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ALL’ORIGINE DEI MALI D’ITALIA: L’ASSASSINIO DI ENRICO MATTEI
A pochi giorni dal quarantunesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, la sua figura merita di essere ricordata e spiegata alle giovani generazioni, sovente ignare dell’importanza che quest’uomo ebbe nei primi anni della nostra Repubblica. Simbolo imperituro di quelle straordinarie capacità di intraprendenza, coraggio ed inventiva che così tante volte la nostra terra ha saputo offrire al mondo nel corso dei secoli.
Mattei nasce ad Acqualagna nel 1906, in una famiglia piccolo borghese; inizia a lavorare a quindici anni in fabbrica e a 22 è già direttore di uno stabilimento. L’uomo è forte e determinato, non si accontenta della rapida carriera e decide di trasferirsi a Milano dove respira l’aria delle grandi opportunità che la metropoli lombarda offre in quegli anni, diventando prima rappresentante di prodotti chimici per conto di una ditta tedesca e fondando poi l’Industria Chimica Lombarda, attiva nella produzione di olii e grassi per l’industria conciaria, metallurgica ed edile. Lo scoppio della guerra sconvolge i suoi piani e la sua carriera; se sino all’armistizio Mattei ha perlopiù pensato a perseguire i suoi obiettivi professionali tralasciando la politica, dopo l’8 settembre egli è costretto ad operare una scelta e decide di schierarsi con gli antifascisti iniziando una militanza nelle fila dei movimenti d’ispirazione cattolica. Le sue numerose qualità emergono negli anni della resistenza e lo portano ad essere nominato, al termine del conflitto, deputato, membro del Consiglio nazionale della DC e commissario straordinario dell’AGIP (AGenzia Italiana Petroli, fondata nel 1926 da Mussolini) per l’Italia settentrionale. Vi è tuttavia poco di lusinghiero in questa nomina: poco tempo dopo, viene invitato a liquidare l’azienda di Stato per ordine del ministro del Tesoro Soleri, liberale, secondo il quale essa rappresenta solo un costo, soprattutto riguardo l’intenzione di sfruttare i giacimenti di petrolio e gas scoperti (prima e durante la Guerra) in Val Padana e in Sicilia, di cui Mattei è a conoscenza. Nonostante la sua personale lotta contro il Fascismo, Mattei ha il grande acume ed il coraggio di andare controcorrente e di riconoscere come non tutto ciò che fosse stato fatto durante il Ventennio fosse da scartare e condannare a priori. In questo caso, capisce che liquidare l’AGIP lasciando così il Paese senza un ente statale preposto all’energia, è sbagliato: Mattei è conscio che una nazione, per essere una potenza industriale e avere una vera indipendenza politica, deve prima di tutto assicurarsi di essere indipendente il più possibile sotto il profilo energetico. Così, non solo non liquida l’AGIP, bensì nel 1953 la rende più forte fondando l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) a cui viene accorpata. Il problema che gli si pone davanti è che però l’Italia, al momento, è tutto tranne che indipendente e libera di decidere il suo destino autonomamente: ha de facto perso la guerra e nonostante il maldestro cambio di schieramento del ‘43, non ha titolo per sedersi al tavolo dei vincitori con voce in capitolo, tutt’altro. Subisce le decisioni degli Alleati che in quel momento ancora occupano il Paese e sovrintendono al governo transitorio cercando di indirizzare tutti gli aspetti legati all’aspetto produttivo e sociale a proprio favore. Fra questi, a ricoprire l’importanza principale su cui bisogna subito chiarire a chi spetti sovrintendere – in virtù del volume d’affari ad esso legato – è il settore energetico: in principio silenziosamente e bisbigliando nelle orecchie giuste e compiacenti, riappaiono sulla scena italiana dopo le nazionalizzazioni di Mussolini allo scoppiare della Guerra, le cosiddette “Sette sorelle”: la Standard Oil of New Jersey, la British Petroleum, la Standard Oil of California, la Gulf Oil, la Royal Dutch Shell, la Socony Mobil Oil e la Texas Oil. Insieme, queste compagnie che formano un inattaccabile cartello con lo scopo di spartirsi le risorse petrolifere mondiali, mantengono un monopolio e fissano prezzi su cui non ammettono intromissioni e cambiamenti di sorta (a tal proposito è emblematico il celebre motto del fondatore della Standard Oil John D. Rockefeller che ben sintetizza la linea di condotta del Cartello nei confronti di eventuali concorrenti: “Se possibile convincere. Se no, stroncare”).
Bisogna a questo punto illustrare brevemente il cuore della vicenda, per capire il funzionamento del cartello petrolifero e il perché Mattei fosse diventato così scomodo per gli interessi delle grandi compagnie e andasse quindi stroncato. Il prezzo del greggio stabilito a livello mondiale era unico a prescindere dalla provenienza e si basava sul “costo di estrazione sopportato dal produttore americano meno favorito, più il nolo dal Golfo del Messico all’Europa occidentale” (questo perché tale combinazione veniva considerata la più cara in assoluto per via degli alti costi di estrazione negli Stati Uniti e della lunghezza della tratta da compiere). Così facendo, al costo di produzione del petrolio americano veniva agganciato il prezzo mondiale del greggio, quest’ultimo tenuto artificialmente alto invece che seguire i prezzi reali praticati dai vari paesi produttori al fine di sviluppare l’industria petrolifera statunitense. In altri termini, ai petrolieri americani fu concesso di continuare a crescere liberamente senza nessun tipo di concorrenza e alcun criterio di economicità, poiché essi vedevano garantita la redditività dal fatto che il loro prezzo finale era il medesimo di quello ottenuto in Arabia Saudita o in qualunque altro paese produttore, a prescindere dal fatto che avesse potuto avere costi enormemente inferiori.
Mattei entra in questo sistema a modo suo: se prima del suo avvento il prezzo finale di vendita del greggio era costituito da un 15% di costo di estrazione, un 42,5% di royalties pagate ai governi dei Paesi produttori e un altro 42,5% di profitto netto delle compagnie petrolifere, Mattei divide per due quest’ultimo dato e garantisce perciò ai paesi produttori il 75% dei profitti invece che il 50% (sottraendo quindi un 25% degli utili al Cartello), contribuendo ad arricchirli maggiormente e non solo. Oltre ad offrire condizioni straordinariamente più vantaggiose, strappa prezzi migliori che si tramutano in un risparmio per le imprese e le famiglie italiane, garantisce condizioni di lavoro più umane e inserisce nelle trattative, come contropartite, anche la fornitura di beni e servizi che possano aiutare le deboli economie dei paesi produttori ad emanciparsi. Mattei – per dirla parafrasando un noto proverbio – invece che dispensare pesci, insegna a pescare. Non ci vuole molto a capire la portata rivoluzionaria delle politiche del presidente dell’ENI; decenni prima che l’argomento inizi appena, appena ad essere accennato, con grande lungimiranza capisce che migliorare le condizioni di vita nei paesi d’origine delle materie prime, invece che sfruttarli trattando le popolazioni autoctone come bestie da soma, è più giusto e più conveniente per tutti. Si genera rispetto invece che risentimento, si trattano le genti che come noi s’affacciano sul Mediterraneo alla pari e non dall’alto in basso, si fanno ottimi affari dove a guadagnarci sono ambedue le parti ma soprattutto si evita a contribuire che in quei territori aumentino la povertà ed il degrado, fenomeni che un giorno (e quel giorno l’abbiamo già ampiamente superato) potrebbero tramutarsi in massicce emigrazioni di massa verso i paesi più sviluppati e, ancor peggio, in focolai di rabbia antioccidentale con conseguente comparsa di fenomeni terroristici.
Ma non c’è solo un genuino spirito volto al praticare un commercio equo. Oltre a questo, le idee di Mattei sono destinate a lasciare un profondo segno anche e soprattutto nella politica italiana: il presidente dell’ENI non vede di buon occhio l’appartenenza dell’Italia alla NATO e l’opprimente ingerenza praticata dalle potenze atlantiche – Stati Uniti in primis – in tutti i principali aspetti della nostra vita politica, interna ed estera. Gli accordi che Mattei vuole porre in essere porterebbero l’Italia ad approvvigionarsi direttamente dai paesi produttori bypassando la (costosissima) intermediazione delle sette sorelle e rompendo il monopolio americano sul greggio, dando il là ad un progressivo smantellamento della presenza americana in Italia con il fine ultimo di portare il nostro paese ad essere una potenza mediterranea indipendente, senza basi militari straniere e libera di decidere in autonomia la sua politica estera avendo una voce autorevole in quello che secolarmente è sempre stato conosciuto come Mare Nostrum.
Il contesto internazionale in cui però opera Mattei, non lo aiuta di certo, anzi. Nel pieno della Guerra fredda e della contrapposizione fra i due blocchi, il gioco di Mattei è pericoloso: come un nuovo papa Borgia, tratta con chiunque senza alcuna preclusione con il fine ultimo di realizzare il bene dell’Italia e di aumentarne il peso a livello internazionale. Conclude affari con governi dichiaratamente antioccidentali (come l’Egitto di Nasser e l’Iran di Mossadeq) quando non addirittura con l’Unione Sovietica; sostiene anche i patrioti algerini in lotta contro il regime coloniale francese per strappare a quest’ultimo gli enormi giacimenti di petrolio sahariani e, così facendo, in breve tempo si inimica l’intero mondo occidentale e buona parte dell’establishment politico, industriale e finanziario italiano, oramai longa manus degli Stati Uniti nel nostro Paese. L’uomo che ha strenuamente difeso e ampliato l’ente statale voluto da Mussolini per far grande l’Italia, è attaccato in modo veemente dalle formazioni cosiddette di destra (da gran parte della DC fino al MSI passando per il Partito Liberale) ed è invece difeso dall’ala sinistra della DC (principalmente nelle persone di Gronchi e Fanfani) così come dal PSI e dal PCI, desiderosi di vedere uno Stato forte e credibile che possa garantire la sua presenza in settori strategici invece che renderli appannaggio di privati.
Non a caso, la grossa borghesia industriale del Nord è restia alla prospettiva di difendere l’ENI, prospettiva che impedirebbe la possibilità di fare affari clamorosi in un ambito così proficuo tramite la controllata Edison: la società privata che secondo la favola del liberismo dovrebbe sostituire l’ente di Stato avvantaggiando l’iniziativa privata e quindi il consumatore, ma che in realtà funge da cavallo di Troia per le società del Cartello che s’accaparrerebbero così le concessioni sui giacimenti che l’ENI sta iniziando a sfruttare in Italia. Con il suo peso, la classe imprenditoriale osteggia Mattei in tutti i modi attaccandolo a gran voce dalle colonne del Corriere della Sera di sua proprietà – sul quale, a suon di menzogne, l’Ingegnere è paragonato ad un redivivo e pericoloso Mussolini che sta trascinando l’Italia nel baratro – e boicottandolo in politica – dove promuovendo la crescita della suddetta Edison e insinuando il pericolo di “deriva comunista” che l’Italia rischia, cerca di portare i vari governi che si succedono a strappare all’ente statale le sue concessioni, facendo venir meno la legittimazione dello Stato a portare avanti le sue coraggiose politiche.
Mattei però è più forte di tutti questi attacchi; smentisce – sempre e in prima persona – le calunnie di cui lui e l’ENI sono vittime a mezzo stampa; fonda Il Giorno per avere un giornale autorevole che difenda l’operato della sua creazione portando la verità dei fatti a conoscenza di tutti; finanzia partiti e correnti interne per garantirsi l’appoggio politico in materie strategiche e istituisce un servizio d’informazione interno all’ENI degno di quello di uno stato, coinvolgendo anche membri appartenenti ai servizi segreti. A quest’ultima mossa Mattei è costretto dalle pressioni che riceve da ogni parte e che si sono oramai tramutate in minacce, portando il nostro coraggioso uomo di Stato a doversi difendere. Dopo gli allarmanti rapporti della diplomazia americana e della CIA, preoccupati di come l’Italia stesse pian piano scivolando via dalla sua sfera d’influenza a causa dell’”uomo italiano più potente dopo l’imperatore Augusto”, sembra che i numerosi e potenti nemici del presidente dell’ENI vogliano passare ai fatti. Accade così che se nel 1961 sono solo l’accortezza e la scrupolosità del suo pilota – il quale decide di effettuare un breve viaggio di prova prima di far salire a bordo l’Ingegnere, scoprendo così il tentativo di sabotaggio – a salvarlo da un primo attentato, il 27 ottobre del 1962, in piena crisi missilistica a Cuba e con il contemporaneo appropinquarsi della lotta finale in Algeria fra il FNL di Ben Bella e le forze d’occupazione francesi (al cui interno si distingueva l’OAS per le atrocità commesse e per le minacce all’Ingegnere), Mattei – al ritorno da un viaggio in Sicilia – muore nei cieli di Bascapè, vicino a Pavia, dove il suo aereo Morane-Saulnier viene fatto esplodere.
