmani interrogati dai giornalisti hanno tutti dichiarato di essere felici e commossi della visita del Santo Padre, anche se qualcuno ha aggiunto che – com’era del resto suo diritto – non avrebbe assistito alla messa. Ma quel che non sapremo mai, e sarebbe la cosa più interessante da sapere, è quanti di loro sono restati profondamente scossi dall’incontro con Papa Francesco: resteranno fedeli al Profeta (non è la conversione il pegno di tutto ciò), ma cominceranno a porsi dei problemi nuovi o a considerare sotto una luce nuova problemi che credevano vecchi.
Perché questo è il punto. Ieri abbiamo vissuto tutti un nuovo, straordinario capitolo della storia di quel lago capriccioso e meraviglioso che è il nostro Mediterraneo. Non nascondiamoci che ormai da alcuni mesi anche quelli di noi che avevano le certezze più granitiche le hanno perdute. Che cosa sta succedendo in Siria, che cosa in Egitto? Dov’è finita la «primavera araba» in Tunisia, dove in Libia? Che cosa significa il silenzio dei media israeliani imposto da Nethanyahu? Che cosa vogliono davvero gli emirati arabi, quelli che il nostro governo chiama ostentatamente «monarchie costituzionali», mentre seguendo l’alta ispirazione di saggi illuminati come Bernard-Henri Lévy si sono approvate (e finanziate, e appoggiate militarmente) le sollevazioni contro Gheddafi in Libia e contro Assad in Siria e si esita a definire golpe il putsch dei militari del Cairo adattando ad esso la ridicola definizione di «sollevazione formalmente illegale, ma sostanzialmente legittima», con la quale nel 1992 si era avviato il vergognoso riconoscimento, da parte di tutti i governi «democratici» occidentali, del colpo di stato militare che nel gennaio 1992 aveva rovesciato l’esito delle libere e corrette elezioni in Algeria che avevano assegnato la vittoria al Fronte Islamico di Salvezza? Da quale parte sta Obama, e da quale il Congresso degli Stati Uniti?
E tanto per restare in casa nostra, mi scrive l’amico Luigi Copertino, «nel lago mediterraneo c’è anche la Grecia dove, per il ricatto di UE, FMI e Commissione Europea, ossia la troika calata a difesa degli interessi degli speculatori finanziari e degli strozzini globali, vengono licenziati i dipendenti pubblici e viene chiusa la TV di Stato e privatizzato tutto. Altrimenti alla Grecia non sono concessi altri prestiti (ad interesse usuraio) che non la salveranno ma aggraveranno la sua agonia. E’ ora di ritirare fuori l’antica tradizione antiusuraica della Chiesa e delle altre due fedi abramitiche. Pio XI aveva visto giusto, nella Quadragesimo Anno (1931), quando accusava ‘l’imperialismo internazionale del denaro!’» .
Tutti questi problemi, tutte queste contraddizioni, sussistono: ma non inficiano il significato di quel che è accaduto a Lampedusa. Facendo visita alla Porta d’Europa, il Papa ha scelto d’inaugurare la fase del vero e concreto cambiamento nella Chiesa ch’egli aveva annunziato con molti gesti simbolici scegliendo come oggetto primario e privilegiato quelli che sono sul serio gli «Ultimi»; e, insieme con loro, gli abitanti di Lampedusa che da mese, nella sostanziale semindifferenza del nostro paese e della Comunità Europea, si fanno in quattro pagando di persona con le loro povere tasche – anch’esse, in gran parte, di pescatori – il peso di un’ospitalità che, in poche spanne di terra, è divenuta un’attività travolgente e totalizzante. La carità e la solidarietà hanno letteralmente sconvolto la vita di questi isolani, ne sono diventate le protagoniste: peccato che politici, amministratori, manovratori dei media, non se ne siano accorti più di tanto, e tanto meno lasciati impressionare o commuovere. In fondo, un omicidio – meglio se efferato – «fa notizia»: qualche centinaio di poveracci che danno fondo alle loro risorse e accettano che la loro esistenza stessa sia sconvolta per aiutare altri più poveracci di loro, questo «non fa notizia». Anzi, non sono mancati da parte di certe scellerate emittenti radiotelevisive e da parte di alcuni miserabili membri di gruppi politici, commenti finissimi del tipo «Perché non se li porta in Vaticano?», oppure «Il Papa dice no alla globalizzazione dell’indifferenza, noi diciamo no alla globalizzazione della clandestinità». Un vecchio rottame craxiano riciclato dal miracolo-Berlusconi e brillante per notoria mediocrità, ha pensato bene dall’altezza incommensurabile della sua personalità di dar lezione di arte di governo al capo della Chiesa, commentando che «Un fatto è predicare, un altro governare»: e senza dubbio ha dal suo punto di vista ragione, vista la bassa cucina dell’arbitrio e dell’intrallazzo che egli e il suo leader usano appunto definir «governare». Formazioni politiche note per l’abilità con la quale difendono l’evasione fiscale se non addirittura il furto legalizzato attraverso l’uso spregiudicato dei pubblici fondi, quando si tratta dei «clandestini» si vestono d’un legalitarismo che farebbe impallidire il più scrupoloso dei funzionari asburgici dell’impero austroungarico.
Del resto, i loro militanti sono i medesimi che ergendosi a difensori della «Civiltà cristiana» pretenderebbero oggi il crocifisso dappertutto, ritenendolo un simbolo antimusulmano: dappertutto, beninteso, fuori che a casa loro. Misuriamo la distanza che passa tra il civismo e l’umanità dei pescatori di Lampedusa i quali da mesi – qualunque sia il loro credo politico e la loro fede o non-fede religiosa – vivono seriamente e concretamente l’insegnamento evangelico, e la barbarie di quei tali cattolici strenui difensori delle loro «radici» e della loro »identità» che alcuni mesi fa giunsero sfacciatamente all’infamia di auspicare che i barconi dei profughi fossero affondati dalla nostra Marina militare. Questa gentaglia ha trovato negli ultimi giorni un eroe e un simbolo in monsignor Martini, parroco del duomo di Mestre, che ha organizzato una specie di servizio d’ordine volontario per allontanare dalla sua chiesa una banda di molesti e petulanti accattoni. Anche qui, si è voluto spregiudicatamente cavalcare il disagio. Siamo tutti stanchi dell’accattonaggio molesto e ormai sempre più insistente e spesso perfino teppistico che ci perseguita dappertutto: sui sagrati delle chiese, nelle stazioni ferroviarie, nei métro. Siamo tutti d’accordo che la «distrazione» nell’applicare le leggi e il «buonismo» superficiale e generalizzato sono dannosi in quanto incoraggiano atteggiamenti asociali e spesso criminali senza per questo risolvere il problema della miseria. Ma il problema esiste, non lo si può ignorare: e la doverosa repressione degli atteggiamenti più noiosi o addirittura odiosi non ci esime nell’impegnarci in termini di solidarietà che ormai debbono essere eccezionalmente intensi in quanto eccezionale è l’emergenza che stiamo oggi vivendo.
Dove vuole condurci, quindi, Papa Bergoglio? Mesi fa, egli ci stupì con alcuni gesti che tuttavia scandalizzarono qualcuno e lasciarono nel dubbio qualcun altro. La Chiesa deve tornare povera e al servizio dei poveri, disse: e scelse di mutare dall’oro all’argento il metallo dell’Anello del pescatore, simbolo del suo ruolo di successore di un ebreo che duemila anni fa pescava per vivere, sul lago di Galilea. Personalmente, ebbi a notare a caldo che apprezzavo il messaggio mediatico che il Papa lanciava con quel gesto simbolico, in quanto ben consapevole del forte inquinamento che ormai la Modernità ha determinato negli stessi atteggiamenti mentali diffusi: in un mondo che ormai considera come naturale il primato dell’economico, rinunziare all’oro in favore dell’argento significa dar una lezione di umiltà e di scelta di una povertà della Chiesa che dovrebb’essere esempio di carità. Tuttavia esiste un valore assoluto dei simboli: e l’oro usato dalla Chiesa nei suoi oggetti e nei suoi paramenti è anzitutto un omaggio allo splendore della Gloria, della Potenza e della Sapienza divine. Allora, dissi che avrei preferito che il Papa si tenesse l’anello d’oro ma desse, ad esempio, un segnale forte di mutamento dello IOR. Ebbene, il segnale c’è stato: non c’è dubbio che c’è l’assenso del Papa dietro all’apertura di una più decisa fase dell’indagine giudiziaria della procura di Roma nei confronti dei vertici di quell’Istituto, con il primo risultato di alcune dimissioni e di alcune compromissioni di personaggi «eccellenti». Non sarà certo un cammino facile: e già nei Sacri Palazzi si profilano significative resistenze. Ma il mite Bergoglio, in realtà, è un duro: nel suo paese lo sapevano bene. Forse non è sfuggito proprio a tutti quelli che l’8 luglio hanno seguito la «diretta» di RAI 1 che, all’arrivo del Papa, una voce scandiva da un altoparlante, in perfetto italiano ma forse con una lontana inflessione iberica, lo slogan «Si sente, si sente, il Papa è qui presente!». Può darsi che agli italiani che non sanno nulla dell’Argentina quella frase sia apparsa «innocente». Ma quanti della nostra sorella latinoamericana conoscono viceversa qualcosa avranno senza dubbio colto l’allusione: così, l’8 luglio 2013, si è salutato l’arrivo di quell’argentino oriundo piemontese, esattamente con lo stesso slogan con il quale, nel 1974, la folla di Buenos Aires aveva accompagnato all’estrema dimora un altro argentino d’Italia, l’oriundo veneto Juan Domingo Perón: Se siente, se siente, Perón está presente!