Insieme al presidente dell’ENI muoiono l’esperto e fidato pilota personale dell’Ingegnere, Bertuzzi, e lo sfortunato giornalista americano Mc Hale che lo accompagnava per intervistarlo, trovatosi quanto non mai nel posto sbagliato e al momento sbagliato. Con la scomparsa del grande uomo di Stato italiano, scompaiono anche tutte le sue idee, i suoi progetti e le sue prossime iniziative (fra le quali meritano una menzione per la loro carica innovativa la costruzione di un oleodotto per portare il petrolio da Genova alla Germania, la penetrazione delle stazioni di servizio ENI nel mercato britannico e la realizzazione di una raffineria in Tunisia con oleodotti annessi verso il nostro Paese). L’Italia viene riportata mansueta sotto l’ala atlantica e smette di turbare le sette sorelle ed i governi occidentali, ritornando ad essere quell’entità manovrata dalle potenze straniere, incapace di esprimere una sua politica estera in autonomia e di tutelare i propri interessi nel migliore dei modi. Con la morte di Enrico Mattei scompare la figura più coraggiosa del dopoguerra e l’ENI – da lui creato – pur formalmente salvato nella sua integrità, diventerà una docile pedina facente gli interessi del cartello petrolifero agli ordini del grigio Eugenio Cefis; una condizione che si protrarrà fino al 1989, quando in seguito al venir meno della contrapposizione fra blocchi e della Guerra fredda, potrà riacquistare parte di quello spirito avventuriero e al servizio dell’Italia che così tanto Mattei aveva voluto creare.
La morte di Mattei apparve immediatamente, agli occhi dei più accorti, per ciò che era. Tuttavia, i depistaggi da parte di apparati dello Stato che qualche anno dopo sarebbero diventati così comuni e funzionali a quella strategia della tensione contrassegnata da attentati sanguinari, fecero una prima ed efficace comparsa a seguito dell’assassinio del presidente dell’ENI. Interviste televisive tagliate o alterate; ritrattazioni di testimoni oculari con contestuali regali e favori a questi ultimi da parte di un ENI ormai avviato verso un nuovo corso; madornali ed inspiegabili errori nel trattamento dei reperti dell’aereo dell’Ingegnere; campagne stampa denigratorie e volte a sottovalutare l’operato dell’Ingegnere; un assordante silenzio che scende sulla vicenda e che decreta come causa dell’evento la tragica fatalità, dovuta al brutto tempo ed alle precarie condizioni psico-fisiche del pilota; ma soprattutto, la brutta fine che accomunerà chiunque si avvicini alla morte di Mattei cercando di capirne la verità.
Saranno solo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta, nel 1994, a dare certezza ai dubbi mai del tutto dissipatisi e a permettere di riaprire le indagini accertando così l’esplosione di una bomba all’interno del Morane-Saulnier di Mattei. Stando alle parole del celebre ex boss dei due mondi, la morte del presidente dell’ENI sarebbe stata frutto del fortunato e pluriennale sodalizio esistente fra le famiglie mafiose italo-americane e il governo di Washington. In pratica, la mafia siciliana avrebbe fornito la manodopera per sabotare l’aereo di Mattei su ordine dei padrini d’oltreoceano, a loro volta incaricati dai servizi segreti americani di eliminare l’uomo che stava minando enormi interessi di carattere economico e geopolitico.
Dopo queste dichiarazioni, non fu difficile unire i puntini della vicenda e dare una risposta a tutte quelle morti, ritenute sino ad allora solo parzialmente spiegabili: la prima e forse più celebre perché strettamente collegata è quella del giornalista Mauro de Mauro, incaricato dal regista Francesco Rosi (autore del meritevole film “Il caso Mattei”) di ricercare quante più informazioni possibili sulla morte del presidente dell’ENI e che pochi giorni prima della sua scomparsa – per mano della lupara bianca – aveva dichiarato ai colleghi di essere venuto a conoscenza di uno scoop che avrebbe “scosso l’Italia”. Poi quella di Boris Giuliano, il superpoliziotto ucciso dal boss Leoluca Bagarella e che aveva iniziato ad indagare sui motivi della sparizione dello stesso De Mauro; il generale dei Carabinieri CarloAlberto Dalla Chiesa che aveva dato il via allo stesso tipo di indagini per conto della Benemerita. Infine, i dubbi sulla morte del regista e scrittore Pierpaolo Pasolini, che con il suo romanzo Petrolio si era addentrato negli oscuri meccanismi che regolavano il mercato di approvvigionamento e produzione del greggio, scoprendo forse anch’egli cose di cui non sarebbe dovuto venire a conoscenza.
Se tutti questi personaggi siano morti perché realmente legati in qualche modo ad Enrico Mattei, non ci è dato saperlo con certezza. Ciò che rimane sicuro, dopo una perizia ordinata dalla procura di Pavia in seguito alle dichiarazioni di Buscetta, è la mano assassina dietro alla morte dell’Ingegnere e non la “tragica fatalità” come troppo spesso, purtroppo, si è provato a dire in un Paese che ancora fatica ad ammettere come alcuni dei suoi più cruenti fatti di cronaca abbiano avuto come mandanti quegli stessi personaggi che per spregiudicati interessi economici hanno dettato da oltre confine e per decenni la nostra politica estera, impedendo all’Italia di essere artefice del proprio destino e di condurre una politica estera congeniale alla sua posizione strategica. Un paese che a più di vent’anni di distanza dal crollo del Muro di Berlino ancora ospita (e ingrandisce) gratuitamente basi straniere e s’avventura in guerre camuffate da operazioni di pace mandando a morire i suoi soldati per interessi terzi, un Paese che viene obbligato a comprare armamenti di dubbia qualità e che ancora deve sopportare di subire colpi durissimi al suo prestigio e ad alla sua forza contrattuale (basti ricordare la ricaduta sulla nostra bilancia commerciale delle sanzioni imposte all’Iran da un’Unione Europea sempre troppo servile con gli Stati Uniti e la scellerata guerra in Libia che ha strappato all’ENI numerose concessioni a vantaggio di Francia e Stati Uniti). Il male contro cui lottava Mattei, per quanto ridimensionato, vive e lotta ancora in mezzo a noi.
Federico Capnist
Fonte: www.eurasia-rivista.org
Link: http://www.eurasia-rivista.org/allorigine-dei-mali-ditalia-lassassinio-di-enrico-mattei/20339/
5.11.2013
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Vedi anche Pier Paolo Pasolini e la distruzione antropologica degli italiani
«Io sono un gattaccio torbido che una notte
morirà schiacciato in una strada sconosciuta…»
– Pier Paolo Pasolini, 1966 –
LA VICENDA
PREMESSA
«Io so i nomi dei responsabili delle stragi italiane». Così scriveva Pier Paolo Pasolini il 14 novembre 1974 sul Corriere della Sera, in un articolo che sarebbe stato poi ricordato come il “romanzo delle stragi”.
Un anno dopo, il 1 novembre 1975, rilascia un’intervista a Furio Colombo per La Stampa. Titolo dell’intervista, per espressa volontà di Pasolini: “Siamo tutti in pericolo“.
Il giorno dopo, il 2 novembre 1975, giorno dei morti, il corpo del grande poeta viene trovato privo di vita all’Idroscalo di Ostia.
Pino Pelosi detto la Rana, un “ragazzo di vita” romano di 17 anni, fermato dai carabinieri a un posto di blocco, confessa immediatamente l’omicidio.
Pelosi racconta di come Pasolini quella sera l’ha convinto a “farsi un giro” sulla sua auto, un’Alfa GT. Arrivati all’Idroscalo, Pasolini vuole un rapporto sessuale ma Pelosi si rifiuta. Ne nasce una lite che presto sfocia in una rissa di inaudita violenza, che si chiude con la morte del poeta. Picchiato a sangue, massacrato, e schiacciato con l’auto durante la fuga di Pelosi.
Un delitto maturato nell’ambiente degradato delle borgate romane. E un delitto omosessuale. Niente di più facile.
Se non fosse che tante, troppe cose non quadrano nella ricostruzione giudiziaria che ne è stata fatta. Tante, troppe cose non quadrano nelle ore successive al ritrovamento del corpo, nelle indagini condotte dalla squadra mobile, negli interrogatori dello stesso reo confesso.
Procediamo per punti.
1. I CLAMOROSI ERRORI (ORRORI?) DELLA POLIZIA.
Una serie di errori ha intralciato il normale svolgimento delle indagini, soprattutto nelle prime (e fondamentali) 48 ore successive al delitto. Solo una coincidenza fortunata, in un posto di blocco dei carabinieri sul lungomare di Ostia, ha permesso di mettere le mani su Pelosi.
La polizia, giunta all’Idroscalo di Ostia alle 6.30 di domenica mattina 2 novembre, trova una piccola folla intorno al corpo di Pasolini: folla che gli agenti non pensano minimamente di allontanare. La polizia non si cura di recintare il luogo del delitto e impedire così la cancellazione di tracce importanti. E infatti, non essendo stata circondata la zona, tutte le eventuali tracce sono andate perdute dal passaggio di auto e pedoni diretti alle baracche o all’adiacente campo di calcio, oppure da semplici curiosi.
Nel campo di calcio lì vicino, inoltre, dei ragazzi giocano a pallone e il pallone ogni tanto esce dal rettangolo di gioco, finendo proprio vicino al cadavere di Pasolini.
Nessuno ha pensato di tracciare i punti esatti dei vari ritrovamenti.
Non si disturbano neanche di notare che sul sedile posteriore dell’Alfa GT di Pasolini c’è, bene in vista, un golf verde macchiato di sangue. E che lontano dal cadavere, tra le immondizie, c’è una camicia bianca, anch’essa macchiata di sangue. Se ne accorgeranno tre giorni dopo.
Inoltre fino a giovedì mattina l’Alfa GT è rimasta sotto una tettoia nel cortile di un garage dove i carabinieri depositano le auto sequestrate. L’auto è aperta e senza sorveglianza. Chiunque avrebbe potuto mettere o togliere indizi, lasciare o cancellare impronte.
La polizia torna sul luogo del delitto solo nella tarda mattinata di lunedì 3 per tentare una ricostruzione del caso, ma senza nessuna misura precisa, e con le tracce ormai inesistenti.
Solo da giovedì gli investigatori iniziano a interrogare gli abitanti delle baracche e i frequentatori della Stazione Termini (luogo in cui Pelosi ha raccontato di essere stato “adescato” da Pasolini).
Infine – e questo ha davvero dell’incredibile – sul luogo del delitto non è mai stato convocato il medico legale. E il cadavere venne lavato prima di completare gli esami della scientifica.
È chiaro che polizia e carabinieri, certi di poter archiviare il caso come omicidio omosessuale, oltretutto con l’assassino reo confesso già in carcere, hanno ritenuto superfluo ogni accertamento sul cadavere che poteva invece servire per le successive indagini.
È possibile che la polizia abbia commesso così tanti e clamorosi errori tutti insieme? È possibile che vengano trascurate le più elementari procedure investigative per un omicidio di tale portata?
Dopo questa pessima conduzione delle indagini, ci si aspetterebbe che il massimo responsabile venisse quantomeno sospeso dall’incarico. Invece il dottor Ferdinando Masone, capo della squadra mobile di Roma durante le indagini, ha fatto carriera: è diventato questore di Palermo e poi di Roma, e in seguito addirittura Capo della Polizia. Ruolo che ha ricoperto fino al 2000, quando è stato “promosso” ulteriormente, diventando segretario generale del CESIS: il Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza, cioè l’ente che coordina l’attività dei servizi segreti (SISMI e SISDE) in nome del presidente del consiglio.
2. LE CLAMOROSE BUGIE DI PELOSI.
Gli interrogatori di Pino la Rana, a cominciare dal primo, la notte stessa del 2 novembre, sono farciti di bugie, peraltro mal raccontate. Pelosi sembra recitare una lezione imparata male.
Innanzitutto, il mistero dell’anello. Pelosi racconta agli inquirenti di aver perso, durante la colluttazione, un anello d’oro con una pietra rossa, due aquile e la scritta “United States Army”. Verrà poi accertato che quell’anello non poteva averlo perso in quel modo, ma poteva solo averlo lasciato di proposito sulla scena del delitto. Perché? Per lanciare un segnale a qualcuno? Per “farsi incastrare”? O perché qualcuno per lui aveva deciso di usare Pelosi prima come esca e poi come capro espiatorio, incastrandolo con l’anello?