Ora, dopo Lampedusa, i soliti sostenitori della Chiesa a qualunque costo, purché la Chiesa si faccia o si mantenga paladina dell’ordine costituito si chiedono dove voglia arrivare. Sono gesti, sono parole, hanno ribattuto. E quelli che sognano il tutto-e-subito, e spesso di ciò si fanno alibi per non cambiar mai nulla, ribattono che è ancora poco, che il Papa non ha attaccato frontalmente gli autori delle leggi italiane ed europee che criminalizzano i migranti equiparandoli indiscriminatamente a «clandestini». Ma dategli tempo…
Comunque non saranno più, non potranno più essere, non sono già più solo parole. Questo Papa che ha commissariato lo IOR, che ha lasciato arrestare un prelato-manager, che ha imposto austerità se non proprio povertà a tutta la curia, dopo aver visitato ieri la periferia delle periferie del mondo, tra qualche settimana incontrerà i giovani nel suo continente latinoamericano: un altro continente-martire, al pari dell’Africa. Un paese dove la Chiesa cattolica è attualmente messa a dura prova dall’offensiva delle sètte finanziate dai centri di propaganda statunitense: le stesse che si fanno finanziare dalla United Fruits e dai gorilas protetti dalla CIA (un nome per tutti: Rios Montt in Guatemala) e poi convertono i campesinos per insegnar loro la sottomissione che fa il gioco dei padroni. Contro questo infame gioco, che in fondo dura da secoli, Bartolomé de las Casas insorse nel Cinquecento, seguito qualche decennio più tardi dai gesuiti (anche Bergoglio è gesuita) delle reducciones e, nel nostro secolo, da preti-martiri come padre Stanley Rother fatto ammazzare nel 1981 dalla CIA proprio in Guatemala. Già Giovanni Paolo II, planato in America latina nel 1979 per bacchettarvi la Teologia della Liberazione, vi tornò anni dopo con un atteggiamento del tutto nuovo.
La «profezia di Malachia» – un testo strano e forse del tutto inattendibile: sia chiaro – ha dato Papa Francesco come l’ultimo dei pontefici: quello dopo il quale ci sarà la fine di Roma e del mondo. Profetismo medievale: in fondo, un genere letterario. Ma il fatto è che Papa Bergoglio sta compiendo gesti e scelte che a loro volta hanno un sapore apocalittico: come se ci stesse dicendo – e sta dicendocelo – che l’umanità del nostro tempo è andata troppo oltre in termini di ingiustizia, di rapacità, di violenza, d’indifferenza per i più deboli, com’è andata troppo oltre in termini di concentrazione della ricchezza e di sfruttamento incontrollato delle risorse del pianeta.
Domenica 6, in Vaticano, il Papa dichiarava letteralmente: «La gente oggi ha bisogno costante di parole; ma soprattutto ha bisogno che sia testimoniata la misericordia di Dio». Un pensiero sistematicamente tradotto, all’Angelus, in un motto: «Gioia e coraggio».
Ed eccoli tradotti nei fatti, la gioia e il coraggio. La forza della Chiesa è stata sempre, nei secoli, quella di saper tenersi ancorata alla Tradizione e al tempo stesso saper guardare al futuro. Certo, i dubbi non mancano, i malumori in buona o in mala fede sono molti. La Chiesa è una dimora nella quale ci sono tante case, dove c’è posto per i più accigliati conservatori e per i don Andrea Gallo. Ma i tempi hanno il loro linguaggio, che sta divenendo sempre più chiaro. Si parla fin troppo, ad esempio, di pace: ma senza giustizia non può esservi pace. Anche questa è la lezione di Lampedusa.
E ora sia detto chiaro: dobbiamo pregare per Papa Bergoglio. Il tempo dei simboli per lui è finito: ha cominciato a lavorare per fornire a quei simboli – che sono, com’è noto, dei «significanti» – il loro significato. Sarà lunga: e sarà dura. Le resistenze delle razze di vipere e dei sepolcri imbiancati che vorrebbero una Chiesa «anticomunista» (e per i quali il «comunismo» inizia subito, non appena si abbandonano i beati lidi del liberismo sognato da personaggi come Von Hayeck e Novak) e magari «antimusulmana, come la sognava l’ineffabile Magdi Allam, possono anche essere dei ridicoli ignoranti: ma fra loro c’è gente di molto potere e di pochi scrupoli, per cui il paolino Vigilate resta obbligatorio.
Comunque, diciamo al verità, qualche soddisfazione possiamo gustarcela. Come quella che ci è stata regalata – Dio lo rimeriti – dal vescovo di Nola Beniamino Depalma il quale, portando la sua solidarietà agli operai direttamente ai cancelli della FIAT di Pomigliano, si è «meritato» una lettera di Giuseppe Figliuolo, direttore dell’impianto, il quale gli ha rimproverato di «portare la sua solidarietà ad alcuni manifestanti che con azioni violente e minacce hanno tentato di impedire l’ingresso in fabbrica ai lavoratori della FIAT». Venga quindi il vescovo, conclude Figliuolo, anche a incontrare i 3200 lavoratori che sono tornati nello stabilimento di Pomigliano e che sono «degni quanto gli altri della sua solidarietà».
Ignoro se monsignor Depalma abbia accettato, voglia accettare o accetterà l’invito di Figliuolo. Probabilmente, sì: ciò rientra nei suoi doveri pastorali. Ma ciò non toglie che, da parte nostra, non si possa non rilevare lo straordinario miscuglio d’ignoranza e di cinismo che ha ispirato la lettera dirigenziale spedita al vescovo. Agli inizi del XXI secolo, quanto a diritti dei lavoratori e a coscienza diffusa di essi anche da parte di chi tale non è, siamo regrediti non dico a prima della Carta del Lavoro del 1926, ma addirittura ai livelli del «Padrone delle Ferriere» e di quel finissimo giuslaburista che fu il generale Bava Beccaris. Non passa neppure lontanamente per la testa dei dirigenti FIAT che quando ci sono degli operai che rischiano il posto di lavoro, anche se sono un’infima minoranza, è preciso dovere – morale prima che sindacale – degli altri, anche se il loro posto non è in discussione né in pericolo (anzi, a fortiori in questo caso), il mobilitarsi mantenendo l’unità per difendere il posto di tutti. E’ purtroppo comprensibile, in tempi di demobilitazione della coscienza politica e quindi anche sindacale, che ben 3200 operai siano tornati al lavoro, implicitamente abbandonando al loro destino i 1300 che sono ancora in cassa integrazione e che quindi, pur non essendo formalmente precari, hanno purtroppo molte ragioni di temere il peggio. Sono i 3200 compagni dei cassintegrati che avrebbero dovuto manifestar loro solidarietà, e per farlo c’era un modo solo: non tornare a lavorare finché la posizione di tutti non fosse chiarita. Ma ormai si ritiene del tutto normale che un’azienda chiuda i battenti per riaprirli magari in Romania, dove i costi sono più bassi e quindi più alti i profitti padronali e azionistici. E, per un perfido stravolgimento della realtà obiettiva, sarebbe il vescovo Depalma colui che negherebbe «solidarietà» agli operai che si sono piegati al diktat padronale: e si chiede quindi che sia lui a recar «solidarietà» a chi non solo non ne ha bisogno, dal momento che il suo posto di lavoro non è (per ora) minacciato, ma che per giunta ha negato solidarietà ai compagni. Non solo: coloro che hanno perduto, o stanno perdendo, o temono di perdere il lavoro, se protestano vengono accusati di essere dei «violenti»: la violenza di chi licenzia, mette in cassa integrazione, chiude le fabbriche per riaprirle in paesi dove il mercato del lavoro è per lui più conveniente, quella viene considerata del tutto naturale. In fondo, si tratta di seguire com’è ragionevole e inevitabile le «naturali leggi del libero mercato», di adattarsi alla «flessibilità», di acquisire una mentalità «moderna» e «concretamente realistica». A questo punto è la notte.