Pasolini fu colpito violentemente non con un oggetto solo, ma con due bastoni, uno più lungo e uno più corto, e con due tavolette di legno. Pelosi descrive la colluttazione come una scena violentissima, in cui la Rana, dopo una strenua lotta all’ultimo sangue, ha avuto la meglio su Pasolini. Risulta però difficile credere che un paletto di legno marcio possa provocare simili ferite e contusioni. Soprattutto risulta difficile capire come un ragazzo di 17 anni, magro e di corporatura esile, abbia potuto, da solo, avere la meglio su un uomo alto, atletico, sportivo, esperto di arti marziali com’era Pasolini. Anche perché il Pelosi non aveva sul corpo nessuna ferita di rilievo, e i suoi indumenti non presentavano alcuna traccia di sangue.
Esame approfonditi di tutti i dati obiettivi (sopralluogo, interrogatori di Pelosi, reperti, bastone, tavola, vesti, lesioni di Pasolini), da una parte smentiscono il racconto di Pelosi sulla dinamica di tutta l’aggressione, e dall’altra inducono ad avanzare con fondatezza l’ipotesi che Pasolini sia stato vittima dell’aggressione di più persone. Pelosi non può aver fatto tutto da solo.
3. LA CLAMOROSA RAPIDITA’ DEL PROCESSO.
Il caso Pasolini si risolve in pochissimi mesi. La sentenza di primo grado viene proclamata il 26 aprile 1976. Pino Pelosi (difeso dall’avvocato Rocco Mangia, lo stesso che ha difeso i fascisti che ammazzarono Rosaria Lopez nel massacro del Circeo) viene dichiarato colpevole di omicidio volontario in concorso con ignoti e condannato a 9 anni, 7 mesi e 10 giorni di reclusione. Ma se il Tribunale dei Minori, presieduto dal giudice Alfredo Carlo Moro (fratello del presidente della Dc Aldo Moro), ha contemplato il “concorso di ignoti”, nella sentenza di appello tale ipotesi verrà scartata e di fatto cancellata definitivamente dalla Cassazione nel 1979.
In ogni caso, l’impressione è che non solo gli inquirenti avessero fretta di chiudere il caso, ma anche i giudici avessero la stessa preoccupazione di chiudere in fretta il processo.
Un processo che in realtà non vedeva imputato (solo) Pino Pelosi. Ma anche (e soprattutto) Pasolini stesso. L’obiettivo del processo è uno solo: fare di Pasolini un mostro. Un omosessuale pervertito che corrompe e violenta i ragazzini. E per questo è stato usato Pelosi. Che però pagherà caro. Pagherà per delle colpe che non erano sue o non lo erano del tutto. Sarà il vero capro espiatorio utilizzato da dei mandanti (e manovratori) rimasti, come sempre, ignoti e impuniti.
4. LA CLAMOROSA (E TARDIVA) RITRATTAZIONE DI PELOSI.
Il 7 maggio 2005, però, c’è il colpo di scena: Pino Pelosi fa una rivelazione choc. Nel corso della trasmissione televisiva “Ombre sul giallo”, confessa di non essere stato solo quella sera del 2 novembre 1975, come invece aveva sostenuto fin dal primo interrogatorio e sempre ribadito. Trent’anni dopo, invece, rivela di non essere stato lui a uccidere Pasolini, ma tre uomini che parlavano con accento siciliano o calabrese.
Perché dunque all’epoca ha mentito e si è accollato colpe che non gli appartenevano? Perché ha aspettato trent’anni e non ha parlato prima? «Ero un ragazzino – dirà Pelosi – avevo 17 anni. Avevo paura, perché quelli che hanno ucciso Pasolini mi hanno picchiato e hanno minacciato di morte me e la mia famiglia se avessi raccontato la verità». E allora perché raccontarla adesso la verità? Non ha più paura, Pino la Rana, di fare la stessa fine del poeta? «Sono passati trent’anni, quelli che mi hanno minacciato e che hanno ammazzato Pasolini, saranno morti o comunque vecchi». Possibile. Pelosi racconta infatti che all’epoca i tre uomini che l’hanno aggredito e minacciato erano sui quarant’anni. Ma si tratta solo degli esecutori materiali del delitto. C’è un livello superiore, quello dei mandanti, che non si fa certo scrupoli a eliminare un testimone scomodo che, con un po’ di ingenuità, crede di essere al sicuro perché “ora gli assassini saranno morti o vecchi”. L’impressione è che se non è ancora stato fatto fuori non è per i motivi che indica Pelosi, né perché siano diventati improvvisamente “buoni”, ma più probabilmente perché in questo momento Pelosi serve vivo. E perché ucciderlo significherebbe esporsi troppo. Perché farlo, dal momento che l’inchiesta, riaperta dopo le dichiarazioni di Pelosi nel 2005, è stata ancora una volta archiviata?
Molte ipotesi sono state avanzate sui mandanti dell’omicidio di Pasolini. Da alcuni è stato ritenuto un omicidio politico. Ma è evidente che così non è. Le motivazioni vere sono più complesse e pericolose: i mandanti stanno in alto, molto in alto. E stanno in un romanzo scritto da Pasolini stesso. A questo punto occorre fare un passo indietro di 36 anni.
I POSSIBILI MOVENTI. PETROLIO, IL “ROMANZO DELLE STRAGI”: IL CASO MATTEI E LA PISTA CEFIS
Nel 1972 Pasolini inizia a scrivere quello che può a tutti gli effetti essere considerato il suo vero “romanzo delle stragi”: Petrolio, così si chiamerà il suo romanzo rimasto incompiuto e pubblicato postumo. E forse è proprio in Petrolio che si trova la chiave della morte del suo autore, legata a un altro mistero italiano: la “strana” morte di Enrico Mattei. Pasolini era venuto in possesso di informazioni scottanti, riguardanti il coinvolgimento di Eugenio Cefis nel caso Mattei.
In Petrolio descrive la storia dell’Eni e in particolare quella del suo presidente Cefis. Lo fa con un espediente letterario: il personaggio inventato di Troya, ricalcato sulla figura di Cefis.
1. L’INDAGINE DEL GIUDICE CALIA.
Secondo il sostituto procuratore di Pavia, Vincenzo Calia, che ha indagato sul caso Mattei (depositando una sentenza di archiviazione nel 2003), le carte di Petrolio appaiono come fonti credibili di una storia vera del potere economico-politico e dei suoi legami con le varie fasi dello stragismo italiano fascista e di stato. In particolare, nel 2002 Calia ha acquisito agli atti tutti i vari frammenti sull’“Impero dei Troya”, da pagina 94 a pagina 118 di Petrolio, che dall’omicidio ipotizzato di Mattei guida al regime di Eugenio Cefis, ai “fondi neri”, alle stragi dal 1969 al 1980 (tra le altre cose, vi è anche una “profezia” della strage della stazione di Bologna).
Il giudice Calia ha acquisito agli atti anche il mancante Lampi sull’Eni, di cui ci rimane soltanto il titolo (sotto l’Appunto 21), essendo l’intero capitolo “misteriosamente” scomparso nel nulla, come altre 200 pagine del romanzo. Non è una mancanza di poco conto, se si considera che in Lampi sull’Eni doveva presumibilmente comparire il grosso della vicenda legata all’economia petrolifera italiana.
Negli Appunti 20-30, Storia del problema del petrolio e retroscena, Pasolini arriva a fare direttamente i nomi di Mattei e di Cefis. Vi è inoltre un appunto del ’74 in cui Pasolini scrive che «in questo preciso momento storico, Troya (Cefis, ndr) sta per essere fatto presidente dell’Eni: e ciò implica la soppressione del suo predecessore (caso Mattei, cronologicamente spostato in avanti). Egli con la cricca politica ha bisogno di anticomunismo».
2. LA FONTE DI PETROLIO.
Il giudice Calia ha scoperto un libro, che è la fonte di Pasolini, pubblicato nel 1972 da una strana agenzia giornalistica (Ami), a cura di un fittizio Giorgio Steimetz: Questo è Cefis. (L’altra faccia dell’onorato presidente). Si tratta di un pamphlet sulla vita, sul carattere e sulla carriera del successore di Mattei alla guida dell’Eni. Racconta alcuni passaggi biografici, da quando Cefis fu partigiano in Ossola (con alcuni risvolti poco chiari) alla rottura con Mattei nel 1962, mai perfettamente spiegata; dal rientro all’Eni al salto in Montedison. Pasolini ne riporta interi brani, ne fa la parafrasi, elenca le stesse società (petrolifere, metanifere, finanziarie, del legno, della plastica, della pubblicità e della comunicazione) più o meno collegate a Cefis, vi assegna acronimi o sigle d’invenzione.
3. LO PSEUDONIMO STEIMETZ E L’AGENZIA AMI.
Non è facile individuare chi si celi dietro lo pseudonimo di Giorgio Steimetz, ma di certo si tratta di una persona ben inserita negli affari interni dell’Eni. Il suo libro è immediatamente sparito dalla circolazione e oggi non compare in nessuna biblioteca nazionale e in nessuna bibliografia.
Scrive lo stesso fantomatico Steimetz: «Ridurre al silenzio, e con argomenti persuasivi, è uno dei tratti di ingegno più rimarchevoli del presidente dell’Eni». E Pasolini in Petrolio scriverà: «Non amava nessuna forma di pubblicità. Egli doveva, per la stessa natura del suo potere, restare in ombra. E infatti ci restava. Ogni possibile “fonte” d’informazione su di lui, era misteriosamente quanto sistematicamente fatta sparire».
Dietro l’Ami, che pubblicò solo quel titolo, c’era il senatore democristiano Graziano Verzotto, capo delle pubbliche relazioni Eni in Sicilia e segretario regionale della Dc (corrente Rumor) ai tempi di Mattei, di cui fu amico personale. Verzotto ha rilasciato a Calia una lunga deposizione, in cui per spiegare l’“incidente” aereo dell’ottobre ’62 esclude l’ipotesi delle Sette Sorelle, quella dei servizi segreti francesi e la pista algerina, arrivando ad asserire che colui al quale la morte di Mattei ha giovato di più, è il successore di Mattei stesso: Eugenio Cefis.
Pasolini era dunque venuto in possesso di documenti che provavano il coinvolgimento di Cefis nel caso Mattei e, prima di essere barbaramente ucciso, stava per pubblicare il tutto in un romanzo choc. Ma prima di lui un altro giornalista che aveva iniziato a indagare sulla morte di Mattei fece una brutta fine. Si tratta di Mauro De Mauro, che stava collaborando con il regista Francesco Rosi per il film Il caso Mattei. De Mauro venne eliminato quando ormai aveva scoperto la verità. Poco prima dell’incontro previsto con Rosi, infatti, il giornalista scomparve nel nulla.
Il lavoro di Calia è agli atti. Il mandante possibile della morte di Enrico Mattei è in Petrolio. Probabilmente anche quello dell’uccisione di De Mauro e di Pasolini.
Spesso, troppo spesso, si è detto che Pasolini è stato ucciso perché era un intellettuale “scomodo”. Ma Pasolini non era “scomodo” per via delle sue critiche al sistema, ma per le sue accuse. Fondate, precise, documentate da prove reali e da documenti riservatissimi e “incendiari” di cui egli era venuto in possesso.
Come scrisse sul Corriere un anno prima di morire, egli sapeva. Non solo perché da poeta intuiva e da intellettuale osservava la realtà come pochi sono in grado di fare. Ma perché sapeva davvero. Sapeva troppe cose. E ciò che sapeva poteva far tremare il Potere.
Pier Paolo Pasolini è stato ucciso per questo: perché probabilmente sapeva la verità sulla morte di Enrico Mattei. Sapeva chi erano i mandanti di quello strano “incidente” aereo, che in seguito si rivelò non essere stato un incidente, ma un abbattimento in volo: venne certificato infatti che nell’aereo fu inserita una bomba stimata in 150 grammi di tritolo posta dietro al cruscotto, che si sarebbe attivata durante la fase iniziale di atterraggio, forse dall’apertura del carrello. Già all’epoca dei fatti, alcuni testimoni dichiararono di aver visto l’aereo esplodere in volo. Il testimone principale, il contadino Mario Ronchi, rilasciò alcune interviste agli organi di stampa e alla RAI (che ne censurò le affermazioni), ma in seguito ritrattò la sua testimonianza. Forse qualcuno aveva pagato il suo silenzio.
Il sostituto procuratore Calia si spinse ad affermare che «l’esecuzione dell’attentato venne pianificata quando fu certo che Enrico Mattei non avrebbe lasciato spontaneamente la presidenza dell’ente petrolifero di Stato». Il che porterebbe ancora una volta a ritenere Eugenio Cefis come il probabile mandante. Probabilmente questa era una delle scomode verità di cui Pasolini era venuto a conoscenza.