Ebbene: che la fase necrotica del turbocapitalismo alla fine di quella che Zygmunt Bauman definisce «Modernità solida» sia pervenuta a questi livelli, passi. Sappiamo già che al peggio non c’è mai fine. Ma quanto a voi, cari Fratelli in Cristo per i quali il nucleo del messaggio del Salvatore e della Sua Chiesa sta nella messa in latino, nella lotta contro aborto, eutanasia e matrimonio gay ma che poi ve ne fregate dell’inquinamento e dello sfruttamento del mondo, della mercificazione della guerra e della violenza e perfino dell’»infanticidio differito» del quale si rendono responsabili le multinazionali che condannano continenti interi alla fame o all’AIDS; a voi che considerate certe battaglie solo «criptocomuniste»; quel che vi auguro, cari Fratelli in Cristo, – oh, Signùr, Signùr, dove andremo a finire… – sono dieci, cento, mille Depalma, la depalmizzazione dell’intero Sacro Collegio e di tutta la Santa Romana Chiesa. Nella speranza che, seguendo il luminoso esempio di Magdi Allam, anche voi abbandoniate questa Chiesa cattolica criptocomunista e filomusulmana.
Franco Cardini
Fonte: http://www.francocardini.net
10.07.2013
Papa Francesco e l’acqua della cicoria che non si butta via
Bergoglio beve l’acqua della verdura cotta. La sobrietà del nuovo pontefice è nota e “funziona” perché è autentica. Ma è uno stile che gli alti prelati vorranno e sapranno condividere?
«Mi raccomando non buttate più via l’acqua della cicoria. Io la bevo volentieri. È buona e fa bene». Papa Francesco è finito sulla copertina di Vanity Fair come “l’uomo dell’anno”. Non certo per essere un personaggio “patinato”. Al contrario, perché ha rovesciato i paradigmi classici che definivano, prima di lui, la figura del pontefice. E compiendo questa “operazione” con la massima naturalezza è assurto in tempi rapidissimi allo status di rockstar globale. Probabilmente la numero uno, in questo momento. Come dice Elton John, una delle cinque personalità interpellate da Vanity Fair, «Francesco è un miracolo di umiltà nell’era della vanità».
Da quel che si apprende, da oltre le mura, Bergoglio è addirittura “veracemente” ben più umile di quanto non racconti la già ricca aneddotica sulla sua vita all’insegna della sobrietà e del rigore. Che in lui non sono rinuncia o sacrificio: sono un tratto autentico della sua personalità. Per questo la sua comunicazione semplice e diretta funziona. La felice combinazione dell’essere papa e dell’essere persona autentica ha un effetto moltiplicatore straordinario. Il suo esempio contagia perché è reale.
Lo possiamo immaginare mentre mangia la cicoria – a Roma, poi, quella di campo è particolarmente buona – e chiede alle cuoche che preparano i pasti alla Domus di Santa Marta di portargli a tavola anche l’acqua di cottura. Si sa, è un toccasana per la salute: fa bene al fegato ed è ricca di minerali utili. Come di consueto, siede a tavola nella sala di Santa Marta con prelati e collaboratori. Non ha un tavolo riservato per lui e cambia spesso commensali e la sera, se funziona il self service, si arma di vassoio. I suoi pasti sono semplici, spesso frugali. Come quand’era Buenos Aires. Si cucinava i pasti da solo e andava fiero del «suo» maialino al forno. Ama il piatto nazionale argentino, l’asado, ma predilige le zuppe e le verdute. Carlos Samaría, specializzato in calzature ortopediche, il calzolaio porteño che da quarant’anni fa scarpe per Bergoglio (anche quelle nere “vissute”, diventate famose, che spuntavano sotto l’abito bianco del nuovo papa), racconta che una volta lo ebbe a cena e gli preparò del salmone. «Non dovevi spendere tutti questi soldi per me», lo rimproverò bonariamente il futuro papa.
Sobrio e austero ma tutt’altro che musone e “pesante”. Un invito a tavola non lo disdegna. Da poco papa, pranzò nella residenza di dell’arcivescovo Giovanni Angelo Becciu, gustando gnocchetti sardi in compagnia di sette sacerdoti romani impegnati nella carità. Francesco aveva saputo della consuetudine di monsignor Becciu di avere a pranzo nel suo appartamento alcuni sacerdoti il Giovedì santo e si autoinvitò.
Se la forza di questo papa è innanzitutto nella sua autenticità e nella capacità di trasmettere la bellezza della semplicità, è anche potenzialmente un limite. Come tutte le leadership personali, che si fondano sul carisma, essa è legata appunto alla persona che la incarna e che la esercita. Non solo è lecito chiedersi che accadrà dopo di lui. Domanda non banale, alla luce del trauma vissuto dalla chiesa nel passaggio dal pontificato di Giovanni Paolo II a quello di Benedetto XVI. Ma c’è un’altra domanda: obtorto collo, i papaveri della chiesa dovranno adeguarsi al nuovo stile, ma con quanta convinzione? Nessuna, per diversi di loro. Bergoglio sa bene che la resistenza al cambiamento è e sarà molto forte. Per questo, ha chiesto il sostegno dell’arcivescovo di Tegugicalpa Oscar Andrès Maradiaga e di altri sette cardinali di varie parti del mondo «nel governo della Chiesa universale». Così la foto di quell’uomo tutto vestito di bianco che fa la prima colazione, succo d’arancia e caffè, con quattro prelati nel residence di Santa Marta è l’immagine di un uomo che ascolta e condivide. Forse, quell’istantanea a tavola finita su twitter il 7 aprile scorso è quella che meglio definisce il nuovo papa.
@GuidoMoltedo
Papa: “Chiesa non segua ricchezza”
“Prete con auto di grido? Non si può”
19:10 – Papa Francesco torna a parlare del rapporto fra Chiesa e ricchezza. “In questo mondo in cui le ricchezze fanno tanto male, è necessario che noi preti e suore siamo coerenti con la nostra povertà”, ha detto il Pontefice nell’incontro con seminaristi e novizie. “L’interesse di un’istituzione parrocchiale non deve essere il denaro – ha quindi aggiunto -. A me fa male quando vedo un prete o una suora con un’auto di ultimo modello: non si può!”.
Papa Francesco: vescovi e preti stiano alla larga da ricchezza e vanità
«Lo spirito del carrierismo fa tanto male alla Chiesa»
CITTÀ DEL VATICANO – «Quando un prete, un vescovo va dietro ai soldi, il popolo non lo ama e quello è un segno. Ma lui stesso finisce male…». Papa Francesco, prima dell’udienza generale, celebra messa a Santa Marta e spiega che San Paolo ricorda di aver lavorato con le sue mani: «Non aveva un conto in banca, lavorava!». Poi scandisce: «E quando un vescovo, un prete va sulla strada della vanità, entra nello spirito del carrierismo e fa tanto male alla Chiesa, fa il ridicolo alla fine, si vanta, gli piace farsi vedere, tutto potente… E il popolo non ama quello!». Sono la «ricchezza» e la «vanità» le due tentazioni dalle quali devono guardarsi vescovi e preti, dice. E chiede di pregare perché siano «pastori» e non «lupi».
I LUPI – Da tempo Bergoglio denuncia il carrierismo, la «mondanità spirituale», come il pericolo più grande della Chiesa. La sua riforma si fonda su un richiamo continuo allo spirito evangelico. «Alla fine un vescovo non è vescovo per se stesso, è per il popolo; e un prete non è prete per se stesso, è per il popolo». Il servizio proprio del pastore è «proteggere il suo gregge dai lupi», spiega nell’omelia a Santa Marta. «Quando il vescovo fa così crea un bel rapporto col popolo, come il vescovo Paolo lo ha fatto col suo popolo: c’è un amore fra di loro, un vero amore, e la Chiesa diventa unita». Per questo «noi abbiamo bisogno delle vostre preghiere», aggiunge, «perché anche il vescovo e il prete possono essere tentati».