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Il petrolio, i monopoli, l’imperialismo
Oggi come ieri, un fattore non secondario nella contesa fra le potenze imperialiste è costituito dal controllo delle materie prime e delle fonti di energia indispensabili per il funzionamento della macchina produttiva capitalista. In particolare, la storia del petrolio è piena di insegnamenti sui conflitti per la spartizione dei profitti e delle rendite, e del potere, fra i monopoli e fra gli Stati.
Si può dividere questa storia in due grandi tappe separate dallo spartiacque della Seconda Guerra mondiale. Nella prima fase assistiamo alla formazione dei grandi monopoli petroliferi, alle lotte senza quartiere per il controllo dei mercati internazionali, alle guerre di spartizione coloniale, alla ricerca di nuovi giacimenti – dal Venezuela al Messico e dall’antica Persia all’Indonesia.
Dopo la Seconda Guerra mondiale, la storia del petrolio s’intreccia con la presenza dell’imperialismo occidentale nel Medio Oriente. Quest’area, con il suo petrolio a buon mercato e le aspettative di immensi profitti, diventerà preda di tutti gli imperialismi: qui le grandi industrie petrolifere internazionali (soprattutto a base Usa), a rimorchio degli interventi militari delle potenze cui fanno capo, si impadroniranno delle ricchezze dei paesi produttori.
Le rivolte sociali che nel corso del 2011 hanno sconvolto l’Egitto, la Tunisia, la Libia ed altri paesi soggetti alle potenze imperialiste, determinate dalla crisi economica generale che attanaglia il capitalismo, hanno trovato nell’area mediorientale un terreno fertile: è qui che si annodano gli interessi politici, economici e strategici del capitale finanziario mondiale. Se gli scossoni hanno per ora risparmiato paesi quali l’Algeria e il Marocco ciò è dovuto al fatto che le borghesie locali hanno utilizzato la manna petrolifera o hanno fatto ricorso ad un massiccio indebitamento per soddisfare i bisogni di una parte della loro classe media, comprandosi la pace sociale sull’esempio delle borghesie dei paesi occidentali, dove l’opportunismo ha da un secolo e mezzo messo le sue salde radici.
Tralasciando qui gli aspetti di natura politica conseguenti la penetrazione economica, questa lotta per la conquista dei mercati è divenuta accanita in seguito ai mutamenti nel mercato mondiale a partire dall’inizio del Novecento e caratterizzati dalla importanza acquisita dall’esportazione di capitali rispetto all’esportazione di merci, dal predominio del capitale finanziario in campo internazionale e dalla periodica ripartizione del mondo tra i grandi Stati. Dietro a questi importantissimi mutamenti rispetto all’epoca del capitalismo concorrenziale, e che Lenin definirà come imperialismo, non bisogna vedere una particolare politica economica di aggressione, ma un vero proprio stadio o fase del capitalismo tout court in cui prevale una struttura monopolistica della società.
Il modo di produzione capitalista, nato nel XVI secolo, alla fine del feudalesimo, con la creazione del mercato mondiale, si caratterizza per una legge intangibile: produrre per produrre. La necessità dell’accumulazione spinge il capitale ad abbassare i costi di produzione e aumentare la produttività del lavoro. All’iniziale divisione tecnica del lavoro basata sulla cooperazione e la manifattura, farà seguito lo sviluppo del macchinismo e un conseguente mutamento delle fonti di energia utilizzate nella produzione: fino ad allora erano ancora quelle del Medioevo: acqua, legna, vento, forza animale.
La prima rivoluzione tecnica si ebbe a mezzo del XVIII secolo, in Inghilterra, con il passaggio al carbone e l’invenzione della macchina a vapore che permise al capitalismo di avviare il processo mondiale di industrializzazione e di sviluppare una tecnica adeguata al suo specifico modo di produzione. Come scrive Marx nel Capitale, il genio di Watt si rivela nel fatto che presenta la sua macchina a vapore non come una invenzione a scopi particolari, ma come agente generale della grande industria.
Alla fine dell’Ottocento altre due grandi innovazioni tecniche, l’elettricità, un’energia facilmente trasportabile, e il motore a combustione interna, metteranno le ali alla produzione e ai trasporti. Il motore a scoppio e il motore elettrico determinano l’abbandono dei motori azionati dal vapore.
Prima della diffusione di massa dell’automobile e dei consumi domestici e produttivi dell’elettricità, il petrolio è solo la materia prima da cui si ricava il cherosene da illuminazione e da riscaldamento dei quali copre non più del 4% del fabbisogno mondiale. Solo con la Prima Guerra mondiale sarà avvertita la sua importanza strategica come fonte di carburante per i motori terrestri, navali ed aerei. Oggi, con una quota dieci volte più grande, il petrolio è la prima fonte mondiale di energia.
1. Corsa all’oro nero e monopoli
La storia del petrolio dell’era capitalista comincia nel 1859 sulle rive dell’Oil Creek nei pressi della cittadina di Titusville in Pennsylvania, nel Nord-Est degli Stati Uniti, quando il petrolio zampillò da un pozzo scavato dal leggendario colonnello Edwin L. Drake con una nuova tecnica di perforazione. La notizia si sparse in un baleno e fece accorrere migliaia di cercatori che nell’oro nero vedevano un’alternativa all’olio di balena o al gas naturale diventati troppo costosi per l’illuminazione. Peraltro i nativi e i primi coloni già lo adoperavano a questo scopo.
Noto fin dall’antichità (Assiri, Bisanzio, ecc.), ma utilizzato come pece e bitume, ora il greggio fu per la prima volta distillato. Uno studio del professor Silliman, chimico dell’Università di Yale, accertò che il petrolio poteva essere portato a vari gradi di ebollizione distillando in maniera frazionata quei vari composti di carbonio ed idrogeno: la prima frazione, la benzina, sarà a lungo considerata un sottoprodotto; la seconda frazione chiamata cherosene troverà immediato impiego nell’illuminazione.
Ci fu la corsa all’accaparramento dei terreni da trivellare. In men che non si dica, sorsero città, ferrovie, raffinerie, oleodotti. La Guerra di Secessione che allora insanguinava gli Stati Uniti non solo non fu un ostacolo alla frenesia generale per il petrolio, anzi rappresentò uno stimolo per lo sviluppo degli affari. Ma la nuova industria era soggetta, assai più che quella del carbone, alle eccedenze di produzione e quindi ad improvvisi crolli dei mercati: la curva del prezzo era inversa a quella del numero dei pozzi trivellati e le ambizioni dei primi spregiudicati affaristi del settore furono rivolte non tanto al controllo diretto dei giacimenti quanto a quello delle reti di trasporto (soprattutto ferroviario) e di vendita.
Un uomo, il cui nome è diventato il simbolo dell’animal spirit del capitalismo americano, l’industriale di origine francese John D. Rockefeller (il suo vero nome era Roquefeuille, e suo padre, fervente calvinista, era già un filibustiere del commercio), fu coinvolto nel boom del nascente mercato del petrolio di cui intuì subito le enormi potenzialità economiche. Come molti imprenditori dell’epoca, Rockefeller, poco più che ventenne, aveva fondato insieme al socio Maurice Clark una società in cui si commerciava di tutto, purché avesse un prezzo di vendita, che operava nel territorio di Cleveland soprattutto nei mercati della carne e del frumento. Si lanciarono nel campo dei lumi a petrolio e avviarono alcune piccole industrie di raffinazione e di distribuzione di nafta e cherosene lungo la ferrovia di Cleveland. Il trasporto su rotaia era l’unico modo per trasportare il greggio dai luoghi di estrazione ai grandi mercati dell’Est e la città di Cleveland si trovava in una favorevole posizione geografica, oltre ad essere una città molto attiva che aveva tratto grandi vantaggi dalla guerra ed ora si apprestava a sfruttare il boom petrolifero.
I profitti elevati provenienti dalla raffinazione convinsero Rockefeller a dedicarsi esclusivamente al petrolio. In breve liquidò il socio e si dette ad una politica commerciale ambiziosa e aggressiva. Nella raffinazione operavano diverse società in concorrenza tra loro e Rockefeller ambiva al controllo monopolistico dell’intero mercato. Definì il contesto come “il grande gioco”: le aziende erano guidate da uomini che si sfidavano in affari come in aspre guerre personali senza esclusioni di colpi.
Ma l’entusiasmo nella corsa al petrolio si risolse rapidamente in una situazione di sovrapproduzione e tra il 1865 e il 1870 il prezzo si dimezzò causando perdite economiche sia ai produttori-estrattori sia alle aziende di raffinazione. Il tipico panico che segue una fase di grande entusiasmo portò molti investitori a svendere le proprie industrie. Rockefeller comprese l’importanza del momento, un’occasione unica per acquistare le industrie di raffinazione concorrenti. Nel 1870, usando metodi di guerra commerciale poco ortodossi, assai lontani dalla morale “puritana” che ostentava di seguire, unificò le migliaia di piccole Compagnie della Pennsylvania fondando la società per azioni Standard Oil Company del New Jersey. Con la vendita delle azioni, Rockefeller riuscì ad ottenere nuova liquidità e poté acquistare le aziende concorrenti in svendita. All’inizio del 1872, nel pieno della depressione, Rockefeller ebbe il coraggio di andare controtendenza realizzando una serie di grandi fusioni industriali allo scopo di raggiungere il predominio nella raffinazione del petrolio. Costituì allo scopo un Consorzio che prese il nome di South Improvement Company.
Fu la vicinanza alla ferrovia a dare a Rockefeller la grande occasione: la società si accordò segretamente con le Compagnie ferroviarie, già organizzate in monopolio, per ottenere ribassi nei noli per i grandi quantitativi di petrolio da spedire. La Standard Oil divenne in breve tempo l’industria di raffinazione più forte del mercato americano, arrivando a controllare, alla fine degli anni Settanta, il 90% della capacità di raffinazione degli Stati Uniti. A quell’epoca pressoché tutto il petrolio consumato nel mondo era americano, e delle 36 milioni di tonnellate di petrolio prodotte nelle raffinerie americane ben 33 provenivano dagli impianti della Standard Oil. Per attraversare i mari il petrolio viaggiava allora sui velieri, all’inizio dentro i fusti poi in cisterne. La Standard aveva la propria rete di rappresentanti che battevano in lungo e in largo l’Europa e l’Asia, e un proprio servizio di informazioni e di spionaggio per scoprire in anticipo le iniziative delle società concorrenti e dei governi. All’occorrenza i mercati, come quello cinese, furono inondati di lampade a prezzi stracciati o addirittura gratuite per indurre la popolazione ad acquistare l’olio illuminante. In questo modo la Compagnia strangolava i concorrenti.
All’inizio degli anni Ottanta Rockefeller aveva il controllo di quaranta diverse società che gestiva attraverso la Standard Oil Trust: gli azionisti delle varie società si limitavano ad accordare la loro “fiducia” (trust) a un direttorio di nove membri che di fatto gestiva la holding. In altre parole, si trattava di un sistema per cui una società “madre” capogruppo controllava un certo numero di società “figlie” mediante il possesso di partecipazioni azionarie. La Standard teneva in amministrazione fiduciaria i titoli per conto dei piccoli azionisti delle varie società, che si limitavano a riscuotere i dividendi. In questo modo aggirava le leggi che disciplinavano la libera concorrenza e nessuno poteva accusare legalmente la Standard di possedere e controllare direttamente altre società.
In questo periodo quasi tutti gli Stati ricorsero al protezionismo, espressione della concorrenza internazionale fra i capitali e della lotta per il controllo del mercato mondiale. La politica del libero scambio fu messa da parte per i prodotti agricoli quando ne apparvero più a buon mercato dall’oltremare, poi, a poco a poco, il protezionismo si estese anche all’industria. Il capitalismo dei monopoli doveva difendere il mercato interno contro l’invasione delle merci estere per proteggere la base dei suoi sovraprofitti monopolistici. Al protezionismo ricorsero la Germania (1879), la Russia (1881), l’Italia (1887), gli Usa (1890), la Francia (1892). Solo l’Inghilterra, ormai esportatrice più di capitali che di merci, restava fedele al liberismo.
Parallelamente gli imperialismi emergenti si atteggiavano ad una politica “antimonopolistica” al fine non di bloccare il processo di centralizzazione avviato dai monopoli nazionali all’interno dei singoli Stati, ma per opporsi alla penetrazione dei capitali stranieri. Un esempio è fornito dal cosiddetto “Sherman Act” statunitense, una legge federale del 1890 per contrastare la formazione di cartelli, trust e monopoli che le imprese costituivano per evitare la concorrenza e la caduta dei prezzi di vendita. La legge dichiarò “illegali” i trust e gli accordi tendenti a frenare il commercio e la produzione, considerati un “attentato alla libertà del commercio”! Era il trionfo dell’ipocrisia: il puritanesimo americano non poteva ammettere che la libera concorrenza è in realtà soltanto una tappa nello sviluppo del capitalismo, un mezzo in mano ai più forti per eliminare i più deboli! Non poteva confessare che sotto il capitalismo il monopolio è ineluttabile! Di fatto la legge non pose alcuna limitazione alle società di possedere azioni in altre aziende, e questo consentì un’ondata di fusioni e un aumento delle concentrazioni. La conseguenza sarà quella di far ricadere i costi di questa politica neo-mercantilista sui lavoratori, che non potranno usufruire di eventuali abbassamenti dei prezzi.