TENTAZIONI – Le tentazioni sono quelle di cui scriveva Sant’Agostino, cita Papa Bergoglio: «La ricchezza, che può diventare avarizia, e la vanità». Quando un vescovo o un prete «si approfitta delle pecore per se stesso, il movimento cambia: non è il prete, il vescovo per il popolo, ma il prete e il vescovo che prende dal popolo». L’autore delle «Confessioni», ricorda il Papa, dice che costui «prende la carne per mangiarla alla pecorella, si approfitta; fa negozi ed è attaccato ai soldi; diventa avaro e anche tante volte simoniaco. O se ne approfitta della lana per la vanità, per vantarsi».
POVERI E UMILI – La conclusione di Francesco è ancora un invito a pregare per i proprio pastori «perché siamo poveri, perché siamo umili, miti, al servizio del popolo». Il Papa rimanda al capitolo 20 degli Atti degli Apostoli «dove Paolo dice: vegliate su voi stessi e su tutto il gregge. Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé». Ed esclama ai fedeli: «Leggete questa bella pagina e leggendola pregate, pregate per noi vescovi e per i preti. Ne abbiamo tanto bisogno per rimanere fedeli, per essere uomini che vegliano sul gregge e anche su noi stessi, che fanno la veglia proprio, che il loro cuore sia sempre rivolto al suo gregge. Che il Signore ci difenda dalle tentazioni, perché se noi andiamo sulla strada delle ricchezze, se andiamo sulla strada della vanità, diventiamo lupi e non pastori. Pregate per questo, leggete questo e pregate».
Gian Guido Vecchi15 maggio 2013 | 12:01
venerdì 22 marzo 2013

Le imprese impossibili del Vaticano
Prof. Franco Cardini: ” Papa Francesco?Sospendo ogni giudizio, aspetto fatti concreti e decisioni di peso. Facili i gesti”.
Con il professor Franco Cardini, docente di storia medioevale alla Università di Firenze, e molto esperto di cose di Chiesa,
parliamo delle prime uscite di Papa Francesco che sembrano aver attirato le attenzioni di tutto il mondo e lodi sperticate, anche se ogni tanto si leva qualche voce dissenziente.
Professor Cardini, convinto davvero?:
” Penso che sia molto presto e prematuro per dare giudizi e dunque sospendo ogni valutazione.
Dopo così poco tempo, non é serio. Non é corretto in senso positivo, non lo é in senso negativo”.
Eppure molti osservatori si sperticano nelle lodi e qualcuno é arrivato alla definizione di rivoluzionario: ” queste etichette sono inflazionate come del resto quella di populista. Attirare le attenzioni e i consensi con dei gesti semplici ed efficaci é molto facile e direi bello, ma da solo non basta”.
Che cosa intende dire?: ” Il Papa ha iniziato col piede giusto, vuole la difesa dei deboli ed una Chiesa povera. Ma attenzione a non scivolare in un demagogico pauperismo, che é anche inutile”. Si é tolto la croce pettorale di oro e non usa le scarpe rosse: ” Ho il massimo rispetto per queste dimostrazioni di umiltà che parlano il linguaggio della modernità,facilmente comprensibile al grande pubblico.
Tuttavia, dico che la modernità a volte, é anche apostasia, nel senso che ci porta lontani dai segni della fede. La croce di oro non é mai stata segnale di lusso, ma voleva dire dedicare a Dio il massimo della preziosità. Come l’ anello del pescatore in oro. Seguissimo una logica di tutta coerenza, il Papa avrebbe dovuto fare a meno anche di quello in argento laccato in oro”.
Che cosa aspetta,dunque?: ” Premesso che ho fiducia in lui e lo apprezzo, aspetto dal Papa decisioni forti e coraggiose in campi delicati e dopo scioglierò le riserve. Per esempio, la Curia o lo stesso Ior, abbia il coraggio di trasformarlo,sulle stile islamico, di cambiarlo in banca equa e solidale.
Vorrei ricordare, infine, che San Francesco non era contrario alla ricchezza, non la considerava nemica e che la povertà francescana non é applicabile totalmente alla Chiesa che é anche istituzione e che ha bisogno di risorse economiche, certamente da regolare e moralizzare. In conclusione, su certi gesti del Papa, apprezzo, ma non condivido, scendiamo sul terreno della modernità che é spesso apostasia”.
Bruno Volpe
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