Quando all’inizio del Novecento il petrolio in Pennsylvania si esaurì, gettando la regione nella crisi, i pionieri sciamarono a decine di migliaia verso gli Stati del Sud, che in breve si ricoprirono di torri di trivellazione. Importanti ritrovamenti vi furono nel Kansas, nel Texas, in Luisiana ma soprattutto in California. Questo Stato, con 73 milioni di barili (il 22% della produzione mondiale), diverrà il maggiore produttore statunitense. Con la scoperta dei nuovi giacimenti nacquero nuove Compagnie: in California la principale era l’Unocal, l’unica grande Compagnia che era riuscita a sottrarsi all’abbraccio mortale della Standard Oil; nel Texas nel 1901 fu costituita la Gulf Oil e nel 1902 la Texas Company (la futura Texaco), la quale, grazie all’appoggio di uomini politici texani, acquisì molte concessioni e assumerà un ruolo di primo piano nel campo della ricerca e della produzione.
Nel 1910 la Standard Oil della famiglia Rockefeller regnava su un impero sconfinato: commercializzava l’84% del greggio Usa e raffinava 35 mila barili di petrolio al giorno; distribuiva l’80% della produzione di cherosene domestico; aveva il monopolio delle forniture dell’olio lubrificante alle ferrovie; era proprietaria di oltre la metà dei vagoni cisterna che viaggiavano in America; disponeva di una flotta di cento navi, quasi tutte a vapore; era padrona di svariate banche e di 150 mila chilometri di oleodotti.
La stampa cominciò a battere la grancassa di lesa “libera concorrenza” accusando addirittura i monopoli di controllare il governo attraverso corruzioni e scambi di favori. Furono rispolverate le leggi anti-trust con la creazione di una Sezione speciale di controllo, che nel 1906 imbastì un nutrito numero di processi contro la Standard sulla base della legge Sherman. Nel 1911, dopo sette anni di indagini, di ricorsi in appello e di rinvii, la Corte Suprema di giustizia decretò che entro sei mesi la Standard era obbligata a dividersi dalle altre società da essa controllate. Sull’onda emotiva della sentenza il Congresso varò una nuova legge antimonopolistica.
Ma anche questa volta la conseguenza fu un rafforzamento delle imprese monopolistiche. Bastarono due mesi a Rockefeller e soci per parare il colpo. L’impero fu frammentato in più società gestite da prestanome: la prima e più importante, con quasi metà degli asset complessivi, fu la ex Standard Oil del New Jersey che si chiamò Exxon, destinata a diventare l’emblema stesso della potenza petrolifera americana; la seconda, con il 10% del valore patrimoniale totale, fu la Standard Oil di New York (la futura Mobil). A queste si affiancarono la Standard Oil della California (la futura Socal), la Standard Oil dell’Indiana (che assumerà il nome di Amoco), la Continental Oil (che si chiamerà Conoco), la Standard Oil dell’Ohio, ecc. Alla resa dei conti, le nuove aziende, pur avendo consigli di amministrazione autonomi, mantennero i rispettivi mercati e marchi di fabbrica; anzi, la frammentazione della vecchia holding spinse le singole società a svecchiare il gruppo dirigente e a diventare più aggressive sui mercati. Rockefeller incentivò la sua politica di espansione mondiale e puntò innanzitutto verso l’America del Sud (Messico, Venezuela) utilizzando tutti i mezzi leciti e illeciti nei confronti di proprietari privati e di governi per mettere le mani sulle terre in odore di petrolio.
John D. Rockefeller vivrà felicemente fino all’età di 98 anni, padrone di un impero ramificato in tutti i settori, dalle banche alla politica, orgoglioso simbolo della fortuna costruita da un oscuro contabile, e di cui l’imponente Rockefeller Center di Manhattan a New York rappresenta la potenza visibile e il vivo insegnamento di come la libera concorrenza porta al… monopolio!
Lo sviluppo dell’elettricità assestò un colpo fatale al mercato del petrolio da illuminazione. Ma se un mercato si chiudeva, un altro si apriva. Nel 1907 l’impero di Rockefeller era stato salvato da quello nascente dell’industriale Henry Ford, dai cui stabilimenti cominciavano ad uscire le prime automobili in serie: la Standard Oil si convertì alla benzina. Le prime macchine erano destinate non alla città ma alla grande produzione agricola in sostituzione della trazione animale (le macchine agricole erano ancora azionate da tiri di 40-50 cavalli!). I solchi dei campi furono aperti dai primi trattori a benzina con il marchio Ford. Come l’elettricità si rivelerà perfetta per l’illuminazione, così il petrolio troverà il suo sbocco naturale nel settore automobilistico, il cui boom fu fenomenale: negli Usa le immatricolazioni passarono da 8 mila nel 1900 a 900 mila nel 1910. Lo stesso sviluppo si ebbe nei paesi più avanzati d’Europa: nel 1914 in Francia circoleranno 700 mila veicoli a motore. L’avvento del motore a combustione interna farà della benzina il prodotto principale della produzione delle raffinerie, insieme al gasolio, che cominciava a trovare utilizzo nelle caldaie, nei camion, nei treni e nelle navi.
All’alba del XX secolo, con lo sviluppo mondiale dell’industria e del capitalismo, la corsa alla nuova fonte di energia, che si rivelerà non soltanto molto più economica del carbone ma anche più efficiente e meglio rispondente alle esigenze dell’industria moderna, si trasformerà ben presto in una sfida senza quartiere tra i maggiori imperialismi.
2. Il petrolio in Russia
In Russia la raffinazione del petrolio era iniziata fin dal 1820 a Baku, nell’Azerbaigian russo, dove l’esistenza di pozzi di petrolio era nota a partire almeno dal XVII secolo, ma l’industria era primitiva, i pozzi scavati a mano e la produzione scarsa. Lo sfruttamento intensivo dei giacimenti non cominciò che negli anni Settanta dell’Ottocento, quando il governo russo aprì le porte all’iniziativa privata. Le concessioni messe all’asta dallo zar finirono all’inizio nelle mani di ricchi affaristi tartari e armeni, che si arricchirono rapidamente e dilapidarono i loro profitti in palazzi e banchetti. Le condizioni di lavoro degli operai tartari e georgiani, servi o lavoratori liberi che fossero (uno zio di Stalin era tra essi), erano spaventose: trattati come bestie, preda dell’alcol, venivano selvaggiamente repressi dai cosacchi ogni volta che tentavano di ribellarsi alle loro miserabili condizioni.
A partire dal 1873 a dare il primo impulso all’industria petrolifera russa furono i Nobel, svedesi emigrati a San Pietroburgo e che vantavano legami con lo zarismo. Possedevano immense concessioni e numerose raffinerie collegate alla ferrovia mediante oleodotti: il petrolio era trasportato attraverso la Russia fino a Riga, sul Baltico, e da qui in Svezia. A Baku operavano anche i fratelli Rothschild, banchieri francesi grandi esportatori di capitali in Russia. Nel 1886 avevano acquistato dei giacimenti di petrolio e fondato la “Compagnia petrolifera del mar Caspio e del mar Nero” per la distribuzione del kerosene russo. Nel 1893 i loro capitali servirono a finanziare la costruzione di una ferrovia che collegava Baku al porto di Batum sul mar Nero. Batum era allora uno dei porti più importanti del mondo (qui si sarebbero fatte le ossa il giovane Stalin e altri capi bolscevichi). Il greggio a mezzo di navi petroliere veniva trasportato da Batum fino al porto di Trieste, dove i Rothschild possedevano una raffineria. Anche i Nobel si associarono all’operazione in cambio di azioni della loro Compagnia cedute ai Rothschild.
Nel 1888 le società dei Nobel e dei Rothschild, che costituivano un vero e proprio fronte russo del petrolio, avevano una produzione pari all’80% di quella del gigante americano Standard Oil. Presto la Russia comincerà ad esportare il suo petrolio in Europa mettendo a rischio la leadership americana.
(continua http://www.international-communist-party.org/Partito/Parti358.htm#Petrolio)
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Ha fatto bene Sel ieri a giudicare «inaccettabile» l’intesa raggiunta tra i capigruppo Pd-Pdl sulla presidenza del Copasir, il Comitato di controllo sui servizi segreti. Un’intesa pesante, banco di prova dell’ibrido governo Letta-Berlusconi nato all’ombra del ri-presidente Napolitano. Inaccettabile perché il governo ha rifiutato la candidatura al Copasir di Claudio Fava. Non poteva essere sopportato che a presiederlo fosse un deputato che ha denunciato, per dieci anni, il ruolo nefasto dei nostri servizi segreti e della Cia nel coinvolgimento sulle extraordinary rendition; un intellettuale che ha salvaguardato l’indipendenza della nostra intelligence, che ha difeso quella magistratura che ha avuto il coraggio di denunciare e condannare i responsabili. A cominciare da Pollari, ai 19 agenti Usa della sezione Cia italiana , al colonnello della base di Aviano Joseph Romano (poi, chissà perché, graziato da Napolitano).
Sono stati in pochi, con il manifesto, a cercare la verità sul traffico disumano. E a portare in giudizio e a condannare i responsabili, come ha fatto il giudice Armando Spataro sul caso Abu Omar, con l’incredibile riprovazione dei vari governi (da Prodi a Berlusconi).
Le extraordinary rendition sono avvenute dal 2002 al 2009 (anno in cui ufficialmente sono state regolamentate da Obama: ma la pratica resta), nel silenzio complice e omertoso dei governi europei tutti, democratici e reazionari, dell’ovest come dell’est. Dietro coordinamento e direttive della Cia e al di fuori di ogni procedura giuridica o norma del diritto internazionale. Fermavano, rapivano, segregavano, torturavano nelle basi militari Nato vecchie e nuove ad est, e trasferivano in un luogo di detenzione segreta nel territorio di guerra. Poi anche a Guantanamo. È stata la cosiddetta guerra infinita al terrorismo dopo l’11 settembre 2001, lanciata con ogni mezzo e menzogna dall’allora presidente americano Bush. Tutti sapevano, tutti rapivano e torturavano. Tutti tacevano.
La battaglia di Fava, e di Spataro, ha spalancato una porta che ora si vuole sbarrare con la decisione sul Copasir che esclude proprio chi poteva vigilare sui processi democratici anche nei Servizi segreti. Noi cercheremo di tenerla aperta perché la democrazia non venga ridotta a pantomima sotto l’ombrello dei veti atlantici.
Tommaso Di Francesco
Fonte: www.ilmanifesto.it
7.06.2013
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Io so, quali sono i poteri che costituiscono il Nuovo Ordine Mondiale… a parte quelli della “massoneria ecclesiastica”
Conoscerete in molti il monologo e profetico pensiero di Pier Paolo Pasolini del “Io So”. Ebbene, supponiamo che qualcuno voglia mettere altra carne al fuoco sui fatti che secondo il nostro autore-regista-poeta-intellettuale hanno “antropologicamente modificato” la nostra stessa natura di persone libere, ebbene ci stareste a spronarlo per andare ancora più a fondo, magari fondando con lui Borghi Rurali ed Eucaristici chiamati di Xenobia o lo lascereste morire come fu per Pasolini, in quello squallido 2 novembre nell’idroscalo di Ostia? Ebbene, qui su Stampa Libera mi sento di lasciare questa testimonianza, e lo faccio da uomo libero che pur amando il Papato e tutti i Papi, considera questi ultimi, da Giovanni 23 a Benedetto 16 dei Falsi Profeti. Faccio le dicharazioni che seguono, sperando che un giorno anche Lino e Nicoletta e gli altri amici sappiano apprezzare per il coraggio, la determinatezza ed il pensiero liberamente cristiano, quello che sto per dirvi.
La lettera è firmata, ovviamente, e prego chiunque volesse riprendere queste mie parole di non estrapolarle dal contesto cristiano della “Resilienza” o piccoli servi di Maria nella tradizione della Chiesa Una Santa Cattolica Apostolica e Romana, che riferito agli ULTIMI del Vangelo, non accetterà mai che esistano delle “vittime sacrificabili” secondo un concetto in uso fra coloro che aderendo al Concilio Vaticano II della nuova chiesa e nuovo vagelo, nonchè nuova religione ecumenista di Assisi alla fine difendono se stessi ed il loro Papa degli Illuminati con il classico: “mors tua vita mea”. Ma una volta non doveva essere tutto all’insegna della Verità? Per cui vediamo di vederla da un altro punto di vista questa Verità. Nella Carità.
I Poteri protesi verso la costruzione del Nuovo Ordine Mondiale sono: le Elite degli Illuminati che lavorano per l’instaurazione del Regno di Satana e di Mammona attraverso la Debitocrazia ed il Signoraggio Bancario; le Oligarchie PetrolChimiche che stampano anche Denaro o PetrolDollari, ElettroDollari, EcoDollari, AgroDollari, l’atomica, la superatomica; le Case Regnanti d’Inghilterra e d’Olanda anche con vincoli di parentela con altre Case Reali; la Fra-massoneria Conciliarista ed Ecumenista che controlla le Coscienze-Beneficienze mediante il Vaticano II e il Papa degli Illuminati; la Plutocrazia che Gestisce Denaro; la Massoneria che Controlla la Classe Dirigente, i Quadri e le Gerarchie Militari; le Istituzioni Industriali, Commerciali e Sindacali di Categoria per mercificare i loro Affari e tenere impegnata la Gente; le Organizzazioni Sportive per dirigere i comportamenti reazionari e prevenire Atti Vandalici; la Mafia che esegue come una Società di Servizi, tutti i lavori sporchi per conto del Sistema; i Partiti e la Stampa che controllano le Leggi e l’Opinione Pubblica; e i Servizi di Intelligence che Sviluppano nel Segreto la “Cultura di Morte”, Controllano la Società ed Iniettano l’Immoralità ad ogni livello per Massificare il Pensiero del Consumo, e della Paura e della Schiavitù; i Ladri di Tempo che mantengono il Sistema, oleando tutti i suoi ingranaggi pur potendoli fermare: che sono in fondo i Tiepidi, i Meschini, gli Opportunisti, gli Sfruttatori dell’Altrui Tempo, gli Affaristi, i piccoli giocatori di Borsa, i piccoli proprietari, i comunisti, i fascisti, i socialisti, i democratici, i qualunquisti, i depravati, i vigliacchi, i disonesti, i criminali che contribuiscono nella loro indifferenza verso gli “ULTIMI” del Vangelo e quindi “vittime sacrificabili”, con tutta la proserpia, l’apatia, l’ignavia, l’ignonimia e l’ignoranza a mantenere una parte in commedia/tragedia “Conservando” il Sistema di Mammona, pur ripugnandolo, pur sollevando indignazione, per accontentarsi alla fine delle sole briciole assieme ai “Tengo Famiglia” e ad ogni “Contestatore senza Dio”. Le Guerre altro non sono, poi, che il modo per dare continuità al Sistema di Mammona e al Pensiero Unico dell’AntiCristo, attraverso la distruzione delle opere di Dio e degli uomini e la ricostruzione dell’abominio della desolazione.
Alla fine della storia che sto presentando, ognuna di queste Categorie ha il proprio “bottino” di guerra e fra di loro agiscono come in una unica filiera che li lega dall’inizio alla fine alla unica aspirazione del soldo felice. Fra questi i peggiori sono quelli di cui si sà meno di tutto: i Servizi Segreti al comando del Nuovo Ordine Mondiale (NOM) e che sono riusciti anche a modificare le intenzioni iniziali con cui si innaugurava il Concilio.
I servizi di Intelligence, che reggono per conto dei Padroni del Mondo e del sistema pluto-economico-finanziario attuale le sorti delle oligarchie imperialiste per lo sviluppo di una ingegneria sociale adattata al NOM, si servono oltre che di killeraggio di sovranità nazionali, di movimentazioni occulte del mercarto delle borse e degli spread, di furto di capitali privati, della introduzione con ampolle alchemiche ben dosate della immoralità diffusa presente a tutti i livelli sociali, economici, politici e religiosi, e anche di bullshit, falseflag, plagio emozionale e sistemi di disaggressione rosacrociani (sono i nuovi “sicari-iscarioti” o “assassini”) con l’eliminazione diretta delle eccellenze e dei testimoni della verità e del bene comune. Vivono di un mercato parallelo, organizzato tutto per loro, nonché favorito e legalizzato dalla massoneria imperialista di stampo talmudico-babilonese e dalle regine d’inghilterra e d’olanda-orange di retaggio luterano calvinista. I servizi di Intelligenze tra i quali spiccano i famigerati MI6, i Mossad, la CIA e via discorrendo, sono i veri Adelfi della dissoluzione.
Fra le fette di mercato, e non da poco conto, controllano anche: le cyberwar; le cronicizzazioni di malattie e cancri e la dipendenza dai psicofarmaci; la prostituzione, le escort, gli scandali, i gossip; i cerchi sovrastutturali dirigenziali di società editrici a loro volta controllanti e selezionatrici dei migliori informatori-imbroglioni; i mainstream, i social networks e l’intera internet; le varie hollywood e propagande di regime; i contractors (mercenari) e tutti i teatri di guerra; gli “anelli”della mafia e i circoli della droga (soprattutto su scenari bellici, all’origine quindi della produzione); i circoli del “golf” e delle caste; le “carte” riciclate, falsi e furti di identità; le industrie dei videogiochi e dei videopoker; il contrabbando di sigarette, alcolici e prodotti marchiati; l’opinion makers, leaders e agit prop; gli istituti di statistica e di indagine demografica; le sezioni giudiziarie ed i comitati dei diritti civici con i rispettivi centri per calunnia e diffamazione; le adulterazioni alimentare ed il riciclo degli scarti; lo smaltimento dei rifitui tossiti ed i controlli sul territorio; i sindacati, le gilde e le organizzazioni per i consumatori; i circuiti privè di pedofilia, pornografia, transgender e gaypride; i centri di prima accoglienza e le strutture per l’immigrazione; gli addestramenti, i poligoni per polizia locale anche all’estero e speciali force team; le strutture di controllo e gestione di risorse locali primarie (acqua, energia, telecomunicazioni, gas, RSU e inceneritori); le conversioni industriali ad uso militare e strategico; la shock economy, la shock ecology; i traffici d’armi, gli esplosivi e le demolizioni controllate; le organizzazioni non profit, non governative, i referendum e le agenzie di psyops; le strutture che foraggiano il terrorismo e annientano l’autodeterminazione dei popoli; le major informatiche, echelon e i sistemi di microchippatura; i manuali scolastici e i modelli scientifici; gli uffici brevetti e le camere di commercio; i commentari o i clichè che drenano sui forum “fiacchi” depistando o ammassando i lettori e le censure o i ricatti sui forum cattolici e di controinformazione, abbattendosi e contenendo i commentatori forti; le macellerie sociali del terzo mondo, l’ignoranza e la lotta di classe; le gendarmerie per il controllo della popolazione e le guerre invisibili con gli ultimi ritrovati della tecnologia e della farmacologia; le war e le exit strategy; le scuole di formazione professionale, della lingua inglese e le università libere; le programmazioni neuro linguistiche e i debunkers o informatori scientifici; l’mk-ultra, l’LSD, e progetti di controllo mentale e di massa; gli espianti degli organi illegali e i campi di concentramento; i servizi speciali di morte gestiti per la mafia, con la mafia, dalla mafia; gli omicidi esoterici, le messe e rituali satanici; il trattamento di prigionieri di guerra e i sequestri di persona; gli appalti e le commesse pubbliche “straordinarie”; le carceri e la protezione civile o FEMA; i fondi neri e lo occultamento di tangenti anche attraverso lo IOR; i colpi di Stato e le rivoluzioni; i centri per il controllo del clima, del tempo, delle haarps e delle emergenze artificiali; il riciclaggio di denaro sporco; la chiaromanzia, l’astrologia, gli oroscopi; e così via, per tutti i piani dell’immoralità e della menzogna, del crimine e degli attentati, nessuno abuso escluso, tutti diligentemente tenuti sotto osservazione attraverso i “media” ed il simbolismo esoterico. Ci sono loro per governare le operazioni più oscure e più sporche, più neglette e più diaboliche dove nemmeno la peggior mafia oserebbe mai arrivare e senza cotanti coperture e clienti. Sono agenti pluripotenziali, che hanno una contabilità straordinaria, sempre rimpinguata dai grandi affari che hanno come unico centro amministrativo la “cultura della morte”. Sono i migliori affiancatori dei Cavalieri della Apocalisse per: genocidi e stermini di massa in tempi di pace (anche le rivoluzioni colorate gli riescono piuttosto bene), pestilenze, carestie, catastrofi. Ma sono anche i garanti dell’ordine pubblico democratico.
Dunque, se anche sorgesse qualche dubbio sulla fondatezza di ciò che dico, andate a vedere i nomi di tutti i Capi della CIA degli ultimi 70 anni compresi quelli dell’OSS. E se non è sufficiente, prendete in mano anche le pagine delle deleghe di attribuzione di potere alla FEMA controllata dalla CIA in caso di calamità naturale o massima emergenza. Sarà facile comprendere che fra tutti i poteri, uno solo può controllare ogni ambito di governo. Capirete pertanto perché la massima scongiura ed il massimo appello sono serie di terremoti.
La verità nascosta e alcuni indizi
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Pasolini. Un indizio compare dall’ingrandimento di una fotografia. Il film scomodo di Federico Bruno «Pasolini la verità nascosta», l’intervista con uno dei protagonisti di una stagione all’inferno
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Aldo Colonna
EDIZIONE DEL
14.03.2015
«‘na foto è come ‘na pizza/ ‘a sparmi, l’allunghi,‘a poi fa’ rotonna o tutta quadra/e ce metti l’ingredienti che voi te./ Si te posso da’ ‘n conzijo te direi de falla quadra/all’angoli ce metti un po’ de robba che t’eri creso nun c’entrasse più./ Io sto a parla’ de quella pizza quadra cor fagotto ‘n basso,/ la madama colla cicca ‘n bocca che cerca quarche cosa ner taschino e/,indietro,‘n zacco de pischelli a curiosa’./ Allunga ‘a pasta allora nell’angolo de destra,quello in arto,e me pijasse ‘n corpo/poi vede’ ‘na ‘pparizione, come la Madonna der Divino Amore, solo che cià le vesti de un monello / co’ li capelli lunghi lunghi che sembrano appicicati colla còlla/ e le basette che oggi nun se lasseno più cresce’ ./»
Questa ballatetta plana nella cassetta delle lettere e mi impone la risoluzione di una specie di sciarada. È anonima, ça va sans dire, ma è scritta in un romanesco ‘acculturato’, proprio non solo di chi è romano ma che presuppone, anche, una certa proprietà di linguaggio. La prima persona che m’è venuta in mente è Renato Danesi proprio per la padronanza che ha della lingua italiana, ancorché modulata dalla cadenza romanesca, dal giusto uso della consecutio temporis, da quelle pause brevissime che usa nel linguaggio parlato tipiche di chi non vuole sbagliare e di chi, mentalmente, sta assemblando un periodo e voglia che sia conseguenziale e privo di incespicature grammaticali e lessicali. Epperò è solo un’associazione di idee prive di sostrato documentale e anzi vorrà scusarci il Danesi per averlo scomodato senza costrutto.
Qual’è l’analogia tra una pizza e una foto? E perché entrambe possono essere ‘spalmate’? Alla fine l’analogia è chiara: ‘spalmare’, nel caso di una fotografia, vuol dire ‘ingrandire’. Gli elementi per cercare la foto sono meno criptici. È una di quelle scattate il giorno dopo il delitto. Il corpo di Pasolini giace in terra coperto da un lenzuolo sporco di sangue in tutta la sua lunghezza e ancorato alla terra da due mattoni. In secondo piano, sulla destra, compaiono due poliziotti in divisa e, avanzato, uno in borghese, giubbetto nero di pelle, calzoni a zampa di elefante, con una sigaretta al centro della bocca intento a cercare qualcosa –verosimilmente un accendino– nella tasca sinistra dei pantaloni. Fa da fondale una teoria di pischelli (in età compare solo un uomo, sulla sinistra, coi baffi) tenuti a bada dal filo spinato. Fatto l’ingrandimento, l’attenzione è monopolizzata dall’angolo destro superiore e –aveva ragione l’estensore della poesiola– per poco non mi prende un colpo. L’ingrandimento fa emergere –è quello immediatamente a destra del poliziotto– una figura dalle caratteristiche somatiche molto prossime a quelle di Maurizio Abbatino. In rete circola una sua foto di quell’epoca, quando aveva 21 anni. Al netto da eventuali smentite –anzi, vorremmo nei limiti dell’umano che l’interessato entrasse nella discussione– la domanda che nasce spontanea è che cosa ci facesse proprio in quel posto Maurizio Abbatino. Saremmo meravigliati se Abbatino si stesse recando a pescare cefali e si fosse fermato lì per caso, attirato dal chiacchiericcio indistinto della canea di pischelli attirati morbosamente dal mort’ammazzato. Se realmente si trattasse di Abbatino si aprirebbe uno scenario completamente nuovo nell’affaire Pasolini, vorrebbe dire che la Banda della Magliana, incontrastata agenzia del crimine, sarebbe stata l’affidabile longa manus del regime per togliere di mezzo lo scomodo polemista.
Neofascismo, P2 e mafia possono essere senza tema di smentita definite la «polizia ausiliaria del regime» (la definizione è di Vincenzo Vinciguerra). E la banda della Magliana ha avuto con questi poteri criminali –e spesso occulti– più di un addentellato. Basterebbe ricordare la Orlandi, della cui sparizione fu scomodata senza smentite proprio la banda. O l’omicidio Pecorelli. Ci sarebbe, nel caso, da far conciliare la presenza dei siciliani quella orrenda notte.
Presenza testimoniata da soli due elementi: una Fiat 1300/1500 targata ‘Ct ’ e il termine ‘jarrusu’ sentito pronunciare da Pelosi. Il discorso della targa può essere spiegato in maniera molto semplice. È verosimile cioè che fosse una targa farlocca, tipica dei servizi deviati se nessuno volle fare un’operazione semplicissima, quella di effettuare una visura al PRA. E delle due l’una: se la macchina era regolare sicuramente era stata rubata a ridosso dell’operazione e una verifica lo avrebbe certificato: si sarebbe scoperto che apparteneva ad un ignaro proprietario. Vogliamo dire che non è certo una targa a determinare l’appartenenza geografica del proprietario. E se una verifica non fu effettuata fu perché si trattava di una targa di ‘cartone’. Quanto al termine ‘jarrusu’ (un termine dispregiativo, desueto persino in Sicilia, che indica un omosessuale) si dimenticano sempre due cose affrontando ab initio la faccenda: 1° che Pelosi era, soprattutto in quel frangente, una tabula rasa e che avrebbe detto TUTTO ciò che gli fosse stato comandato di ‘ricordare’, 2° che Pelosi è persona intelligente, furba, dalla memoria mnemonica e visiva eccellenti e, sostanzialmente, tendente alla menzogna. Spingendoci oltre potremmo azzardare che fu proprio questo castelletto l’ennesimo depistaggio per sviare i sospetti, quali che fossero.
Ma c’è ancora una ridda di elementi che ci insospettisce. Ancora non è stato spiegato perché nelle tasche di un boss assoluto come Danilo Abbruciati ancora caldo (era in trasferta a Milano per uccidere Roberto Rosone,vice presidente del Banco Ambrosiano che aveva negato ulteriori prestiti del Banco a società riconducibili a Flavio Carboni,e invece fu ucciso da una guardia giurata) venga rinvenuta un’agendina telefonica con il numero privato del Procuratore Guido Guasco (Guasco aveva scartato alcune delle verifiche sul caso Pasolini –ispezione della scocca dell’AlfA, rilievi sulle tracce degli pneumatici-). Gli omicidi prelevarono dalle tasche di Pasolini le chiavi del suo appartamento. O ne fecero rapidamente un calco o le sostituirono con uno ‘generico’. Fatto sta che il report della Polizia non stabilisce che il mazzo di chiavi inventariato tra gli oggetti rinvenuti nell’area siano correlati o correlabili all’appartamento di via Eufrate. Le chiavi sarebbero servite agli omicidi per introdursi in casa sua in assenza di Graziella Chiarcossi e la madre Susanna in quei giorni a Casarsa per il funerale. I criminali sottrassero il capitolo «Lampi sull’Eni» con un lavoretto che non era mai stato così agevole. Nessuna dietrologia quindi dietro l’invito alla Chiercossi a ritirare la denuncia per furto: in assenza di effrazione nessuna denuncia può essere accettata. Rimarrebbe un tassello tutt’altro che insignificante.
Di Dell’Utri si può dire tutto ed il contrario di tutto ma non che sia uno stupido. Stupidi dovette pensare lui che fossero gli interlocutori quando annunciò di aver trovato il capitolo di «Petrolio» –essenziale per capire la motivazione dell’assassinio– promessogli da un fantomatico corriere, e quando tornò sui suoi passi asserendo che lo stesso si era rimangiato la parola. Per parafrasare le parole di Pasolini potremmo dire che Dell’Utri ‘sa’. Questi movimenti sono propri del ‘consigliori’: io butto l’amo sperando che qualcuno abbocchi poi non c’è da meravigliarsi se, dietro pressione o su consiglio motivato di qualcuno, io quell’amo lo tolga dall’acqua. La verità è un esercizio complicato e si guadagna per ‘tessere’, proprio come quelle di un mosaico. Ma l’arma più micidiale del Potere è l’oblio. Tende a sviare, per rimandi, con equivoci creati a bella posta, in un gioco di specchi a tratti ustori a tratti labirintici tali da far perdere agli inquirenti la strada maestra. Si avvicenderanno le generazioni e Pasolini rimarrà, cristallizzato, nei libri di testo. Già oggi, per le giovani generazioni, il suo è un nome sbiadito; solo un ventenne con un buon grado di acculturazione saprà parlarvene. Solo oggi noi sappiamo che il DC 9 dell’ Itavia fu abbattuto da un missile. Francese, americano? Quando la risposta giusta verrà ufficializzata, l’Italia sarà alle prese con altre problematiche e l’indignazione sarà stemperata da altre indignazioni. D’altronde,se fu commissionato l’omicidio di Rosone per un diniego opposto ai potentati, è così peregrino pensare che Pasolini venisse trucidato per un segreto che avrebbe messo in ginocchio la Repubblica? D’altronde, un target si elimina in modo ‘silenzioso’,lontano da occhi indiscreti. Per Pier Paolo sarebbe bastato un cecchino ma questo avrebbe ingenerato immediatamente una ridda di congetture. Molto meglio il massacro per mano di omofobi che riscattassero così l’italica virilità. Noi continuiamo la lotta.
Il film
E’ strabiliante il divario tra il potere delle major e la produzione indipendente e vogliamo riferirci proprio al livello qualitativo che non è sempre proporzionale e proporzionato alle forze economiche in campo, e che non sempre sono ‘propulsive’ del prodotto. Abel Ferrara ha confezionato, ad esempio, un «Pasolini» con accenti accorati dove è assente però un minimo di ricerca storiografica con quel finale assolutamente prevedibile e buono solo per la buona coscienza dei benpensanti: Pasolini vittima del suo ‘vizietto’. Vogliamo parlarvi di Pasolini, la verità nascosta del regista Federico Bruno, filmaker con alle spalle diversi corto e lungometraggi, già assistente di Vittorio Storaro, che ha venduto il suo appartamento per confezionare il suo lungometraggio: 350.000 euro ricavati dalla vendita dell’immobile,350.000 euro il costo della pellicola.
Girato in un b&n d’antan, sugli stilemi propri del cinema vérité, il film –della durata di poco superiore alle due ore che scivolano via con la leggerezza di un corto– ha alle spalle mesi di preparazione e di ricerca investigativa. Bruno ricostruisce per intero,con l’ausilio del suo falegname di fiducia, tutta la mobilia di tutti gli interni delle case di Pasolini: via Eufrate all’Eur, Chia nel viterbese, etc. L’appartamento all’Eur, oggi passato ad altri proprietari, è risultato tabù al punto di minacciare il regista del ricorso alla Polizia; era stata rivolta una semplice domanda sulle reali possibilità di visionare le antiche stanze. Gli eredi non hanno accordato permessi di sorta tanto meno l’ingresso alla torre di Chia. L’epilogo descritto da Bruno è speculare a quello del giornalismo d’assalto: fu un delitto su commissione delegato alla manovalanza criminale portata sul posto dal giovane Pelosi convinto di un semplice furto ai danni dello scrittore e, al limite, di una ‘lisciatina’ ma ignaro del sabba di sangue. Il film ripercorre gli ultimi 10 mesi di vita di Pier Paolo in modo cadenzato, per stanze. Gli incontri, il montaggio di Salò, le amicizie, le frequenti partenze, l’idea –ottima– dell’intervista continua condotta da Gideon Bachman come un leit-motiv, l’intervista rilasciata a Furio Colombo, la quotidianità con i suoi angeli custodi –la cugina Graziella e la madre Susanna– , i continui dilemmi da cui era vissuto, la ‘contaminatio’ con elementi della mala usati come testimoni del tempo e della banlieu da cui si potessero trarre nuovi spunti per una letteratura tutta da scrivere, una volta accantonata la sua funzione di aedo delle borgate, dove si viveva ancora con regole elementari ma rispettate dai nativi. L’appunto che potremmo muovere a Bruno è questo: una volta abbracciata la chiave espressionista e abiurato alla cifra simbolista, avrebbe dovuto essere conseguente. Furio Colombo appare troppo grasso, Ninetto Davoli risulta caricaturale, Pelosi è un angelo dai capelli biondi, Antonio Pinna troppo letterario (nella realtà è un uomo di statura inferiore alla media e di corporatura robusta; si è ventilato che fosse lui alla guida dell’Alfa che sormontò il corpo di Pasolini, uccidendolo; è lo stesso che comparve in compagnia dello scrittore al Pincio per l’incontro con i giovani comunisti e che Borgna, presente, si sarebbe chiesto successivamente chi fosse, subdorando che l’uomo potesse essere coinvolto nell’omicidio). Giganteggia però Alberto Testone, odontotecnico della Borgata Fidene, che impersona un Pasolini credibile e convincente. Ne ripercorre le movenze, ne imita in modo naturalistico la voce e la postura. Il film è, per molti versi, naȉf ed usiamo il termine, in questo contesto, nella sua accezione migliore e artisticamente più rilevante. È la prima volta che l’Italia produce un film su Pasolini ed è sconcertante che sia autoprodotto. L’ANICA rifiutò di vederlo, come pure Barbera a Venezia e Mȕller a Roma. Roberto Ciccutto, allora all’Istituto Luce, tentò con Bruno una sorta di gioco delle tre carte proponendogli di accantonare il progetto e di lavorare ad un documentario con il materiale presente negli archivi del Luce; Borgna non lo volle nell’ambito della mostra sull’artista. Vincenzo Cerami e Dacia Maraini non presenziarono all’anteprima organizzata alla Casa della Cultura in largo Mastroianni. Pasolini,la verità nascosta dovrebbe non solo essere acquisito da un distributore ma, anche, veicolato nelle scuole, nelle Università, negli Istituti di Cultura stante la sua forza dirompente, la sua plasticità, la sua volontà di denuncia, il suo continuo rifuggire da approssimazioni hollywoodiane, la sua necessità di testimonianza.
Intervista a Antonio Mancini
Antonio Mancini è stato elemento di spicco della cosiddetta Banda della Magliana. Personaggio atipico nel panorama della banlieu, Mancini è stato da sempre un attento lettore dell’opera letteraria di Pasolini e studioso –nei limiti dell’affanno di una vita criminale– del marxismo. Dopo gli anni del carcere, esaurita la forza propulsiva di una ribellione quasi terzomondista, Mancini vive ora nelle Marche in una casa che ha il sembiante di un ambiente monastico e che ricorda molto da vicino la casa dove abitava da adolescente nella borgata di San Basilio a Roma. Quasi una sorta di nemesi che gli impone una riflessione quotidiana e senza infingimenti. Nella sua breve biblioteca spiccano varie opere di Marx ed Engels, altre di Trockij, una Cronaca della rivoluzione russa di Sukhanov. Non fa mistero della sua predilezione per due miti contemporanei, Che Guevara e Don Gallo. Da anni si dedica all’accompagno di disabili –che lui chiama i ‘dolenti’- e al soccorso di anziani bisognosi e in difficoltà, mettendosi al loro servizio. Gira per le scuole perché i giovani non facciano le stesse ‘fregnacce’. Non ha perso l’allure di una volta; è solare, comunicativo e, a tratti,un po’ guascone. È palpabile la sua voglia di compenetrarsi in una normalità troppo a lungo fuggita e oggi,forse,unica salvezza. Lavora alla riedizione, per i tipi della Rizzoli, della storia della Banda intitolata Con il sangue negli occhi che uscirà in estate. Il libro si arricchirà di un’appendice su fatti e misfatti di Mafia Capitale.
Hai sempre dichiarato di essere comunista. Come si concilia questo con la tua scelta di vita?
Perché ho capito che i problemi nostri, i problemi delle masse, nessuno li risolveva. E allora dovevamo risolverceli da soli. Chiaramente non sto indicando la mia come una strada da seguire, voglio dire che avrei potuto tranquillamente imbracciare il mitra e fare il brigatista. C’era in me –ma anche in giro– una rabbia e un malcontento che dovevano incanalarsi in una direzione quale che fosse. Noi vivevamo in otto in una casa piccola, mangiavamo tutti i giorni minestrone, mio padre era un brav’uomo, comunista, che cercava di darci una vita migliore anche umiliandosi. E ricordo come fosse adesso la ‘rivoluzione delle case occupate’ a San Basilio,nel ’74, e l’uccisione di un ragazzetto innocente come noi, Fabrizio Ceruso. Mi ricordo che nel servizio d’ordine c’era Erri De Luca. Lui è rimasto incazzato ma Liguori che fine ha fatto? Io vivevo in una favela, mio padre aspettava la rivoluzione.
Possiamo chiamarlo, tanto per intenderci, destino: ci si trova in un posto piuttosto che in un altro. Potrei citare Pavese: «Ogni uomo ha un destino» o, per volare basso, fare riferimento a un film come «Sliding doors».
Esattamente, io lo chiamo viaggio sciamanico. In un altro contesto sarei diventato un brigatista rosso, sarei comunque ‘esploso’. Sono stato in carcere con più di un brigatista, ragazzi in gamba, preparati, spesso acculturati e –ciò che più mi colpiva– dei duri. Noi criminali comuni capitava che ce le dessimo con le guardie carcerarie ma poi capivamo che era meglio lasciar stare loro no, loro cercavano sempre lo scontro. Conobbi da vicino Ferrari, Naria tutta gente di cui avevo sentito parlare quando, da libero, mi capitava in mano un ciclostilato intitolato «Mai più senza fucile». Era questa l’atmosfera.
Le guardie usavano disparità di trattamento con le varie tipologie di detenuti?
No, è un luogo comune pensarlo. Le guardie o menavano a tutti, senza guardare in faccia nessuno o si genuflettevano davanti a tutti. Ho usato il plurale ma la mia considerazione riguarda quelle pagate. Ai brigatisti menavano di meno. Il discorso cambia nei carceri speciali: lì, quando arrivi alla matricola, ti danno subito il benvenuto, indipendentemente da chi sei.
«Romanzo criminale» è fedele?
Ci sono molte situazioni costruite, altre completamente romanzate.
Vi è capitato di incontravi ancora, dopo, con gli altri della Banda?
No, non ci siamo più visti. Se hai deciso di metterti alle spalle il passato, ti devi mettere alle spalle tutto ciò che lo riguarda e lo racchiude.
Rimorso, pentimento, redenzione.
Io sono ateo e queste le considero categorie cattoliche. Ero io che uccidevo, io che facevo rapine, non incolpo nessuno, me ne sono assunto la responsabilità. Mi domandi se rifarei le stesse cose? La risposta è NO.
Un desiderio, un rimpianto.
Un desiderio,impossibile: mi piacerebbe ricominciare tutto da capo magari fermandomi alle rapine ai furgoni blindati. Al limite. Il rimpianto è aver visto morire gente come Eduardo Toscano, Nicolino Selis, Renatino De Pedis, il «Guancialotto», «Er Catena», tutta gente con la quale ero cresciuto. La cosa peggiore è che cominciammo a sbranarci tra noi, una lotta fratricida. Oggi penso: per che cosa sono morti? Per il denaro, per un effimero potere, perché qualcuno di noi voleva diventare come quelli che combattevamo! Non ti fissare con Romanzo popolare, solo Pasolini era riuscito a descrivere bene, in modo compiuto, gli ambienti che ci avevano espresso. La banda è finita in una pozza di sangue e di fango. E io penso a Carminati che, ricco com’è, a sessant’anni si mette a parlare del mondo di sopra e del mondo di sotto.
E allora perché lo faceva?
Per il potere, sempre per il maledetto potere.
Com’è la libertà?
È bellissima, ma quando abbracci una scelta lo metti nel conto che, prima o poi, la puoi perdere. Ho voluto che una mia nipote si chiamasse Cheyenne. Tu dirai «bello, magari un po’ orecchiato» ma sai perché ho voluto che avesse quel nome? Perché viviamo tutti in una riserva.
Che rimane di quella stagione?
Ascolta quello che ti dico. Si spara di meno, molti meno morti sull’asfalto e sai perché? Perché il tempo della semina è terminato, chi è rimasto raccoglie.
Oggi Berlusconi è stato assolto.
Sai quante volte sono stato assolto io? eppure…anche Carminati fu assolto per l’omicidio Pecorelli! L’assoluzione non conta niente, i conti si fanno con la Storia. Se fosse vivo De Pedis oggi sarebbe come minimo sottosegretario e Berlusconi è solo un De Pedis in sedicesimo. Io ho smesso di arrossire quando ho scoperto con chi avevo a che fare.
Perché ti sei prodigato nell’assistenza ai disabili?
Un giorno ho visto un ragazzetto dentro uno di quei pulmini che portano in giro le persone con handicap e ho avuto come una specie di folgorazione. Ho chiesto a un mio amico commissario se poteva inserirmi e mi ha accontentato, ha garantito per me. Dovevo in qualche modo ridare indietro qualcosa, sempre niente rispetto a quello che avevo preso. E poi mi hanno insegnato una verità incontrovertibile: siamo noi i disabili.
Ti capita di uscire fuori del seminato qualche volta?
Direi che, cambiando vita,ho acquistato più controllo su me stesso. Eppure una volta ho visto un uomo che picchiava la sua donna e allora ho preso da casa una bottiglia e mi sono avventato su di lui. «Perché le metti le mani addosso?» Lui ha avuto paura e se ne è andato,la donna mi ha ringraziato. È stato un bene per tutti e due, per me e per lui.
Ti mostro questa foto –gli mostro la foto con il corpo di Pasolini coperto da un lenzuolo-, questo potrebbe essere Abbatino?
No, non credo, piuttosto questo biondino al centro mi ricorda Johnny Lo Zingaro e questo dietro la scaletta ha i tratti del marchettaro: non mi convince.
Di quella notte che riflessioni puoi fare?
Su due piedi io non avrei lasciato vivo Pelosi troppo scomodo lasciare in giro un testimone di 17 anni. E poi, se sono un professionista e non mi faccio prendere dall’ansia io smonto la macchina per prendere i soldi, che dovrebbe essere il motivo dell’imboscata. Ma fu questo il motivo?
Come quella pantomima di Dell’Utri e del capitolo mancante.
Bravo, hai centrato il problema. Prima dice che uno sconosciuto gli ha promesso uno scritto di Pasolini, poi si rimangia la parola e dice che quello gli ha rifilato una sola. È evidente che ha lanciato dei messaggi, bisognerebbe capire che cosa volesse dire con quei messaggi. E a chi parlasse. Di Dell’Utri si può dire tutto ma non che fosse uno stupido.
intervista di Aldo Colonna
A 11 ANNI DAL SUO ESORDIO, AL VIA LE RIPRESE DELLA MACCHINAZIONE
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DAVID GRIECO, LA MIA VERITÀ SU PASOLINI: “NON VOGLIO PREMI, IL CASO VENGA RIAPERTO”
Amico e collega del regista e scrittore racconta di avere elementi importanti che possono aiutare a far luce su un caso che a distanza di 40 anni rimane ancora da capire. A interpretare Pasolini, Massimo Ranieri Tweet14 di Laura Squillaci 01 novembre 2014 Quando il 2 novembre del 1975 il corpo senza vita di Pasolini fu trovato all’Idroscalo, David Grieco fu tra i primi ad arrivare sul posto insieme al medico legale Faustino Durante. Aveva cominciato a lavorare nel cinema giovanissimo proprio con Pasolini e i due erano legati da una profonda amicizia; a lui la famiglia chiese di scrivere la memoria di parte civile del primo processo per l’omicidio. Grieco aveva deciso di chiudere con una storia che lo ha fatto soffrire. E invece, quasi per caso, è tornato dietro la macchina da presa (a 11 anni dal film d’esordio “Evilenko”, tratto dal suo romanzo “Il comunista che mangiava i bambini”) per parlarne ancora. La Macchinazione racconterà gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini. Come è andato il primo giorno di riprese? “Stranamente bene. E dico stranamente perché torno con un lungometraggio dopo 11 anni eppure mi sembra che siano passati 11 giorni. Abbiamo iniziato con una scena ambientata in una sezione dell’Msi ricostruita in un Teatro di posa fuori Roma. Ci sono almeno 60 attori non attori, ho fatto come Pasolini, ho scelto gente di strada”. David Grieco racconta che non avrebbe mai pensato di fare un film su Pasolini. “È nato tutto per caso. Un giorno Abel Ferrara mi ha chiesto di scrivere la sceneggiatura per il suo film su Pasolini. Dissi di no. Da lì ho capito che in realtà volevo tornare a parlarne perché ho raccolto una serie di elementi penalmente rilevanti che possono davvero far capire cosa è successo quel 2 novembre del 1975. Ma per ora non voglio svelarli”. Nell’estate del 1975 Pasolini sta montando il suo film più controverso, Salò o le 120 Giornate di Sodoma. Coscienza critica e anticonformista del nostro Paese, contemporaneamente scrive Petrolio, opera che denunciava le trame di un potere politico ormai corrotto. In quegli stessi giorni Pasolini frequentava un ragazzo di borgata, Pino Pelosi. È una borgata dove comincia a muovere i primi passi un’organizzazione criminale, la Banda della Magliana. Il 26 agosto viene sottratto dagli stabilimenti della Technicolor il negativo di Salò. Nella notte fra il primo e il due novembre del ‘75, Pasolini va all’Idroscalo per riavere il negativo del film. E invece tutto finisce quella notte. Da allora è stato raccontato di tutto: Pasolini ucciso da Pelosi che ha fatto prima da informatore per il furto delle bobine di Salò e poi da esca per l’agguato all’Idroscalo; Pasolini assassinato dalla banda della Magliana. Pasolini eliminato su ordine di Eugenio Cefis perché indagava sui traffici del presidente di Eni e Montedison che avrebbe fondato la P2 e nel ‘62 fatto precipitare l’aereo di Mattei. Pasolini si è fatto uccidere pianificando il suo martirio nei minimi dettagli, come sostiene l’amico e pittore Giuseppe Zigaina. L’omicidio di Pasolini per Grieco è frutto di una macchinazione con una serie di componenti che si incastrano casualmente. Da qui il titolo del film che racconta tutte queste tesi ma forse una in particolare: “Pasolini non aveva dei segreti, semplicemente raccontava quello che stava accadendo in Italia. Da Piazza Fontana in poi. È stato ammazzato per la sua scomodità, perché la sua voce era ascoltata. Io ho le prove di questa macchinazione. Esiste un dossier al Ministero dell’Interno secretato e che io vorrei fosse aperto. Sono sicuro che Pasolini aveva architettato la sua morte in tutto e per tutto. Lui ha fissato l’appuntamento all’idroscalo, sapeva come sarebbe finita ma lo ha fatto perché pensava che la sua morte sarebbe servita a qualcosa”. Ed è servita a qualcosa? “A renderlo immortale. La sua mancanza è ancora forte. Ricordo una cosa che mi disse Benigni che ho incontrato tempo fa. ‘Nella vita ci si dimentica di tutti, c’è qualcuno che non sa chi è Fellini. Ma l’unica persona che nessuno ha dimenticato è Pasolini’. Le cose che ha detto, i misteri sulla sua morte si sono tramandati di generazione in generazione. Il mio film racconta Pasolini. Perché Pasolini è di tutti e per tutti”. Il suo rapporto con il regista è iniziato quando aveva 10 anni, era un amico di famiglia. “Lui un giorno mi ha chiesto di fare l’attore ma io ero negato, gli ho chiesto di tagliare la mia parte nel film Teorema. Gli ho detto che volevo fare l’assistente. Sono diventato il suo rappresentante cinematografico poi il suo rappresentante politico. Da giornalista dell’Unità ero il suo intervistatore preferito facevo da tramite nel suo rapporto conflittuale con il Pci. Per me è stato un fratello grande. Una persona che non alzava mai la voce. Mite, gentile con una seconda anima molto virile”. Con la Macchinazione non vuole vincere un David di Donatello, né un Nastro d’argento, né l’Oscar: “Voglio che il caso sia riaperto una volta per tutte. Abbiamo il diritto di sapere che i suoi assassini siano individuati anche se non più perseguibili dopo 40 anni. Se non elaboriamo la nostra storia finiamo male”. Grieco è molto orgoglioso del casting, lo ha aiutato la famiglia Spoletini, la stessa che trovava gli attori per i film di Rossellini, Pasolini e Visconti. Poi racconta perché ha scelto Massimo Ranieri per interpretare Pasolini. “È stato naturale. Tutti dicevano sempre a Pier Paolo che assomigliava a Massimo Ranieri ma lui diceva no, non è vero. Poi un giorno si sono incontrati in spogliatoio dopo una partita di calcio. L’ha visto e gli ha detto ‘Hanno ragione a dirmi che mi somigli’. Ranieri è già l’alterego di Pasolini. Non dovrò nemmeno truccarlo tra loro c’è una somiglianza atavica”.
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